Nell'atto unico La lezione, comparso per la prima volta sul palcoscenico parigino nel 1951, Ionesco mette in scena tre personaggi con una storia paradossale e grottesca.
Un vecchio Professore riceve un’Allieva per una lezione privata, e ad introdurla è la Governante. Nelle prime fasi del colloquio, quando tutto sembra procedere secondo il consueto rituale didattico e le attese dello spettatore, con scuse e complimenti dall’una e dall’altra parte, l’Allieva chiarisce che i suoi genitori hanno molti mezzi e che potranno in seguito aiutarla a lavorare e a seguire studi molto superiori: desiderano dunque che approfondisca la propria cultura, al fine di presentarsi quanto prima ad un concorso per la «libera docenza totale». Il Professore propone di cominciare dall’aritmetica, «una scienza molto nuova, una scienza moderna, per essere esatti, […] un metodo piuttosto che una scienza», e, in una battuta ammonitrice dal sapore profetico, la Governante consiglia il Professore di non cominciare dall'aritmetica perché «è una cosa che stanca, che innervosisce». Dopo una serie di domande e risposte da questionario elementare, a seguito di un allucinato metodo di insegnamento il Professore finisce col trattare male l’Allieva, rimarcandone la scarsa preparazione in aritmetica, e decide quindi di passare ad un altro genere di esercizi, insegnandole quelli che sono i fondamenti della linguistica e della filologia comparata: al che la Governante se ne esce con una seconda battuta ammonitrice, invitandolo a non parlare della filologia che «conduce al peggio». Segue tutta una serie di sproloqui del Professore sulle differenze fra le varie lingue neo-spagnole e «le lingue austriache e neo-austriache o asburgiche», e i «gruppi esperantista, elvetico, monegasco, svizzero andorrano», e i «gruppi di lingue diplomatiche e tecniche», mentre l’Allieva, sempre più provata mentalmente e fisicamente dal gioco linguistico paradossale in cui viene trascinata, nonché dalla crescente aggressività dell’uomo, riesce solo a lamentarsi di avere male ai denti. Alla fine, il Professore uccide brutalmente l'Allieva con un coltello immaginario. «È la quarantesima volta, oggi – lo rimprovera la Governante –. E tutti i giorni è la stessa musica. Tutti i giorni. Non si vergogna, alla sua età... finirà per ammalarsi. E non troverà più allieve. Sarà ciò che si merita»; e il Professore replica «Non è colpa mia. Non voleva imparare. Era disubbidiente. Era una cattiva allieva. Non volava imparare». «E dire che io l'avevo avvertito un momento fa – aggiunge quindi la Governante –: l'aritmetica conduce alla filologia e la filologia conduce al delitto».
Mentre il Professore, assieme alla Governante, si occupa infine di far sparire il quarantesimo cadavere, il suono del campanello annuncia l’arrivo di una nuova allieva: e la storia è pronta a ripetersi.
Del testo di Ionesco sono state date letture diverse e diversi sono stati i significati che la letteratura critica ha colto in esso: di certo, comunque, linguaggio, potere, male e banalità sono al centro della scena. È innegabile che il Professore rappresenti un uomo banale e mediocre, ma malefico nella sua mediocrità: un uomo che utilizza il potere del linguaggio e la sua finta sapienza per manipolare, dominare e, alla fine, giustificare i propri delitti.
Ed ecco spiegato perché, paradossalmente, la filologia – intesa qui come amore per il linguaggio fine a se stesso – possa essere considerata come la causa scatenante dell'omicidio. Ma che legame c'è fra l'aritmetica – simbolo di univoca esattezza – e la filologia? E in che senso l’una conduce all’altra?
Ebbene, è attraverso la mistificazione del linguaggio, attraverso la mistificazione dei meccanismi logici sottesi al linguaggio stesso e attraverso l'affievolirsi del legame fra le parole e le cose, che l'aritmetica perde la sua esattezza oggettiva. La parola diventa un puro pretesto verbale che, in maniera mostruosa, finisce col distruggere la ragione. E, così come l'aritmetica, anche la filologia, nonostante la sua estrema precisione di metodo, diventa un'arma che abbruttisce la mente, distrugge la ragione, e fa emergere il mostruoso che è in noi, quando si trasforma in un vuoto gioco di parole, divenendo una somma di nozioni inutili e stravaganti senza alcun legame con le cose. Per di più, la non oggettività del linguaggio consente a chi lo possiede di 'imbrogliare', di giocare sui fraintendimenti della comunicazione.
La filologia – un amore per il logos fine a se stesso, dove logos è linguaggio, discorso, logica – può facilmente divenire oggetto di una cultura ridondante e pletorica, può facilmente diventare la maschera dietro la quale si può dissimulare la perdita di ogni punto di orientamento e l'assenza di senso: soprattutto se associata al potere, questa filologia può fare emergere il mostruoso che è in ognuno di noi.
Nella figura del Professore, con la progressiva crescita della sua violenza fisica e psicologica, domina incontrollata l’intenzione di soggiogare, di schiacciare, di usare il linguaggio e la cultura – se tale si può chiamare una somma di nozioni gratuite e stravaganti – come strumento di potere, come un’arma per abbrutire la mente, sedurre il corpo e infine uccidere: e si svela così anche la mostruosità che si nasconde nelle pieghe della vita quotidiana.
Seguono: 2. Che cosa è veramente la filologia / 3. La filologia letteraria e la sua funzione principale / 4. Materiali scrittorii e copisti / 5.Le scritture librarie / 6. Nozioni basilari di “critica testuale” / 7. Conservazione e trasmissione dell’eredità classica nel Medioevo / 8. La filologia nell’umanesimo / 9. La filologia medievale e umanistica