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Filologia in pillole - 3. La filologia letteraria e la sua funzione principale

2025-03-31 17:34

Claudia Pandolfi

Filologia, Plauto, Varrone, Omero, Biblioteca di Alessandria, Pisistrato, Nevio, Ennio, Cratete di Mallo, Elio Stilone, Lachmann, Critica neotestamentaria,

Filologia in pillole - 3. La filologia letteraria e la sua funzione principale

La filologia letteraria nacque nel III-II secolo a.C. all’interno della famosa Biblioteca di Alessandria, e nacque fondamentalmente per la necessità d

La filologia letteraria nacque nel III-II secolo a.C. all’interno della famosa Biblioteca di Alessandria, e nacque fondamentalmente per la necessità di ordinare la massa enorme di opere che vi confluiva. Dato il sistema di produzione dei libri antichi, date le corruttele dei testi copiati a mano, in molti passi non si riusciva più a discernere il senso voluto dall’autore, mentre in molti altri le varie copie di varia provenienza mostravano divergenze notevoli. Le più gravi discordanze erano nei testi omerici, tramandati oralmente per diversi secoli, prima che, ad Atene, nel VI secolo, ne fosse allestito per ordine di Pisistrato il primo testo scritto; peraltro, l’abitudine di leggere la poesia epica non nacque certo immediatamente, e i libri – di Omero come di altri autori – rimasero una rarità fino al V secolo avanzato, quando cominciò ad esistere una sorta di commercio librario, che, sviluppatosi poi rapidamente, portò ad una rapida e diversificata moltiplicazione di copie a partire dal IV secolo. La complicata storia della loro trasmissione fece necessariamente di Iliade e Odissea l’oggetto principale di indagine.  

A Roma, poco si sa del modo in cui la letteratura fu tramandata nei primi due secoli della sua vita: non esistevano però biblioteche pubbliche, né studi filologici volti a conservarne criticamente il contenuto. Alcuni testi ebbero fortuna maggiore, come la poesia epica ‘nazionale’ di Nevio ed Ennio, che ricevette attenzioni erudite in epoca relativamente antica: secondo Svetonio, lo studio della grammatica – inteso come interesse ‘accademico’ verso la lingua e la letteratura – fu introdotto a Roma per la prima volta nel 168 a.C. dallo studioso di Omero, Cratete di Mallo, e l’interesse si volse appunto a Nevio e ad Ennio. Altri autori e generi letterari furono meno fortunati: basti pensare ai testi teatrali e, in particolare, alle commedie plautine. Scritte per la rappresentazione, acquistate dal magistrato, tramandate come copie per la scena, le commedie di Plauto vennero infatti tagliate, accresciute, modernizzate, falsificate, fino ad arrivare al numero di 130: e, per ricevere attenzione adeguata, dovettero aspettare il I secolo, quando Elio Stilone ridusse a 25 il numero di quelle autentiche, e Varrone, nel De comoediis Plautinis, ne identificò poi 90 come spurie, 18 come incerte e 21 come autentiche (le 21 giunte fino a noi).

     

Da allora la filologia letteraria cominciò il suo percorso storico, esercitandosi sempre sui testi dell’antichità, affinando i suoi metodi, fino alla svolta dell’umanesimo, che segnò la nascita di una nuova e moderna filologia.  

Da questo momento il rigore scientifico nel rapporto col testo scritto, sia esso religioso o no, diventa una costante: basti pensare al lavoro di Erasmo, che, nell’affrontare la vulgata del Nuovo Testamento, si arma di tutta la documentazione possibile e procede senza alcun pregiudizio o timore, nella convinzione che, come i copisti avevano viziato i codici, così i filosofemi, i ragionamenti dimostrativi, i concetti, costruiti su di essi, rischiavano di travisare il senso corretto delle sacre scritture.   

E l’importanza che, per lo sviluppo scientifico della filologia letteraria, assume la liberazione dal pregiudizio e dal timore, proprio nell’affrontare i sacri testi, è dimostrato ulteriormente dalla svolta decisiva che, per la filologia, si registra nel XVIII secolo: svolta determinata da un gruppo di filologi, che erano teologi protestanti. Dalla critica neotestamentaria, i principi elaborati passarono presto alla filologia classica, e, fra il XVIII e il XIX secolo, trovarono autorevoli continuatori: soprattutto il Lachmann, che, con la famosa edizione di Lucrezio del 1850, consacrò definitivamente le regole della nuova critica testuale. Nascono in questi anni anche le nuove filologie: la filologia germanica, le filologie romanze, la filologia mediolatina.        

 

Sarebbe troppo lungo un discorso organico sulla storia di questa filologia: dobbiamo però almeno accennare alla sua funzione primaria; e dobbiamo anche parlare della trasmissione dei testi, fornendo quanto meno informazioni sui materiali scrittorii, i copisti e le scritture nell’era del manoscritto; dobbiamo infine chiarire alcune nozioni basilari di critica testuale.     

Sulla funzione primaria, cito dal testo La filologia, di Lucia Cesarini Martinelli (Roma, Editori Riuniti, 1984).  

Dopo aver parlato delle possibili e inevitabili alterazioni nei messaggi orali (partendo dal gioco del ‘telefono senza fili’) e delle diverse cause che li provocano (difetti di ascolto e di pronuncia, meccanismi mentali dovuti a ‘ignoranza’ – come, ad esempio, “agiografia” (= agios+grapho =studio relativo alla vita dei santi) che diventa “geografia” –, o dovuti a ‘divagazioni del pensiero, a ‘interferenze’ ecc.), scrive la Cesarini Martinelli: «La trasmissione scritta è il mezzo attraverso il quale gli uomini si comunicano da millenni le loro idee più importanti e universali. Quelle che riguardano la scienza, la religione, la politica, la letteratura […]. Un testo molto letto e molto diffuso è anche molto trascritto, ed è sottoposto a ogni copia, a ogni trasmissione, al pericolo di alterazioni che potrebbero snaturarlo. Il rischio è stato avvertito da epoche remote e si è cercato di correre ai ripari. La filologia nasce come disciplina tesa ad assicurare la corretta trasmissione dei testi scritti […]. Il suo primo compito è quello di verificare che un testo sia trasmesso nella forma in cui l’autore l’ha composto a suo tempo. La filologia si può definire la scienza dell’autenticità dei testi […]. Non si preoccuperà di distinguere inizialmente in un’opera di letteratura il bello dal brutto, né in un’opera di scienza il vero dal falso. Si sforzerà invece con ogni mezzo di comprendere che cosa l’autore ha voluto veramente dire, per poter separare il suo pensiero e le sue parole autentiche dalle alterazioni nate nel corso delle trasmissioni». Paragonando poi il lavoro del filologo a quello di un restauratore, indica quali conoscenze sono necessarie al filologo per procedere al restauro: conoscenza approfondita della lingua dell’autore, dell’epoca in cui egli è vissuto, della cultura e delle idee che l’opera rispecchia: «altrimenti – afferma – non è in grado di esercitare la critica con cui separa il messaggio autentico da quello adulterato». Conclude poi: «Poiché il filologo è un uomo come tutti gli altri, difficilmente resterà insensibile ai valori espressi nel testo su cui lavora. Sarà portato a dare giudizi sulla bellezza di una poesia, sulla coerenza di un’idea politica o filosofica. Questi giudizi non ostacolano il suo lavoro, anzi in più di un caso lo potranno addirittura aiutare a risolvere questioni di autenticità. Spesso l’opera del filologo si sovrappone a quella del critico letterario, dello storico della cultura, del linguista. Non sempre è facile, né utile, segnare confini rigidi fra le competenze dell’uno e quelle dell’altro. Le discipline che riguardano l’uomo e la sua storia non sono nettamente definibili. Tuttavia il centro dell’interesse del filologo resta sempre il testo e il problema della sua genuinità» (p. 11ss.).