«Non perdere tempo a discutere con gli sciocchi: la parola ce l'hanno tutti, il buonsenso solo pochi. CATONE»

 

Innanzi tutto, la massima non appartiene al famoso Marco Porcio Catone, detto il Censore – quello che, a conclusione di ogni suo discorso in Senato, pare fosse solito ripetere «Ceterum censeo Carthaginem delendam esse» (Per il resto ritengo che Cartagine debba essere distrutta) –, ma è tratta dai Disticha – o Dicta – Catonis (Detti di Catone): una raccolta di sentenze morali in versi – ognuna di due esametri –, di paternità e origine incerte, risalente probabilmente al III o al IV secolo d. C., molto famosa durante il Medioevo.

 

In secondo luogo, la massima in oggetto, che è la decima del primo libro, per la precisione recita «Contra verbosos noli contendere verbis: sermo datur cunctis, animi sapientia paucis», ovvero, diversamente dalla traduzione data, «contro chi parla troppo (chi è verboso, prolisso) non misurarti con le parole: la facoltà di parlare è data a tutti, un animo saggio a pochi».

I verbosi sono coloro che usano troppe parole per esprimersi, che non hanno una giusta misura nel parlare (Gellio, Notti Attiche, IV, IX, XII): il termine può essere usato in senso dispregiativo, ma, nella latinità classica, non assume mai il significato di “sciocchi”. Ad esempio, secondo quanto ci riferisce Svetonio (Vita di Caligola, 34), l’imperatore Caligola voleva togliere da tutte le pubbliche biblioteche i ritratti di Virgilio e di Tito Livio, rimproverando al primo di non avere alcun ingegno e alcuna cultura, e al secondo di essere uno storico verboso e negligente (…ut verbosum in historia neglegentemque). Il favolista Fedro, dal canto suo, usa l’espressione verbosis strophis (favola 14) per indicare le chiacchiere furbe con cui un ciabattino imbonitore, vendendo una medicina spacciata per miracolosa, riesce a diventare famoso come medico. Nel carme 98, Catullo, rivolgendosi a un certo Vettio, da lui definito “disgustoso”, afferma che di lui si può dire ciò che si dice dei verbosi e degli stolti (verbosis et fatuis), ovvero che, con la sua lingua potrebbe culos et crepidas lingere carpatinas (leccare culos e scarpe da contadino). Questo Vettio, peraltro, è stato da alcuni identificato con tale Lucio Vettio, protagonista di episodi di delazione contro personaggi in vista, come parrebbe in qualche modo confermato dal riferimento alla lingua, che, nel caso di un delatore, avrebbe una connotazione ben motivata.

 

Vive nel XIII secolo il giureconsulto, teologo, letterato e politico, Albertano da Brescia, sul quale ben poche sono le notizie documentate: studiò probabilmente a Bologna negli anni 1215-1220, e subì gli influssi del nascente francescanesimo; ascritto al collegio dei giudici di Brescia, occupò certamente alte cariche pubbliche nella sua città; nel 1238, nella lotta contro Federico II, che tentava di espugnare Brescia con un lungo assedio, gli fu affidata la difesa di un feudo vescovile; assalito dagli imperiali, fu fatto prigioniero e tradotto nelle carceri di Cremona, dove scrisse il primo dei suoi lavori filosofici De Amore et dilectione Dei (Il trattato della dilezione); liberato dal carcere dopo la sconfitta di Federico II, tornò a Brescia. Databile al 1245 è il suo Liber de doctrina dicendi et tacendi (Libro sulla dottrina del parlare e del tacere). Dopo il 1253, non si hanno di lui notizie documentate.

Il Libro inizia così: «Poiché molti sbagliano nel parlare e non c’è nessuno che sia in grado di tenere del tutto a freno la propria lingua… mi sono assunto l’incarico di esporre per te, Stefano, figlio mio, una breve dottrina sul parlare e sul tacere, compendiata in una formula che è la seguente: Interrogati ripetutamente su chi sia tu che parli, sul cosa tu dica, e a chi, perché, come e quando tu parli». Le varie parti vengono poi trattate singolarmente (I. “Chi”, II. “Cosa”, III. “A chi”, IV “Perché”, V. “Come”, VI. “Quando”):  prima di parlare – suggerisce Albertano al figlio – chiediti chi sei, e se ciò che vuoi dire ti si addice; assicurati che ciò che intendi dire sia vero o comunque utile a difendere il vero; considera bene se il tuo interlocutore è un amico ma pensa anche che potrebbe diventarti nemico; esamina attentamente le motivazioni del tuo parlare; ricerca per le tue parole la giusta misura nei toni e nella prontezza e nella ponderazione e nella quantità e nella qualità; presta attenzione al momento e taci fino al momento opportuno.

Nel capitolo III (“A chi”), compare l’esortazione a non parlare con chi è privo di saggezza e con gli stolti, con chi è portato a schernire, con i chiacchieroni (linguosi), con i cinici, con i malevoli… Riguardo ai malevoli, citando Agostino, Albertano scrive: «Sicut ignis quanto magis ligna susceperit semper in maiorem flammam erigitur, ita malus homo quanto magis rationem audierit semper in maiorem malitiam excitatur (Così come il fuoco si alza in fiamme più alte quanta più legna vi metti, così l’uomo malvagio quanto più sente esporre ragioni tanto più si accende nella sua malignità … In un’anima malevola non entra la saggezza». Continua poi: «Quare Cato dixit: Contra verbosos noli contendere verbis. Sermo datur cunctis, animi sapientia paucis» (Ragion per cui Catone disse: Contro chi parla troppo non misurarti con le parole: la facoltà di parlare è data a tutti, un animo saggio a pochi)». 

“Animo saggio” o “saggezza d’animo” non rendono forse fino in fondo il significato di animi sapientia: un’espressione che comunque indica  qualcosa di ben più forte del “buonsenso”. Animi sapientia  è, a mio avviso, una disposizione dell’anima, che guida l’agire, che riguarda le scelte fra bene e male; è una capacità morale innata, una conoscenza interiore. È un dono concesso a pochi, contrariamente alla facoltà di parlare che è concessa a tutti. 

 

Forse è legittimo affermare che non bisogna “perdere tempo a discutere con gli sciocchi”, e che la gran parte dei possibili interlocutori sono privi di  “buonsenso” – il che pone ovviamente chi lo afferma fra gli intelligenti e fra i pochi che quel buonsenso lo hanno –: ma, anche a prescindere dall’errore di attribuzione e dalla traduzione per così dire ‘falsata’ della massima,  mi chiedo e chiedo, pur avendo qualche sospetto, quale sia il senso del volersi rifare a Catone, autore peraltro non particolarmente famoso, più conosciuto per la sua attività politica che per le sue opere in gran parte perdute o conservate in frammenti.