Cicerone scriveva che «la storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera dell’antichità» («Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis», De oratore II, 9, 36). Sicuramente, la storia è interpretazione del passato, è memoria vigile e critica che si fa consapevolezza, è parte fondamentale della progettazione futura: e la conoscenza della storia – la memoria storica – contribuisce sicuramente all’acquisizione e allo sviluppo di quella coscienza storica, senza la quale, a livello socio-politico, sembrano destinati a ripetersi errori già commessi.

Ma la conoscenza della storia è fondamentale anche a livello per così dire estetico: ché, senza di essa, non si è in grado di ‘vedere’ davvero i luoghi d’arte visitati, non si è in grado di comprendere ed apprezzare a fondo alcuna opera d’arte.

Allo stesso modo, dietro ad ogni cibo, ad ogni bevanda, ad ogni oggetto della nostra quotidianità c’è una storia plurisecolare: e, come si viaggia meglio conoscendo la storia dei posti, così si mangia meglio, si assaporano a pieno i cibi se si ha la “coscienza storica” di ciò che si mangia.

 

 Le tradizioni gastronomiche dei vari territori italiani sono storie antichissime, sopravvissute ai secoli: raccontarle significa ristabilire un contatto diretto con la nostra storia millenaria e riallacciare i fili che ci legano alle nostre radici.

 

Garum è una parola latina di certo nota a pochi, e genericamente associata ad una imprecisata salsa di pesce, molto apprezzata sulle tavole dei ricchi nell’antica Roma.

Ma in che cosa consiste più esattamente questa salsa? E in che modo ha attraversato la nostra tradizione gastronomica?

 

Digitando “garum” su Google, compaiono un numero impressionante di siti che ne parlano: sennonché, aprendo i vari links, si finisce con l’essere immersi in una sorta di caos disorganizzato, dove ogni contenuto ha la stessa evidenza a prescindere dal suo effettivo ‘valore’, e dove non è quasi mai facile separare e distinguere le informazioni sicure da quelle parzialmente viziate o fuorvianti o totalmente infondate.

Studi scientifici, utilissimi riferimenti bibliografici e repertori di fonti classiche più o meno esaustivi, si alternano a improbabili e fantasiose teorie; abbondano siti di vendita online di salse di pesce chiamate “Garum”, pubblicità di esercizi commerciali con lo stesso nome, pagine di cucina ‘etnica’ che assimilano il garum a salse ancora in uso nell’estremo Oriente, ecc. Innumerevoli sono le ricette fornite - e servite - da vari chef o da cuochi improvvisati…

Peraltro, anche in esposizioni ben documentate e in pubblicazioni di buon livello non mancano errori, imprecisioni ed omissioni, che per di più ‘filtrano’ da un sito all’altro, da una pagina all’altra. Frequentissima è, ad esempio, la denominazione «garum o liquamen», che, senza darne spiegazione, sottintende una sinonimia dei due termini latini: è così che liquamen, più che con “salsa” o “salsa di pesce”, viene quasi sempre tradotto con “garum” (quando la sua traduzione più esatta sarebbe “colatura”), ed è così che si ingenerano confusioni e fraintendimenti anche all’interno di singole trattazioni.

È usuale il collegamento al più celebre dei gastronomi latini, Apicio, e al suo libro di ricette, che, ripetutamente, vien detto contenere una ventina di piatti conditi appunto col garum; c’è poi chi sostiene che Apicio qualifichi il garum stesso come un prodotto della fermentazione delle interiora di pesce al sole, affermando inoltre che da questa fermentazione si separerebbe un liquido da lui chiamato liquamen; altri affermano invece che, sebbene Apicio includa il liquamen nella maggior parte delle sue ricette, non si trova nel suo trattato alcuna indicazione su cosa tale liquamen sia, né un qualche accenno alla sua preparazione; al contrario, secondo altri, Apicio ce ne fornirebbe addirittura la ricetta più completa…

Insomma, per quanto concerne la comunicazione diffusa, la confusione è grande a tutti i livelli.

La situazione è ovviamente diversa nelle pur numerose pubblicazioni a carattere scientifico, che però godono notoriamente di scarsa e molto ristretta circolazione, senza contare il fatto che la maggior parte di esse sono in inglese, o in spagnolo, o in francese, o in tedesco… 

Questa mia piccola pubblicazione, col suo carattere divulgativo-scientifico, intende ricostruire la vera storia del garum attraverso  la ricerca e l’indagine delle fonti: fonti che vanno identificate, indicate, verificate nella loro autorevolezza; che vanno fatte parlare per quello che effettivamente sono in grado di dirci, senza forzature di sorta: perché, non a caso, la parola ‘storia’ deriva dal greco istorìa, che in prima istanza significa ‘ricerca’, ‘indagine’, ‘risultato di ricerca’, ‘conoscenza’. 

L’introduzione prende le mosse da un passo del Satyricon di Petronio, tratto dalla sezione relativa alla Cena di Trimalchione, che di fatto rappresenta una importantissima fonte documentaria in relazione alla ‘materialità’ del cibo. Ebbene, la Cena ci dice che a Roma, in età imperiale, nelle case dei ricchi si mangiavano carni di ogni genere, pesci, crostacei, molluschi, uova, pane, focacce, olive, frutti tipici odi origine esotica; che si utilizzavano spezie e condimenti preziosi; e che di ogni portata venivano ideate presentazioni coreografiche stupefacenti.

Fra gli innumerevoli piatti, è accuratamente descritto anche e un trionfo di pietanze varie, ai cui angoli quattro statuette facevano colare da piccoli otri garum al pepe sopra dei pesci, che sembravano così nuotare in una sorta di canale. Nulla ci viene detto sulla natura di questo prezioso condimento. 

Le fonti letterarie e i reperti archeologici ci tramandano l’esistenza di ben quattro salse di pesce nel mondo romano, ovvero il garum, il liquamen, la muria e l’allec: quattro salse, la cui diverse denominazioni testimoniano evidentemente di una reciproca diversità sostanziale.

Purtroppo, però, non solo non se ne conosce bene la rispettiva natura, ma – ciò che è peggio – le prime tre di esse, almeno per quanto concerne le testimonianze letterarie, sono state, nei secoli, oggetto di reciproca confusione: questo vale in particolare per il garum e il liquamen, ma anche per la muria. Quanto all’allec, seppure mai confusa con le altre tre salse, potendosi comunque definire come il sedimento prodotto dalla filtrazione del garum, risente anch’essa necessariamente della confusione del garum col liquamen e la muria

Da ciò risulta chiaro come non sia possibile parlare del garum senza esaminare attentamente anche le altre salse: e da qui l’esigenza di dividere la trattazione ‘salsa per salsa’ riservando ad ognuna un capitolo a sé stante.

L’importanza del ricettario di Apicio quale unico trattato culinario pervenutoci dall’antichità spiega infine  l’aggiunta di un capitolo intermedio volto ad esaminare la presenza di garum e liquamen al suo interno. 

In relazione al garum, le prime indicazioni relative alla sua preparazione ci vengono, nel I secolo d. C., dalla Storia naturale di Plinio, che scrive:

«C’è ancora un altro genere di sostanza liquida molto ricercata (liquoris exquisiti genus), chiamata garum: fatte macerare nel sale delle interiora di pesce e altre parti che si sarebbero dovute buttare, essa consiste nell’umore viscoso della putrefazione. Un tempo lo si produceva dal pesce che i Greci chiamavano garon, insegnando che, bruciatane per suffumigio la testa, se ne estraevano le interiora; ora il più raffinato si produce dallo sgombro nei vivai di Cartagena – è chiamato garum della Compagnia – al prezzo di mille sesterzi per più o meno due congi (circa 6 litri e mezzo); e si può dire che non ci sia alcun liquido, all’infuori dei  profumi, che abbia preso a costare di più e ad essere anche fonte di grande rinomanza per le popolazioni che lo producono… Lo scarto di questo garum è l’allec, un sedimento grossolano e non filtrato » (Libro 31, cap. 43).

Dal momento che, approssimativamente, possiamo attribuire ad un sesterzio il valore di 5/6 euro, il costo di 6 litri e mezzo di garum si aggirava sui 5/6.000 euro, ovvero circa 8/900 euro al litro: sicuramente qualcosa di prezioso, che solo pochi si potevano permettere. Sicuramente di valore molto inferiore era invece l’allec.

In ogni caso, di fatto, su quale fosse la ricetta del garum, Plinio ci dice ben poco: premesso che il garon è un pesce per noi a tutti gli effetti sconosciuto, da lui apprendiamo soltanto che, ai suoi tempi, per il garum più raffinato, si usavano le interiora e gli scarti degli sgombri, che venivano fatti macerare nel sale per essere poi filtrati. 

Qualche ulteriore informazione possiamo trarla dal suo contemporaneo Manilio, che però, nei versi degli Astronomica, in cui descrive l’usanza dei pescatori di tonni di lavorare il pescato direttamente sulla riva, ricavando una ‘salsa’ dalle parti ricche di umori, non nomina mai il garum, anche se si può desumere che proprio di garum si tratti. 

Ugualmente poco ci dice, più di cinque secoli dopo, Isidoro di Siviglia, che, in un passo peraltro non molto chiaro delle Etimologie, si limita a riprendere Plinio. 

Di fatto, la prima vera ricetta del garum – o per meglio dire di una salsa cotta, chiamata garum, che ben poco ha a che vedere con quella descritta da Plinio – ci è fornita, in ordine di tempo, da un manoscritto del IX secolo conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi, che indica gli ingredienti (pesce pulito, sale, erbe aromatiche varie – sia secche che fresche –, mele cotogne o altra frutta fresca, noci, pane abbrustolito, radici di zenzero in polvere, mosto e miele), i relativi dosaggi, il tempo di cottura, la filtrazione e la conservazione. 

Al IX/X secolo è databile una articolata ricetta per la «Preparazione del liquamen chiamato oenogarum», dove oenogarum indica ovviamente un “garum al vino”, che prevede un lungo processo di macerazione di pesci grassi, disposti a strati alternati con sale ed erbe aromatiche, con cottura finale della sostanza liquida estratta, unita a vino aromi vari, pepe, cannella, chiodi di garofano, miele, ecc. , e filtrazione a cottura avvenuta. 

Una ulteriore ricetta, anch’essa molto articolata, la troviamo, circa un secolo dopo, all’interno dei Geoponica, un trattato greco sull’agricoltura e l’allevamento del bestiame: ed è una ricetta per così dire multipla, riferendosi ampiamente a due qualità diverse di garum ottenute per macerazione col sale, accennando più brevemente anche a quello ottenuto da cottura, e facendo infine riferimento alla preparazione del «garum migliore, quello chiamato “garum di sangue” (aimation)».  Di tutti i tipi di garum sono più o meno approssimativamente specificati ingredienti, dosaggi, tempi di preparazione, modi di filtrazione e conservazione. Interessante il fatto che, per il primo tipo di garum ottenuto da macerazione, vengano indicate come ingrediente base le interiora di pesce, alle quali, però, possono essere aggiunti anche piccoli pesci come i bianchetti, o le sarde, o le trigliette, ecc.; per il secondo, menole, o sarde, o sauri, o allec, o una mescolanza di tutti; per il garum migliore, solo interiora di tonno, branchie, umore liquido e sangue.

Sempre il X secolo ci consegna una ulteriore ricetta, a base di piccoli pesci macerati. 

Dunque, in circa nove secoli di tradizione, abbiamo sul garum pochissime fonti, e, per di più, le informazioni che da esse ci giungono non sono affatto univoche. Non c’è uniformità riguardo al pesce utilizzato né sugli altri ingredienti; si riscontrano divergenze sui processi di preparazione; non c’è alcuna chiarezza sulle diverse specie di garum e sulla loro relativa pregevolezza… Siamo insomma di fronte ad una situazione abbastanza complessa: senza tener conto dell’ulteriore difficoltà introdotta dalla regnante confusione delle medesime scarse fonti nell’utilizzo dei termini  garum, liquamen e in parte muria, a cui ho già accennato. 

Una qualche significativa luce sulla situazione ci viene dallo studio delle numerose fonti letterarie, mediche e veterinarie – e in particolare il ricettario di Apicio –, che, pur non parlando affatto (nemmeno Apicio) della composizione e preparazione delle diverse salse di pesce, sono utili a dirimere numerosi dubbi, evidenziando nel contempo gli errori, le imprecisioni ed omissioni che caratterizzano negativamente l’attuale più diffusa e comune comunicazione. Basti dire che, a fronte degli usuali collegamenti col ricettario di  Apicio, con i numerosi piatti in cui il garum figurerebbe come condimento,  con le presunte affermazioni sul garum stesso, con il rapporto in esso istituito fra garum e liquamen, o addirittura con l’aleatoria ricetta di garum in esso contenuta, in realtà, in esso – frutto peraltro di una secolare stratificazione – il termine garum compare una sola volta, a fronte di una presenza generalizzata del liquamen, utilizzato in un totale di circa 400 ricette su 500.

 

Al termine del percorso, attraverso l’analisi delle fonti relative a tutte le quattro salse – con annessi derivati, quale ad esempio l’oenogarum –, e prendendo in esame anche le fonti archeologiche, è stato possibile isolare alcuni dati certi: credo, ad esempio, di essere riuscita ad evidenziare sufficientemente sia l’esistenza di diverse ‘classi’ e tipologie della salsa chiamata genericamente garum con la loro relativa composizione, sia la rilevanza del ‘pregio’ nell’ambito della loro commercializzazione, sia la ‘cronologia’ della loro diffusione; ritengo, ancora, di avere sufficientemente chiarito l’enigma più oscuro, ovvero il legame istituitosi nei secoli fra garum, liquamen e muria, che, attraverso un lungo processo giunsero ad essere considerati termini interscambiabili. Si è anche data la giusta rilevanza alle diverse aree di produzione (e in particolare all’importanza assunta dalla produzione a Pompei); si sono esaminati gli usi differenziati di queste salse in ambiti diversi da quello culinario, ovvero in campo veterinario e soprattutto medico, fino ad arrivare al Brasavola e al suo trattato medico del 1546. Peraltro, il Brasavola disquisisce a lungo sul garum, lamentando l’assenza di indicazioni precise in merito alla sua preparazione, e inserendo anche nel testo una ricetta attribuita a Galeno, ma da considerarsi spuria e di origine araba: e si tratta di una ben strana ricetta, a base non di pesce, ma di aromi, frutta fresca e secca, zucchero, ecc.. 

Quanto alle numerose ipotesi da me avanzate – fino ad arrivare alla probabile derivazione della colatura di alici dal liquamen –, esse non possono purtroppo assumere il valore di certezze, ma sono per certo fondate su elementi concreti di conoscenza.

Fondata è, al riguardo, la supposizione che, considerata l’oggettiva somiglianza delle tre salse nei loro componenti fondamentali (pesce e sale) e nel gusto, per i letterati e nel linguaggio comune fosse per così dire lecito parlare genericamente di garum; ma che, d’altro canto, i cuochi – e con loro i commercianti – fossero tenuti a distinguere il garum originario, derivato da interiora e sangue di sgombri o tonni, lavorati al momento stesso della pesca o comunque al più presto dopo di essa, dal composto ad esso simile, pur se meno pregiato, derivato però da pesci, preferibilmente piccoli, utilizzati interamente, e chiamato liquamen. Un po’ come, oggi, la denominazione ‘aceto balsamico’ copre un ampio arco di prodotti di pregio ben differenziato: e potremmo dire che il Garum di sangue, o Garum nero, o Garum della Compagnia rappresentano l’equivalente dell’aceto balsamico tradizionale di Modena DOP, non a caso chiamato anche “oro nero” per i suoi costi.