Il Within piscator (Within il pescatore) – dal titolo originale  De quodam piscatore quem ballena absorbuit (Un pescatore inghiottito da una balena) – è un poemetto medievale di duecentootto esametri, composto nel X secolo da tale  “Lethaldus Monacus”. Ad identificare il “monaco Letaldo” con Letaldo di Micy fu il primo editore dell’opera – Barthélemy Hauréau – nel 1849, e, da allora, l’identificazione, pur se non del tutto certa, ha goduto e gode di un notevole riconoscimento.

Su questo Letaldo di Micy – di cui si conoscono tre operette agiografiche in prosa – non abbiamo molte notizie: sappiamo che era monaco nel monastero benedettino di Micy (paese sulla Loira nei pressi d’Orléans); che, attorno al 966, si pose a capo di una rivolta scoppiata all’interno del monastero stesso, a seguito della quale si trasferì in una abbazia a Le Mans; che era molto stimato e che godeva dell’amicizia di Abbone di Fleury, uno degli uomini più colti del tempo; che molto probabilmente morì a  Le Mans nei primi anni del secolo XI.

Il poemetto racconta di un abile pescatore, abituato a esercitare la pesca sia nei fiumi che per mare. «La storia – scrive Letaldo – me l'ha raccontata un vecchio, di venerabili costumi e carico di anni […]. C'è un'isola nell'Oceano rivolta a Settentrione, che prima si chiamava Albione e poi Britannia […]. Noi cantiamo un episodio accaduto da quelle parti». «Lo chiamavano Within – continua – ed era noto per la sua abilità di pescatore, che batteva il fiume ma anche il profondo mare». Un giorno si era appunto messo in mare sulla sua barchetta, portando con sé il necessario per la pesca e un po’ di provviste, ma anche il suo coltello a doppia lama, un acciarino e una pietra focaia; giunto in mare aperto e gettata l’ancora, improvvisamente dalle acque era uscito fuori un animale mostruoso (belua enormis)  «simile nel muso e negli occhi a Scilla e Cariddi (i due mostri mitologici posti ai lati dello Stretto di Messina), con denti di serpente e con la gola sempre spalancata, una gola capace di inghiottire e trascinare nel Tartaro intere città». Within aveva tentato di tirare su la rete, togliere l’ancora e puntare verso la spiaggia col favore del vento, ma, con le mani tremanti e con il respiro affannoso, aveva abbandonato l'impresa ed era rimasto immobilizzato tra le onde agitate» (v.37ss.). Within e la sua barchetta erano così finiti in bocca al mostro crudele (fera dira) e, di lì,  nel ventre, simile ad un buio carcere: dopo un iniziale sconforto, il pescatore, convinto che, nelle disgrazie, la cosa migliore fosse tenere alto lo spirito, cominciò a darsi da fare. Ed ecco che, accesa una scintilla con l’acciarino e la pietra focaia, usando il coltello, ricava dai remi e dalla barca dei trucioli, fa scaturire una fiamma e accende così un piccolo falò; ustionato dalle fiamme, asfissiato dal fumo, il mostro si immerge nelle profondità, poi solca le acque a grande velocità senza però riuscire a trovare refrigerio. «Non ha alcun luogo in cui fuggire, perché il nemico è dentro di lui» (v.77). Nel frattempo, Within lo ferisce ripetutamente, squarciandogli lo stomaco e aprendosi una strada fino al cuore; dopo di che, insanguinato e spossato dalla fatica, taglia dei pezzetti di carne, li infila su uno spiedo improvvisato e se ne ciba, divorando chi l’aveva divorato (vv.81-96): si trasforma così da preda a predatore. Trascorrono cinque giorni e quattro notti, finché il mostro, dissanguato e agonizzante, viene spinto dal mare sulla spiaggia di Rovicastra (Rochester), dove Within era nato e dove era diventato pescatore.  Gli abitanti di Rochester, meravigliati, ma felici per quel dono arrivato dal mare, si precipitano armati di scale e di asce per spartirsi la preda, e, senza sapere che lì è rinchiuso un loro concittadino, cercano di penetrare nella profondità delle sue viscere; sentendo avvicinarsi le loro implacabili asce, Within comincia a gridare, manifestando la propria presenza e chiedendo aiuto, e, all’udire quegli strani ed irriconoscibili suoni provenienti dal ventre della balena, «un brivido scuote le loro ossa, le asce volano via dalle mani tremanti, i volti sbiancano, le voci si strozzano in gola», e i suoi concittadini, terrorizzati, fuggono verso la città, dove si radunano anche donne, vecchi e bambini. Il vescovo, informato dell’accaduto, convoca il clero e chiama a sé l’intera popolazione perché insieme si uniscano in preghiera, al fine di evitare la vittoria del demonio e la rovina della città: è stata una potenza malefica – sostiene – a fare approdare sul loro lido dei fantasmi, per condurre a morte sicura la popolazione. Ordina quindi a uomini di specchiata fede di portare in processione alla spiaggia le sante reliquie e l’acqua benedetta, con cui sconfiggere l’avversario: la processione vede davanti i nobili, seguiti da una grande folla, mentre la spiaggia si riempie di tutta una massa di persone desiderose di assistere allo spettacolo. Quando la processione giunge vicino al mostro, gli vengono issate addosso le scale, ogni sua parte viene cosparsa di acqua benedetta, e si   pronuncia la formula rituale dell’esorcismo contro il demonio, che si ritiene celato al suo interno: «O potenza nemica, se ti nascondi qui da qualche parte, in virtù delle sante reliquie che portiamo rivela il tuo nome, le tue opere, le tue qualità – per te non c’è via di scampo – e in nome del Signore svela chiaramente davanti a tutti la tua identità» (vv.141-144). Naturalmente chi risponde è Within, che racconta brevemente la sua storia e chiede nuovamente aiuto: questa volta tutti capiscono, e, tagliando via via pezzi dalla bestia, si danno da fare per  tirarlo fuori. I pezzi vengono distesi sulla sabbia umida, e le parti migliori vanno, nell’ordine, al vescovo e ai portatori di reliquie e acqua benedetta, ma nessuno torna in città a mani vuote. Nel frattempo, Within esce finalmente all’aria aperta: simile a una tortora che a primavera appare spiumata, o ad una vecchia aquila senza piume, con la vista offuscata e gli artigli che si staccano dalle zampe e il becco cadente, è completamente calvo, le unghie gli sono cadute, la luce gli ferisce talmente gli occhi da non riuscire a vedere nulla. Tutti gli fanno festa e lo accompagnano in trionfo verso la città, dove, «come un secondo Giona», Within racconta alla gente stupefatta il proprio straordinario ritorno alla vita; nel frattempo, la moglie, avuta la notizia del suo miracoloso ritorno, lo va a cercare sulla spiaggia e, come una rondine in cerca del cibo per i propri piccoli, gira fra le barche ormeggiate, gridando il suo nome, mentre l'eco raccoglie i suoi richiami e ripete il grido «Within Within». Alla fine, lo trova in città, ma non lo riconosce: «Al ricomparso sposo – così si conclude il poemetto – era rimasta un’unica cosa riconoscibile, la voce: non appena quella voce giunse alle orecchie stupite dell’ansiosa moglie, lei se ne ricordò; e, tornata padrona delle proprie emozioni, bagnò e ribagnò di lacrime quella testa pelata. Poi Within tornò a casa fra le mura domestiche, ricco di doni e di parti consistenti della preda, e, trascorsi per lungo tempo dei giorni felici, riuscì anche a riconquistare la sua antica bellezza».

 

Per quanto concerne il significato, il valore, nonché le finalità del poemetto, le ipotesi sono diverse, e i giudizi contrastanti: c’è chi, ad esempio, trovandoci dell’humour, lo ha definito ‘pseudoepico’; c’è chi, invece, lo ha considerato un testo epico serio. C’è chi ha rimproverato al suo autore una sostanziale mancanza di inventiva; chi, considerando il poemetto come parto della sua fantasia, gli ha riconosciuto una notevole capacità creativa, riconoscendogli la genialità di aver saputo fondere la tradizione popolare britannica con la tradizione antica e la tradizione dotta cristiana. C’è chi ha colto nel poemetto un significato simbolico di purificazione, di rinnovamento, di avvicinamento a Dio, e chi l’ha considerato come una sorta di esercizio didattico. C’è chi, riguardo allo stile di Letaldo, ha definito il suo semplicemente come un buon latino che imita i classici, in particolare Virgilio, e chi ha parlato di straordinaria capacità versificatoria e impasto linguistico estremamente originale, ecc.

Di certo, possiamo affermare che il racconto dell’uomo inghiottito da un mostro marino (pesce gigantesco o balena che sia), collegato com’è alla narrazione mitica e universale della lotta vincente dell’uomo contro creature mostruose – lotta identificata come rito di passaggio e di rinascita –, è presente nell’immaginario collettivo delle più diverse culture.

Di certo, nel cristianesimo, il racconto trova un precedente illustre nell’episodio biblico di Giona, cui, non a caso, fa un esplicito riferimento lo stesso Letaldo laddove definisce Within come «un secondo Giona» (v. 185).

Di certo, non è difficile cogliere vari elementi di folclore nel Within, a partire dal racconto orale della storia da parte di «un vecchio, di venerabili costumi e carico di anni», che, a detta dell’autore, ne avrebbe ispirato la stesura: oralità che proprio ad una tradizione folclorica rimanda. Significativi anche i riferimenti alla balena come ricca preda, da fare a pezzi e dividersi fra i cittadini, strettamente connessi a quella che è l’ambientazione del racconto: durante e dopo il X secolo, la caccia alla balena veniva infatti praticata con regolarità nel Mare del Nord e lungo le coste della Normandia e della Britannia, e la sua carne, il grasso, l’olio costituivano risorse talvolta indispensabili al sostentamento sia dei pescatori che dei monaci dei monasteri ubicati in zone costiere. Anche la credenza nei fantasmi, infine, riconduce a quell’immaginario fantastico, presente in tutte le tradizioni, dall’antichità fino al folclore contemporaneo, che vuole che i morti ritornino, si manifestino, infestino i luoghi più disparati, per spaventare o per portare consolazione e conforto. L’atteggiamento del vescovo e del clero, dal canto suo, dimostra come quella realtà magico-religiosa, antecedente al cristianesimo, continui ad esercitare la sua forza attrattiva, condizionando la Chiesa e le sue pratiche, e facendo sì che la religione cristiana ne assorba degli elementi.

Di certo, è innegabile, nel testo, la presenza di una componente ironica e a volte dissacrante: a farlo pensare, ci sono diverse particolarità linguistiche, stilistiche e narrative; c’è il fatto che il protagonista abbia un nome parlante (Within significa “dentro”), e che questo nome si presti ad un tragicomico gioco di parole nel passo in cui la moglie lo chiama a gran voce e l’eco le restituisce il suo nome; c’è la sua caratterizzazione come antieroe, accentuata dall’insistenza sulle sue caratteristiche fisiche – o trasfigurazione che dir si voglia – all’uscita dalla balena; e c’è, soprattutto, la sottile irrisione verso il clero e i nobili, che immediatamente, a fronte di un evento anomalo, non esitano a leggerlo come manifestazione di una presenza demoniaca, salvo poi accaparrarsi le parti migliori del bottino una volta scoperto l’arcano.

 

Il riferimento alla presenza demoniaca induce peraltro ad interrogarsi sull’esistenza o meno – a livello di immaginario cristiano e folclorico – di una associazione fra balena e demonio. Ebbene, sicuramente, questa associazione è già attestata a partire dalla fine del II secolo, come dimostra il Phisiologus (Fisiologo), un testo greco risalente appunto a quell’epoca, che illustra e divulga le dottrine del cristianesimo con esempi tratti prevalentemente dal mondo animale. Descrivendo la doppia natura del cetus (grosso pesce o cetaceo), l’autore spiega come la sua prima natura consista  nell’emanare dalla bocca un fragrante profumo, attratti dal quale i pesci più piccoli vi entrano in quantità: quando la bocca è piena, il cetaceo la chiude e li inghiotte. «La medesima sorte – continua – tocca a tutti coloro che hanno poca fede, e che si lasciano adescare dai piaceri e dalle lusinghe, come profumi del demonio»: solo chi ha una fede ben salda sa riconoscere le astuzie diaboliche, non si lascia tentare e non viene così divorato come un minuscolo pesce, allo stesso modo in cui i pesci più grossi non si lasciano attrarre dal profumo emanato dalla bocca del mostro marino. «L'altra natura del mostro» – continua – consiste nel fatto che «esso è di proporzioni enormi, simile a un'isola; ignorandolo, i naviganti legano ad esso le loro navi, come in un'isola, e vi piantano le ancore e gli arpioni; quindi vi fanno fuoco sopra per cuocersi qualcosa: ma, non appena esso sente caldo, s'immerge negli abissi marini e vi trascina le navi. Se dunque anche tu o uomo, ti tieni sospeso alla speranza del demonio, questi ti trascina con sé nella geenna del fuoco (ovvero nella sede dei supplizi eterni)» (17). A partire dal Fisiologo, molto tradotto in latino, l’associazione col diavolo si ritrova poi in parecchi dei cosiddetti Bestiarii, un genere di testi particolarmente diffusi a partire dal X secolo, che da esso prende appunto origine.

 

A prescindere dalle valutazioni sul valore letterario e artistico del poemetto, appare evidente, alla luce di quanto si è detto, come esso possa prestarsi ad interpretazioni diverse e sollevare ipotesi discordanti su quale possa essere – ammesso che ci sia – il suo significato profondo: il discorso è sicuramente complesso, e, come per molti altri testi medievali, ogni valutazione e interpretazione non può che rimanere avvolta nell’incertezza. Sta di fatto che in esso si narra una storia per così dire profana: una sorta di leggenda, tramandata oralmente, che mescola ingredienti di spirito popolare e di fantasia, di realtà e irrealtà. La narrazione  ha un punto di partenza realistico con un pescatore, che, ben consapevole delle proprie capacità, affronta la pesca in alto mare; e che poi, trovatosi in uno straordinario e grave pericolo, non si abbandona alla paura, ma affronta la situazione attraverso l’uso della ragione e con l’ausilio dei pochi oggetti di sopravvivenza portati prudentemente con sé. A parte il fiabesco da cui è necessariamente connotata la parte relativa alla balena e alla sopravvivenza di Within al suo interno, tutta la narrazione, di fatto, si dispiega mantenendo una forte impronta realistica: dalla descrizione degli abitanti di Rochester che si precipitano in spiaggia per spartirsi la preda, a quella del loro terrore e della loro fuga precipitosa al sentire una voce provenire dalla carcassa della balena; dalla pomposità del vescovo e del clero, all’assegnazione delle parti di preda; dalla descrizione minuziosa del naufrago ‘redivivo’, all’agitazione della moglie che vaga fra le imbarcazioni cercandolo e chiamandolo a gran voce; ecc. E, in questo contesto prevalentemente profano, a parte l’ironia che circonda la processione del vescovo e dei nobili con le loro sacre reliquie e l’inutile esorcismo finale, a parte l’accenno al profeta Giona, l’unico vero e sentito riferimento al Cristianesimo si trova all’inizio del racconto, laddove, descrivendo la Britannia, Letaldo scrive che «quest'isola, dal clima assai mite e dal suolo fertile, […] intona ora sante melodie cristiane sotto il pontificato di Gregorio, mentre poc'anzi sapeva solo grugnire in lingua barbarica».

 

Considerato tutto ciò, e volendo accettare l’identificazione dell’autore nel monaco benedettino Letaldo di Micy, risulta palese quanto sia difficile rispondere agli innumerevoli interrogativi sulla natura del poemetto, su un suo possibile significato allegorico, sulla presenza o meno in esso di un messaggio cristiano, sull’eventuale significato di questo messaggio, sulla valenza dell’ironia, sulle implicazioni di quello che può apparire solo come un ben riuscito gioco intellettuale, sul valore da attribuire al ‘miracolo’ della ‘resurrezione’ di Within, ecc. Tutte domande destinate purtroppo ad accontentarsi solo di riposte ipotetiche più o meno plausibili, e a rimanere dunque avvolte nell’incertezza.

Di certo, però, c’è che l’autore ha reso peculiare il suo componimento, col suo umorismo sottile e a volte dissacrante, la ricercatezza linguistica, la cura stilistica, la notevole tecnica metrica e versificatoria, il rapporto con la tradizione orale: un rapporto, quest’ultimo, che potremmo definire ‘moderno’, nel senso che il risultato finale, ben lontano dall’essere  la pigra e passiva riscrittura di una leggenda folclorica, è una vera e propria opera letteraria, frutto di una attenta e raffinata rielaborazione d’autore.

 

Nell’ambito di questa “rielaborazione”, secondo alcuni critici, il riferimento a Giona rappresenterebbe in modo palese, la volontà dell’autore di fondere – o forse sarebbe più corretto dire contaminare – la tradizione popolare britannica con la tradizione dotta cristiana: se pure questo appare innegabile, altrettanto innegabile è che, al di là dell’essersi entrambi salvati dopo essere stati inghiottiti da una balena (o da un enorme e mostruoso pesce), le vicende di Within e Giona sono totalmente diverse, né l’episodio biblico è risolutivo per gettare luce sul buio interpretativo che avvolge il poemetto.

Questo è, brevemente, il contenuto del libro profetico di Giona: un libro la cui epoca di composizione viene fatta risalire al V/IV secolo a. C., e di cui il profeta Giona è protagonista ma non autore.

Comandato da Dio di recarsi a Ninive, nazione nemica di Israele e covo di malvagi, il profeta Giona non obbedisce e parte in nave diretto a Tarso. Durante il viaggio, Dio scatena una terribile tempesta, che rischia di fare affondare la nave. Il capitano sveglia Giona, che dorme profondamente, e gli chiede di pregare il suo Dio per la salvezza di tutti. Compreso poi che proprio Giona è colui che ha scatenato l’ira divina, gli viene chiesto cosa fare per placare quell’ira, e Giona invita i marinai a gettarlo in mare. Dopo vani tentativi di resistere alla furia del mare senza macchiarsi del suo sangue, i marinai gettano Giona fra le acque, che immediatamente placano la propria furia. Per volere del Signore, Giona viene inghiottito da un pesce enorme (piscis grandis), al cui interno vive tre giorni e tre notti finché, a seguito delle sue preghiere, Dio comanda al pesce di ‘rigettarlo’ su una spiaggia. Qui riceve da Dio l’ordine di recarsi a Ninive, per proclamare il giudizio divino contro la città, e questa volta obbedisce. Gli abitanti della città ascoltano il suo messaggio e rinunciano al loro comportamento malvagio, al che Dio si impietosisce e non dà seguito alla sua condanna. Giona non riesce a comprendere, è sdegnato, chiede a Dio di dargli la morte, dopo di che abbandona la città e si siede in attesa, all’ombra di alcune frasche. Con grande gioia di Giona, Dio fa crescere accanto a lui un albero di ricino, per fargli ombra sul capo e liberarlo dal suo malessere; ma, il giorno dopo, manda un verme a rodere l’albero, che si secca, provocando di nuovo un grave malessere in Giona, che di nuovo chiede di morire. Dio gli si rivolge allora con queste parole: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per una pianta di ricino? […] Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che non tu hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita: e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vivono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?».

Le analogie fra i due racconti sono oggettivamente superficiali: ciò che in qualche modo può far parlare di somiglianza sono semmai le caratteristiche particolari del libro di Giona, che – credo non casualmente – si ritrovano anche nel Within piscator. Il libro di Giona è infatti l’unico fra i libri profetici a non contenere oracoli o visioni, ad assomigliare piuttosto ad una novella dall’atmosfera fiabesca e avventurosa, scritta con grande abilità narrativa e pervasa di ironia.

Oltre che nella tradizione folclorica e nella Bibbia, il tema della lotta vincente contro il mostro marino è ben documentato anche nella letteratura pagana antica e nella letteratura latina medievale.

 

Ricordiamo ad esempio il mito di Esione liberata da Ercole, nel racconto dello storico greco Ellanico (V secolo a. C.), ripreso anche dal poeta Licofrone (IV secolo a. C.), in cui Ercole sconfigge il mostro marino, cui la giovane era stata destinata, penetrando al suo interno dalle fauci, facendolo a pezzi ed uscendone illeso dopo tre giorni, con solo i capelli bruciati dal calore delle viscere. Da notare che questo dei capelli bruciati è un particolare presente anche in alcune versioni della vicenda di Giona, dove il profeta, all’uscita dal grande pesce, appare senza capelli e con gli indumenti laceri.

 

Ricordiamo poi, in particolare, il lungo passo della Storia vera (II secolo d. C.), in cui Luciano di Samosata, con la solita dissacrante ironia, ci fornisce la sua fantasiosa versione della lotta fra la ‘balena’ e l’uomo: in questo caso, egli stesso. La Storia vera narra infatti, in due libri, le avventure di una cinquantina di persone, che, capitanate appunto da Luciano, decidono di viaggiare al di là delle Colonne d’Ercole, e vivono così delle avventure assolutamente strabilianti: fra queste, l’inaspettato soggiorno nel ventre di una balena.

Si tratta di un mostro marino – di un cetaceo – (kētos) gigantesco, «lungo ben millecinquecento stadi» (come a dire circa trecento chilometri), che inghiotte l’intera nave senza stritolarla. Dentro al cetaceo, c’è una immensa caverna, grande come una città di diecimila abitanti; nel mezzo, delle colline ricoperte di coltivazioni e di alberi, questi ultimi abitati anche da uccelli che vi nidificano. Trascorsa la prima notte, al risveglio, approfittando dei momenti in cui la balena apre la bocca, vedono attraverso l’apertura «ora terre e montagne, ora solamente cielo, e talora anche isole», rendendosi così conto della velocità con cui essa si muove attraverso spazi enormi. Decisi ad esplorare l’interno della balena, la prima persona che i naufraghi incontrano è un vecchio, che vive lì col figlio da ventisette anni, e che, per stare tranquillo, è costretto a pagare un tributo ai Piedisogliole, una delle varie ‘tribù’ – tutte inospitali e prepotenti – che popolano la caverna (gli Insalumati, i Tritonobecchi, i Granchimani, i Capitonni, gli Sgranchiati, i Piedisogliole). Luciano, avendo a propria disposizione uomini e armi, decide di combatterli, e ottiene facilmente la vittoria su tutti. Ripulito il paese, senza più nemici da temere, la vita scorre tranquilla: ci si esercita nella ginnastica, nella caccia, a coltivare la vigna, a cogliere i frutti dagli alberi. «Insomma – commenta Luciano   – stavamo come prigionieri che vivono in un grande e sicuro carcere senza catena e comodamente». Trascorso così un anno e otto mesi, dopo avere assistito nel nono mese, attraverso i denti del cetaceo, ad una terribile ed affascinante “battaglia delle isole” (con centinaia di uomini giganteschi che usano intere isole come imbarcazioni, remando con grandi cipressi frondosi), l’insofferenza si fa però strada prepotentemente: «Da allora in poi – conclude Luciano –, non potendo sopportare di rimanere più a lungo nel cetaceo, andavo rimuginando su come uscirne». Dopo il tentativo non riuscito di bucare la parete del fianco destro del cetaceo e scappare, lui e i compagni decidono di dar fuoco al bosco e far morire così il mostro. La fuga riesce al tredicesimo giorno.

Come si può notare, in questo racconto fa la sua comparsa l’espediente del fuoco, con cui i naufraghi uccidono dall’interno il mostro che li imprigiona, riuscendo così a liberarsi: un espediente  che, almeno sul piano letterario, sembrerebbe essere una innovazione di Luciano.

 

L’utilizzo del fuoco come mezzo di fuga e di salvezza è presente, alcuni secoli dopo, in una sezione degli Hisperica famina, in cui alcuni hanno giustamente riconosciuto la fonte più diretta del Within piscator.

Gli Hisperica famina (titolo traducibile con Detti occidentali) sono una raccolta di quattordici componimenti metrici, probabilmente opera di diversi autori anonimi, risalente al VII secolo e collocabile in Irlanda o in Britannia. Ci sono pervenuti in tre diverse redazioni, abbastanza diverse fra loro, denominate A, B, C: nella redazione B, l’ultimo componimento, intitolato De gesta re (L’impresa) narra di una grande spedizione navale organizzata da un re desideroso di nuove conquiste. La sua flottiglia di imbarcazioni viene interamente inghiottita da un mostro marino (belua), ma i marinai non si perdono d‘animo: muniti di acciarino, esca e pietra focaia, accendono il fuoco nel ventre del mostro, ne fanno a pezzi le interiora, le arrostiscono su una graticola improvvisata e se ne nutrono. La bestia feroce muore, e le onde la trasportano alla deriva finché non si arena su degli scogli, Gli abitanti della costa si precipitano sulla preda, la squartano per spartirsene i pezzi e, spezzando le costole con le scuri, liberano e portano in salvo i marinai.

 

Solo per intervento divino, la ‘balena’ non riesce invece ad inghiottire nessuno in un testo anonimo collocabile attorno al secolo IX, la Navigatio Sancti Brendani (La navigazione di San Brandano): testo che godette di una vastissima ed eterogenea diffusione nell’Europa medievale, per almeno sette secoli. Vi si raccontano i viaggi per mare dell’abate irlandese Brandano di Clonfert (VI secolo), alla ricerca del Paradiso terrestre: un insieme di narrazioni che riconducono a fonti storiche, leggende e vite latine, antiche storie celtiche di navigazioni e avventure, ma anche a motivi folclorici di tradizione orale. Al capitolo 16, mentre stanno navigando, Brandano e i confratelli vedono arrivare alle loro spalle, in lontananza, un mostro gigantesco (bestia immensae magnitudinis), che soffia bava dalle na­rici e solca velocissimo le onde «come se avesse intenzione di divorarli», e, via via che la belva (belua) si avvicina, i frati sono sempre più terrorizzati. Brandano rivolge quindi al cielo la sua preghiera: «Signore, salva i tuoi servi, come hai salvato Davide dalle mani del gigante Golia. Signore, salvaci, come hai salvato Giona dal ventre della balena (de ventre ceti magni)». Ed ecco apparire un'altra enorme creatura (belua), che affronta la prima, la aggredisce sputando fuoco dalle fauci, la dilania e se ne va.

Nella Navigazione è presente peraltro anche la balena-isola di cui parla il Fisiologo: ai capitoli 10-11), si racconta infatti che i viaggiatori erano approdati e avevano pernottato su un’isola «brulla, con poca erba, scarsa vegetazione e niente sabbia sulla riva»; al momento in cui, al mattino, avevano acceso un fuoco per cuocere della carne, avevano sentito l’isola stessa tremare, l’avevano vista muoversi nell’oceano e inabissarsi: di fronte allo spavento dei confratelli, Brandano aveva spiegato che quella su cui avevano dormito (così gli aveva rivelato Dio nella notte) «non era un’isola ma un pesce (piscis), il più grande tra tutti quelli che nuotano nell’oceano».

 

Nel Rinascimento, incontriamo diversi cavalieri inghiottiti da mostri marini o da balene, talvolta scambiate per isole: Ruggiero – e prima di lui Astolfo  – nei Cinque canti dell’Ariosto (IV, 13ss. e 32ss.), Orlando ne La morte del Danese di Cassio da Narni (III, 5), Rinaldo ne I triomphi di Carlo di Francesco dei Lodovici (I, 44), ecc. Quasi sempre il ventre della balena, riprendendo l’episodio biblico di Giona, si configura come luogo di consapevolezza, redenzione e pentimento; ma molto forti sono gli echi della Storia vera di Luciano (basti ricordare che, nei Cinque canti, si racconta non solo dei tre uomini che, oltre a Ruggiero, si trovano a vivere dentro la balena, ma anche di altri che li hanno preceduti; ne La morte del Danese, la balena ospita addirittura al suo interno mille persone che volontariamente ci vivono e ci lavorano, nella città che hanno costruito). Inoltre, a differenza di Giona, pur affidandosi a Dio e dandosi alla preghiera, nessun cavaliere e nessun altro dei prigionieri è caratterizzato da una passiva accettazione; e, se è vero che né Ariosto né Cassio da Narni ci raccontano come Ruggiero e Astolfo riescano a uscire dalla loro prigione vivente, lo fa invece, con rimandi palesi alla letteratura classica e alla tradizione folclorica, Francesco dei Lodovici, presentandoci un Rinaldo che, per fuggire dal ventre inospitale e inabitabile della balena, non esita a ferirla più volte dall’interno con la sua spada, finché stanca e spossata dal dolore, la balena scaglia il paladino «per l’aere a la marina».

 

Un excursus di questo tipo, che, senza alcuna pretesa di esaustività, attraversa comunque una letteratura millenaria, non può che giungere – e fermarsi – al 1883, anno in cui venne dato alle stampe il romanzo  Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, di Carlo Collodi.

Mentre nuota in mezzo al mare, Pinocchio vede venirgli incontro un terribile mostro marino: il gigantesco Pescecane soprannominato l’Attila dei pesci e dei pescatori. Inghiottito con violenza, Pinocchio  si riprende dopo un quarto d’ora e di accorge di trovarsi prigioniero nel corpo del mostro. Dopo un dialogo con un Tonno, Pinocchio intravede lontano una piccola luce e vi si dirige: lì ritrova Geppetto, inghiottito dal pescecane ben due anni prima. «E come avete fatto a campare? – gli chiede Pinocchio – E dove avete trovata la candela? E i fiammiferi per accenderla, chi ve li ha dati?» E Geppetto racconta come, nella medesima burrasca che aveva rovesciato la sua barchetta, fosse affondato anche un bastimento mercantile, finito anch’esso inghiottito in un boccone, dopo che i marinai si erano messi in salvo. Per sua gran fortuna, quel bastimento era carico di carne conservata , di pane abbrustolito, di vino, di uva secca, di formaggio, di caffè, di zucchero, di candele e di scatole di fiammiferi: tutte provviste che gli avevano garantito la sopravvivenza, ma che ora erano quasi del tutto esaurite. «Oggi – conclude Geppetto – nella dispensa non c’è più nulla, e questa candela, che vedi accesa, è l’ultima candela che mi sia rimasta». Il dialogo procede con Pinocchio che vuole pensare alla fuga, Geppetto che solleva obiezioni sui pericoli, finché il burattino prende in mano la candela e si avvia verso la bocca del pescecane, invitando il suo babbo a seguirlo. «Ora bisogna sapere – continua il racconto – che il Pescecane, essendo molto vecchio e soffrendo d’asma e di palpitazione di cuore, era costretto a dormire a bocca aperta: per cui Pinocchio affacciandosi al principio della gola, e guardando in su, poté vedere al di fuori di quell’enorme bocca spalancata un bel pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di luna. “Questo è il vero momento di scappare” bisbigliò allora, voltandosi al suo babbo.  Il Pescecane dorme come un ghiro: il mare è tranquillo e ci si vede come di giorno. Venite dunque, babbino, dietro a me, e fra poco saremo salvi”. Detto fatto salirono su per la gola del mostro marino, e arrivati in quell’immensa bocca cominciarono a camminare in punta di piedi sulla lingua: una lingua così larga e così lunga, che pareva il viottolone d’un giardino. E già stavano lì lì per fare il gran salto e per gettarsi a nuoto nel mare, quando, sul più bello, il Pescecane starnutì, e nello starnutire, dette uno scossone così violento, che Pinocchio e Geppetto si trovarono rimbalzati all’indietro e scaraventati nuovamente in fondo allo stomaco del mostro. Nel grand’urto della caduta la candela si spense, e padre e figliuolo rimasero al buio». Ancora una volta, è il burattino ad insistere per ritentare la fuga, e questa volta i due – Geppetto sulle spalle di Pinocchio – riescono ad uscire in mare aperto, mentre il pescecane seguita «a dormire di un sonno così profondo, che non l’avrebbe svegliato nemmeno una cannonata». Grazie all’aiuto del Tonno, che li ha seguiti nella fuga, si mettono in salvo, ma Geppetto ha appena il fiato per reggersi: trovato rifugio presso un ortolano, Pinocchio accetta di lavorare per lui in cambio dell’ospitalità, e da quel giorno in poi, per più di cinque mesi, si impegna nel lavoro, impara a fabbricare canestri e panieri di giunco, si occupa del suo babbo, si esercita a leggere e a scrivere… finché una notte sogna la fata turchina che lo loda per quanto sta facendo e lo invita a continuare così per l’avvenire: la mattina dopo, al risveglio, scopre di essere diventato un ragazzino in carne ed ossa, mentre Geppetto è di nuovo sano, arzillo e di buonumore.

 

Con scarsa fedeltà al romanzo di Collodi, nel famoso film della Walt Disney del 1940, considerato un capolavoro dell’animazione,  il pescecane diventa una balena; per riuscire a fuggire, Pinocchio dà fuoco a della legna e a delle sedie, così che il fumo induca la balena a starnutire; i due vengono spinti fuori sulla loro piccola zattera, ma la balena li insegue nel mare tempestoso (mare che invece è calmo nel racconto di Collodi); caduti dalla zattera, Pinocchio salva Geppetto, trascinandolo in una grotta sotto una scogliera, e facendo sì che la balena vi si schianti, ma finendo col morire affogato; Pinocchio viene poi resuscitato in veste di bambino dall’intervento finale della fata.

Molto si è discusso sul film e sulla ‘politica’disneyana che lo sottende, ma ciò che qui interessa sono solo le differenze riscontrabili nell’episodio della balena, che sembrano ricondurre maggiormente all’universo letterario e folclorico antecedente al romanzo: nello specifico, l’espediente del fuoco e la lotta con la balena immediatamente configurata come rito di passaggio e di rinascita.

 

Quanto a Collodi, sono state a più riprese ricercate le possibili fonti da cui egli avrebbe tratto ispirazione per i personaggi e le diverse avventure cui va incontro Pinocchio nel suo romanzo, e, per l’episodio della balena, ci si è solitamente e inevitabilmente riferiti al Libro di Giona. Sennonché, nel ventre della balena, Pinocchio si rifiuta di seguire la filosofia del Tonno, rassegnato al proprio destino di essere digerito, e si dà da fare per fuggire: un atteggiamento attivo che poco ha a che vedere con Giona, e che fa quantomeno pensare ad una influenza classica. D’altro canto, l’immagine di Pinocchio, che, si affaccia alla gola della balena e, guardando dalla bocca spalancata, osserva il cielo stellato e la luna, è sovrapponibile a quella dei naufraghi della Storia vera di Luciano, che, attraverso la sua bocca aperta vedono terre e montagne e isole e cielo; sono inoltre  individuabili talune somiglianze con le avventure di Ruggiero descritte dall’Ariosto (Cinque canti, IV), come l’iniziale frastornamento dei due protagonisti e l’incontro con una persona cara da salvare; e c’è, infine, una sorta di  ‘coincidenza’ temporale, che potrebbe anche far supporre una fonte ulteriore. Le avventure di Pinocchio esce infatti nel 1883, sette anni dopo la pubblicazione dei Racconti delle fate, una traduzione  ‘rivisitata’ delle favole di Perrault, con altre di favoliste francesi, che ottiene grande successo e che avvicina Collodi al mondo della letteratura per l’infanzia: forse, alla luce della sua esperienza di traduttore di favole francesi, non è  completamente da escludere l’ipotesi che Collodi possa essere entrato direttamente o indirettamente in contatto con il Within piscator – di cui, nel 1849, era uscita la prima edizione, dopo il ritrovamento del testo in un codice della Biblioteca Nazionale di Parigi (ms. 5230) – , rimanendo in qualche modo suggestionato dal racconto del povero pescatore inghiottito dalla balena.