Divagazioni sui proverbi latini

 

In diversi contributi di questo blog compare la parola “proverbio”: in realtà, con riferimento a frasi di origine diversa e spesso abbastanza dissimili fra loro. In alcuni casi sarebbe stato forse più corretto parlare di “massima” o di “adagio” o di “sentenza”… ma il fatto è che “proverbio” rende immediatamente l’idea di una espressione linguistica, capace, nella sua brevità, di condensare e trasmettere diffusamente giudizi o avvertimenti o consigli sul vivere: senza contare che, quasi sempre, proverbio, massima, sentenza, adagio, motto, detto, ecc. sono vocaboli avvertiti ed utilizzati come sinonimi.

A volere approfondire un po’ l’argomento, la prima questione da affrontare riguarda dunque la definizione di “proverbio”: perché si parla spesso di proverbi, senza rendersi conto delle complesse problematiche legate alla loro stessa definizione, nonché ai tratti distintivi che possono definire un proverbio in quanto tale.

Una delle definizioni più diffuse identifica il “proverbio” come una breve locuzione, che affonda le sue radici nella saggezza popolare, e che è volta ad esprimere un insegnamento morale: sennonché, molti di quelli che siamo soliti chiamare proverbi sembrano non essere poi così direttamente riconducibili ad una origine popolare, mentre altri hanno una chiara origine dotta e letteraria; altri ancora rappresentano il frutto della creatività di un qualche personaggio famoso, o sono il prodotto di un pensiero filosofico diffuso o del pensiero originale di un autore… Potremmo, nei vari casi, parlare di “adagio” o di “sentenza” (“motto”) o di “apoftegma” o di “massima” (“detto”) o di “aforisma”…, ma è facilmente intuibile come, fra i vari termini, esistano confini labili: così labili da renderli a buona ragione – almeno in certi casi – equivalenti, o, quantomeno, da consentire facilmente il passaggio di una locuzione da una categoria ad un’altra.

Questione non secondaria è poi quella del contesto, ovvero il fatto che un proverbio non possa avere una significazione rigida, ma sia piuttosto qualcosa di semanticamente indefinito, passibile di interpretazioni diverse in situazioni diverse: senza dimenticare come, mutate le situazioni geografiche o storiche o sociali, un proverbio possa scomparire dall’uso e perdere irrimediabilmente di senso.

Nel corso dei secoli molte sono state le raccolte di cosiddetti “proverbi”: basti pensare al libro dei Proverbi della Bibbia (Proverbia); o ai Distici – o Detti di Catone (Disticha – o Dicta Catonis), la raccolta di sentenze – formata ognuna da una coppia di esametri – falsamente attribuita a Catone il Censore ed assemblata nei primi secoli dopo Cristo; o ancora alle innumerevoli raccolte medievali di Proverbia e Sententiae.

Sennonché, fino al Rinascimento, questo tipo di produzione non è oggetto di analisi alcuna: solo sull’onda dell’enorme successo degli Adagia di Erasmo da Rotterdam – opera monumentale, che, con i suoi 4.151 adagia (adagi)   raccoglie gran parte della produzione proverbiale antica – nascono, al riguardo, le prime analisi linguistico-letterarie e pedagogiche. Successivamente, in particolare nel periodo del romanticismo, queste analisi ricevono una grande spinta, e, dai primi del Novecento ad oggi, finiscono col moltiplicarsi gli studi, che si arricchiscono via via di nuove basi e nuovi impulsi: studi che, tuttavia, rimangono a tutt’oggi ben lontani dall’aver raggiunto punti fermi.

Contestualmente, le collezioni – soprattutto di carattere per così dire settoriale (basate sulla provenienza geografica, o sulla provenienza letteraria, o sull’epoca storica, o sull’argomento, ecc.) – si fanno numerosissime, e la conoscenza fraseologica e paremiologica si diffonde in maniera esponenziale grazie all’avvento di Internet e al numero sempre crescente di creatori di contenuti online.

 

Per quanto concerne la latinità, digitando “proverbi latini” su Google, compaiono numerosissimi siti che ne parlano; e il numero si accresce se si digitano voci come “aforismi latini”, “motti latini”, “detti latini” “sentenze latine”, “massime latine”, “adagi latini”, “frasi proverbiali latine”, ecc.; se poi si fa una ricerca mirata, ecco che si trovano le frasi proverbiali e gli aforismi e le sentenze e i proverbi di ogni autore della letteratura latina.

In questi siti, quasi sempre, i proverbi – o massime o motti o altro che dir si voglia – sono riportati senza alcuna indicazione temporale, senza alcun riferimento bibliografico preciso, senza alcuna contestualizzazione; frequentemente le loro traduzioni sono errate; non di rado non hanno alcun riscontro reale nei testi antichi da cui si dicono tratti.

 

Ciò premesso, questo mio contributo non ha ovviamente alcuna pretesa di essere esaustivo, ma vuole essere un semplice divertissement: con l’unico obiettivo di ovviare ad alcune delle mancanze più frequentemente rilevabili in altre e simili raccolte di ‘proverbi’ reperibili in Internet.

 

I primi ‘proverbi’ da ricordare sono quelli che già gli autori latini definivano col termine di proverbia

– Nel suo trattato De re rustica (I, 2), Varrone cita «vetus proverbium quod estRomanus sedendo vincit / Il romano vince stando seduto». Il «vecchio proverbio» è ricordato in un contesto estremamente sereno: in occasione della festa delle sementi, che si teneva a gennaio, Varrone stesso si incontra col suocero Fundanio e con altri due personaggi all’interno del tempio della dea Terra, in cui tutti e quattro sono convenuti su richiesta del custode, momentaneamente assente; in attesa del suo ritorno, Varrone chiede se non vogliano far proprio quel proverbio, e così passano il tempo in una piacevole e utile discussione sul clima. A dare origine al proverbio potrebbe essere stata la conduzione della II guerra punica ad opera di Quinto Fabio Massimo, detto il Temporeggiatore (Cunctator): non a caso, Livio  (XXII, 23, 10) dice di Annibale, per una fase della sua guerra in Italia, che anche lui, così come Fabio, «sedendo et cunctando bellum gerebat».

– Nelle sue Noctes Acticae / Notti Attiche è poi Aulo Gellio, nel II secolo d. C., a riportare un proverbio presente in una delle Satire Menippee di Varrone intitolata Il testamento. A detta di Gellio, in essa, con riferimento alla durata della gestazione e al conseguente riconoscimento di paternità, si leggeva: «“Si quis mihi filius unus pluresve in decem mensibus gignantur, ii, si erunt onoi lyras, exheredes sunto; quod si quis undecimo mense kata Aristotelen natus est, Attio idem, quod Tettio, ius esto apud me".  Per hoc vetus proverbium – commenta Gellio – Varro significat, sicuti vulgo dici solitum erat de rebus nihil inter sese distantibus: "idem Atti, quod Tetti” ita pari eodemque iure esse in decem mensibus natos et in undecim  / “Se mi nasceranno uno o più figli dopo una gestazione di dieci mesi, se saranno degli asini in musica, che siano diseredati; se, come dice Aristotele, me ne nascesse anche uno nell’undicesimo mese, Attius abbia per mio testamento gli stessi diritti di Tettius". Attraverso questo vecchio proverbio, “Gli Attii e Tettii per me pari sono”, solito a dirsi riferendosi a cose che non differiscono in nulla fra loro, Varrone intende affermare che i bambini nati in dieci mesi o in undici hanno gli stessi uguali diritti». Il proverbio, che dunque significa “una cosa vale l’altra”, era probabilmente originario di una zona in cui Attius e Tettius coesistevano come gentilizi di uso molto comune (III, 16, 13-14).

– Dobbiamo invece al grammatico del IV secolo d. C. Nonio Marcello la trasmissione di un terzo proverbio di origine varroniana. Nella sua raccolta lessicografica De compendiosa doctrina, in riferimento alla parola Fulmentum, si legge infatti: «FVLMENTVM neutro, ut est in proverbio veteri, quo Varro utitur saepius “fulmenta lectum scandunt”». Il «vecchio proverbio», che suona «I piedi (del letto) salgono sul letto», si riferisce ovviamente a tutte quelle situazioni in cui chi dovrebbe obbedire pretende di farla da padrone.

 

 

– Nel De officiis – I doveri (I, 10), Cicerone riporta un proverbio, a suo dire sulla bocca di tutti (iam tritum sermone proverbium), che recita «Summum ius summa iniuria / Giustizia ferrea, ingiustizia somma»: il proverbio è citato in relazione alle ingiustizie che possono originarsi da una certa capziosità e da una interpretazione tutt’altro che innocente delle leggi. Il proverbio è presente già in Terenzio, che scrive: «Verum illuc […] dicuntIus summum saepe summa est malitia” – È proprio vero il detto “Somma giustizia è spesso somma frode”» (Heauton timorumenos, 795-796).

– Ancora ne I doveri (III, 19, 77), è ricordato poi un antico e famoso proverbio popolare (contritum vetustate proverbium), usato per lodare la lealtà e l’onestà di qualcuno: «Con lui – recita – si può giocare alla morra al buio / cum fidem alicuius bonitatemque laudant, dignum esse dicunt quicum in tenebris mices». Il verbo usato è micare (guizzare), che sottintende digitis (con le dita): com’è noto, i due contendenti devono infatti distendere rapidamente una o più dita e, contemporaneamente, gridare un numero che corrisponda alla somma.

Il medesimo proverbio (ancora definito contritum vetustate proverbium) ritorna – citato solo nella parte iniziale «Quicum in tenebris» – anche nel De finibus bonorum et malorum / Il sommo bene e il sommo male (II, 16).

Compare peraltro, indirettamente, anche nel Satyricon di Petronio (44, 7), laddove, in riferimento ad un certo liberto Safinio, si dice che era uomo tutto d’un pezzo, fidato, amico per gli amici, e che con lui si poteva appunto giocare alla morra (micare) al buio senza problemi. Si ritrova infine in Marco Cornelio Frontone, che lo cita in una delle sue Epistole all’imperatore Marco Aurelio, definendolo «scurrarum proverbium / un proverbio divertente» (I, V).

Quanto al verbo micare, esso è usato con lo stesso significato da Cicerone nel De divinatione – Della divinazione (II, 85), laddove paragona la divinazione per mezzo delle cosiddette sorti al giocare a morra (micare), o ai dadi, ovvero cose in cui valgono solo il caso e l’azzardo.

Svetonio, dal canto suo (Vita di Augusto XIII), racconta che Ottaviano, di fronte ad un padre e ad un figlio che chiedevano di avere entrambi salva la vita, ordinò di giocarsela ai dadi o alla morra (micare), ché solo il vincitore avrebbe ottenuto la grazia. La vicenda si concluse tragicamente con la morte di entrambi, perché il padre volle sacrificarsi per il figlio, ma il figlio si suicidò.

– Un altro proverbio (proverbium) ci è tramandato da Cicerone nell’orazione Pro Flacco (XXVII): «Phrygem plagis fieri solere meliorem / Di solito un Frigio diventa migliore con le percosse». Nella difesa di Lucio Valerio Flacco, processato per le ruberie compiute come governatore della provincia d’Asia, la linea di difesa seguita dall’oratore consiste prevalentemente nello screditare in modo sistematico tutti i testimoni dell’accusa, sfruttando sia i pregiudizi romani contro i greci che i pregiudizi greci contro le popolazioni dell’Asia minore: ed è proprio nel rivolgersi ai testimoni asiatici che viene citato il proverbio in questione, che Cicerone lascia intendere non essere di origine romana, ma provenire dalla stessa Asia. Se il significato immediato è che lo schiavo frigio, se bastonato, diventa più obbediente, il proverbio diventa poi valido in tutte le situazioni in cui solo le bastonate possono servire per condurre qualcuno all’obbedienza. In greco – scrive Erasmo negli Adagia – il medesimo proverbio si ritrova nel Lessico bizantino Suda.

 

– È Tito Livio a scrivere: «Taurea, uerbis ferocior quam re, "minime, sis," inquit "cantherium in fossam"; quae uox in rusticum inde prouerbium prodita est / […] Il ronzino in un fosso, di grazia, proprio no! Frase divenuta poi un proverbio contadinesco» (Ab Urbe condita libri /Storia di Roma, XXIII, 47, 6). Il contesto è quello del duello fra il soldato della cavalleria campana Taurea e il romano Claudio Asello: Taurea invita Asello a spostarsi in un luogo meno ampio, per far sì che il duello sia fra loro e non si risolva in una prova di abilità fra i loro cavalli per sfuggire ai colpi dell’avversario; Asello accetta e si mette immediatamente in movimento. A quel punto, «più spavaldo a parole che nei fatti», Taurea si tira indietro, affermando che no, non porterà certo il ronzino in un fosso; ed è così che Claudio torna vincitore all’accampamento. Al di là del contesto, il proverbio si risolve in un invito alla prudenza, a non fare spropositi.

– Sempre ne La storia di Roma, leggiamo poi: «Vulgatum illud, quia verum erat, in proverbium venit: Amicitias immortales, mortales inimicitias debere esse / Le amicizie devono essere immortali, mortali invece le inimicizie» (XL, 46). A pronunciare quelle parole – illud (verbum) – è Quinto Cecilio Metello in un discorso al Senato, diretto a placare l’aspra inimicizia fra Marco Emilio Lepido e Marco Fulvio Nobiliore. Dopo avere ricordato Tito Tazio e Romolo, che, da nemici che erano, finirono col regnare insieme, nonché il fatto che, dopo le rispettive sconfitte, Latini e Sabini ricevettero a Roma il diritto di cittadinanza, Metello conclude appunto affermando che le amicizie devono essere immortali e le inimicizie passeggere: una asserzione che, passata sulla bocca di tutti – annota Livio  – divenne poi un proverbio a causa della sua verità.

 

Almeno tre proverbi ci giungono da Seneca, citati nelle sue Epistulae morales ad Lucilium / Epistole morali a Lucilio.

– In III, 22, 1, leggiamo: «Vetus proverbium est gladiatorem in harena capere consilium […] / Dice un vecchio proverbio che il gladiatore determina le proprie mosse quando è nell’arena: e lo fa osservando sia il volto dell’avversario, sia i movimenti delle braccia, sia la posizione del corpo»: il significato – come chiarisce il contesto – è che non si possono dare consigli a distanza, perché le decisioni concrete possono essere prese solo ‘sul posto’.

– Un secondo proverbium, è «Totidem hostes esse quot servos / Quanti sono gli schiavi, tanti sono i nemici» (Epistole, V, 47, 5): un proverbio – scrive Seneca – utilizzato da chi, nel farlo, mostra solo la propria arroganza, perché, nei fatti, gli schiavi non sono nemici, ma possono diventarlo solo se i padroni li rendono tali, abusandone come se fossero bestie, o, al meglio, costringendoli a mansioni umilianti. Al di là del rapporto fra padrone e servi, il proverbio acquista un ben più profondo significato se il concetto di servitù viene assunto in senso metaforico.

– Riferito all’ambito dell’eloquenza è il detto che «si sente proclamare da tutte le parti / quod audire vulgo soles», «quod apud Graecos in proverbium cessit: talis hominibus fuit oratio qualis vita / e che è diventato un proverbio presso i Greci: tale il parlare degli uomini quale la loro vita» (Epistole, XIX, 114, 1). Il proverbio può riferirsi – annota Seneca – sia alle singole persone sia ad una intera epoca e società: una società iniqua e corrotta non può che produrre un linguaggio e uno stile corrotti.

 

– È Petronio a tramandarci il proverbio (proverbium) «posse taurum tollere qui vitulum sustulerit / Può sollevare un toro chi si è abituato a sollevare vitelli» (Satyricon, 25, 6). Citato anche da Quintiliano (Institutio oratoria – L’istituzione oratoria, I, 9, 5), in un contesto in cui si parla di detti, massime, sentenze (chriarum genera), il proverbio ha un significato molto chiaro, ovvero che, a poco a poco, ci si abitua a sopportare sempre di più. La sua origine parrebbe risalire alla leggenda sul famoso atleta olimpico Milone di Crotone, che da ragazzo, come diverse fonti greche narrano, era solito portare sulle spalle un vitello, divenendo poi talmente forte da essere in grado di farlo anche quando il vitello divenne un toro: leggenda spesso utilizzata per illustrare il principio della progressività e dell’adattamento ed esaltare la perseveranza nell’allenamento sportivo.

 

– A partire dall’ Odissea di Omero, è diventata un proverbio (in proverbium cessit) – scrive Plinio il Vecchio – la consapevolezza che «sapientiam vino obumbrari / la saggezza è annebbiata dal vino» (Naturalis historia / Storia naturale, XXIII, 23).

– Attribuita ad Apelle è la frase, divenuta poi proverbium (quod in proverbium venit) «ne supra crepidam sutor iudicaret / il ciabattino non giudichi più in su della scarpa» (Storia naturale, XXXV, 36). Plinio racconta che Apelle era solito esporre al giudizio del popolo ciascuna delle proprie opere, rimanendo ad ascoltare i vari commenti; un giorno, capitò che un ciabattino criticasse il modo in cui era stata dipinta la fibbia di una scarpa del personaggio rappresentato nel dipinto; lo stesso ciabattino, il giorno dopo, per darsi tono, si mise poi ad esprimere ulteriori giudizi sulle gambe del personaggio stesso, facendo sdegnare Apelle che finì col redarguirlo, invitandolo appunto a non giudicare più in su delle scarpe. L’episodio è raccontato brevemente anche da Valerio Massimo (Factorum et dictorum memorabilium libri – Fatti e detti memorabili, VIII, 12). Il significato del proverbio è chiarissimo: non si deve parlare di materie o argomenti su cui non si ha competenza alcuna.

– Sempre in XXXV, 36, poche righe prima, Plinio racconta anche che Apelle non passava un giorno senza esercitarsi nella pittura, fosse solo anche tracciando una semplice linea («Apelli fuit alioqui perpetua consuetudo numquam tam occupatum diem agendi, ut non lineam ducendo exerceret artem»): «quod ab eo in proverbium venit / cosa che, a partire da lui, si trasformò in un proverbio». Dunque, «nullus dies sine linea», o, se si preferisce, «nulla dies sine linea», come l’espressione compare nella prima collezione di proverbi latini mai pubblicata (gli Adagia  dell’umanista urbinate Polidoro Virgili), e come da allora viene citata, è un proverbium che palesemente allude alla necessità dell’esercizio quotidiano per poter raggiungere un traguardo con successo.

 

– Altri proverbia ci sono tramandati dalle Noctes Atticae / Notti Attiche di Aulo Gellio. Due, entrambi relativi alla sfortuna, si trovano in III, 9 dove si narra la storia del cavallo di Seio, che si diceva arrecasse disgrazia a chi lo possedeva: il suo primo proprietario era stato infatti Gneo Seio, che, accusato ingiustamente di furto da Marco Antonio, era stato condannato a morte; il cavallo era stato poi acquistato dal console Publio Cornelio Dolabella, che era rimasto ucciso in battaglia; era passato quindi a Caio Cassio Longino, finito ucciso da Marco Antonio; era infine diventato proprietà di quest’ultimo, che, sconfitto nella guerra civile, era morto di una morte ignominiosa. Alla fine del racconto, si legge: «Hinc proverbium de hominibus calamitosis ortum dicique solitum: "ille homo habet equum Seianum. Eadem sententia est illius quoque veteris proverbii, quod ita dictum accepimus: "aurum Tolosanum"» / Da qui nacque e divenne di uso comune il proverbio sugli uomini sfortunati che recita “quell’uomo ha il cavallo di Seio”. Il significato è il medesimo di quel vecchio proverbio che è giunto a noi e che recita “l’oro di Tolosa”». Il racconto continua quindi riferendo che il console Quinto Servilio Cepione, dopo avere devastato Tolosa, si era impadronito dell’oro conservato nei templi: oro che si diceva maledetto, dal momento che tutti i saccheggiatori erano poi morti di morte violenta.

– Oltre al già citato passo della satira di Varrone (III, 16), col proverbio «Idem Atti, quod Tetti», in XIII, 18 Gellio riporta un brano di una orazione di Catone il Censore, che recita «Nunc ita aiunt in segetibus, in herbis bona frumenta esse. Nolite ibi nimiam spem habere. Saepe audivi inter os atque offam multa intervenire posse; verumvero inter offam atque herbam ibi vero longum intervallum est / Nella produzione del seminato, si dice oggi che nelle piante novelle è già presente un buon raccolto. Non sperateci troppo. Ho spesso sentito dire che molte cose possono succedere fra la bocca e il boccone; in sostanza, fra la focaccia e la piantina di frumento c’è davvero un lungo intervallo di tempo». Racconta quindi che il prefetto Erucio Claro, non comprendendo il significato di quelle parole, aveva scritto a Sulpicio Apollinare per chiedergli una spiegazione, e Apollinare aveva risposto  che «vetus esse proverbium«inter os et offam» era un «vecchio proverbio / vetus proverbium» che aveva lo stesso significato dell’adagio poetico greco “fra la tazza e il labbro si verificano molti errori”.

 

Come si può constatare, ci troviamo di fronte a forme locutive abbastanza diverse fra loro, accomunate comunque da due fattori significativi: la brevità e, soprattutto, il prevalente valore metaforico. Di fatto, solo tre dei proverbia citati – più “massime” che “proverbi” –  non hanno niente a che vedere con la metafora («Summum ius summa iniuria» e «Amicitias immortales, mortales inimicitias debere esse» «Sapientiam vino obumbrari»), e altri tre si prestano in parte  ad essere letti sia nel significato proprio che in quello metaforico («Phrygem plagis fieri solere meliorem», «Totidem hostes esse quot servos», «Talis hominibus fuit oratio qualis vita»).

Più di tanti altri, un proverbio come «Idem Attii, quod Tettii» ci fa poi capire cosa significhi affermare che, mutate le situazioni geografiche o storiche o sociali, un proverbio possa diventare completamente incomprensibile: come lo è questo per noi. La metafora, ovvero il parlare di qualcosa alludendo ad altro, presuppone infatti che sia “qualcosa” che “altro” debbano essere immediatamente compresi e dati per scontati fra chi parla e chi ascolta, fra chi scrive e chi legge: sicché, parlare di Attius e Tettius (o, al plurale, Attii e Tettii), alludendo metaforicamente a cose che non differiscono in nulla fra loro, presuppone che i due cognomi – che a noi non dicono assolutamente nulla – fossero molto comuni e molto noti a ‘mittenti’ e ‘destinatari’.

In misura forse minore, la stessa cosa vale per i proverbi: “Romanus sedendo vincit”, Phryx plagis fieri solet melior", Ille homo habet equum Seianum”, "Aurum Tolosanum".

Quanto a “Romanus sedendo vincit”, ci fornisce un esempio di come un proverbio possa avere, già di per sé, interpretazioni diverse, e di come il suo significato possa cambiare a seconda del contesto. Se, nel racconto di Varrone, è usato come semplice invito a non essere impazienti, e a trascorrere il tempo dell’attesa in piacevole tranquillità, esso può infatti valere per chi sa essere paziente, e lascia passare il tempo in attesa del momento più favorevole per agire ed ottenere la vittoria; per chi, senza agitarsi e comodamente, riesce comunque a raggiungere i propri obiettivi; per chi ottiene risultati senza fare uso della forza, ecc.. In contesti particolari, può anche essere rivolto a chi, preda di una passione, rimane per così dire legato ad una seggiola pur di non lasciarsi travolgere; o a chi quella seggiola non l’abbandona, per raggiungere i migliori risultati di studio. Usato più o meno ironicamente può valere per chi pensa di poter vincere facilmente e senza alcun impegno; così come, in modo sarcastico, può rivolgersi a chi perde tempo oziando in occupazioni inutili, ecc...

Da questa pur breve panoramica, si possono infine evincere diversi interessanti elementi.

Innanzi tutto, in relazione all’origine dei singoli proverbia, si può constatare come, se pur fatti propri dalla “saggezza popolare”, non sempre essi affondino in essa le proprie radici: basti pensare ai due proverbia citati da Livio e nati l’uno da una frase del soldato campano Taurea («Il ronzino in un fosso, di grazia, proprio no!»), e l’altro da una di Cecilio Metello («Le amicizie devono essere immortali, mortali invece le inimicizie»).

Il fatto poi che Livio, proprio in relazione alle due frasi, annoti «vox in proverbium prodita / frase divenuta poi un proverbio», relativamente alla prima, e «illud […] in proverbium venit / quella asserzione divenne un proverbio», relativamente alla seconda, testimonia di quanto vaghi possano essere i confini fra le varie ‘categorie’ di espressioni linguistiche passibili di diventare proverbiali, e come questa vaghezza renda possibili e facili i passaggi da una categoria ad un’altra. Oltre a Livio, ci testimoniano di passaggi simili anche Seneca e Plinio: il primo, in relazione al proverbio «Tale il parlare degli uomini quale la loro vita», «quod apud Graecos in proverbium cessit»; il secondo, in relazione al rimprovero rivolto da Apelle al ciabattino, «quod in proverbium venit», nonché all’abitudine del medesimo pittore di tracciare almeno una linea al giorno per esercitarsi, «quod ab eo in proverbium venit».

E ancora, è sempre Livio, e sempre con riferimento alle parole di Cecilio Metello, a fornirci un singolare spunto di riflessione, laddove annota che la sua asserzione passò sulla bocca di tutti e divenne un proverbio «perché era vera / quia verum erat »: il che, di fatto, porta indirettamente a considerare il proverbium una sorta di formula fissa di verità eterne.

In ultimo, l’espressione «Verum illuc dicunt / È proprio vero quello che dicono / È proprio vero il detto», con cui Terenzio introduce l’enunciato «Somma giustizia è spesso somma frode» – del tutto simile al iam tritum sermone proverbium «Giustizia ferrea, ingiustizia somma» di ciceroniana memoria – ci fa comprendere come si possa semplicemente alludere alla ripresa dalla tradizione orale per identificare un enunciato come proverbium, anche senza definirlo esplicitamente come tale: cosa che, peraltro, abbiamo già avuto occasione di rimarcare altrove, proprio parlando dei detti proverbiali nelle Commedie di Terenzio. In queste ultime, infatti, non compare mai la parola proverbium, ma si contano più di dieci proverbi accompagnati da espressioni quali appunto «verum illuc dicunt», o «verum illud verbum est», «vulgo quod dici solet», «vulgo audio dici», «verbum hoc verum», «venere in mentem mi istaec», «verum ita est», «vetus verbum hoc quidem est», o anche unicamente da aiunt (vedi «Homo sum: humani nil a me alienum puto – Sono un uomo: nulla di ciò che è umano io reputo estraneo a me»). Un ulteriore detto proverbiale, accompagnato da «verost, quod dici solet / È vero ciò che si suol dire», compare in Heauton timorumenos, 520-21, dove si legge «Visa verost, quod dici solet, aquilae senectus», traducibile come «Davvero tu ci mostri, come si è soliti dire, la vecchiaia dell’aquila». A parlare è il servo Siro, che si rivolge al suo padrone, il vecchio Cremete, bello sveglio di prima mattina, pur se reduce da una serata di abbondanti bevute. All’affermazione del vecchio di non avere bevuto «nulla di troppo», il servo ribatte appunto: «Nulla, dici? Davvero tu ci mostri, come si è soliti dire, la vecchiaia dell’aquila». C’è stato chi, servendosi di alcune fonti antiche, ha voluto leggere nelle parole di Siro un riferimento al fatto che, in vecchiaia, l’aquila potrebbe solo succhiare il sangue delle sue vittime, dato che la crescita abnorme del becco nella sua parte superiore le impedirebbe di aprirlo e la costringerebbe dunque a ingerire soltanto liquidi; in realtà, come è stato spesso osservato, pare evidente che Siro – sull’onda dei Greci che erano soliti paragonare a quella dell’aquila una vecchiaia invidiabile – intenda qui, più semplicemente, complimentarsi ironicamente con Cremete. Del resto, ancora oggi dire che si ha “la vecchiaia dell’aquila” corrisponde al vivere la vecchiaia dignitosamente, in buona salute e in ottima forma mentale; e tuttora esiste un proverbio che recita “Vecchiaia d’aquila, giovinezza di allodola”, che alcuni fanno indirettamente risalire ad un versetto tratto dal Libro dei Salmi («Egli sazia di beni i tuoi giorni e tu rinnovi come aquila la tua giovinezza», 102, 5).

Lasciando ora le aquile, e tornando al discorso iniziale sulle espressioni che, indirettamente, definiscono alcune locuzioni come ‘proverbi’, va detto – e lo si poteva facilmente immaginare – che il loro uso non è affatto una prerogativa di Terenzio: un’indagine sulle opere della letteratura latina, se pure veloce e dunque non esaustiva, mostra infatti quanto frequente sia, nelle diverse epoche e nei diversi autori, l’abitudine di citare proverbi richiamandosi semplicemente alla oralità della loro tradizione.

Come abbiamo già evidenziato per Terenzio (vedi ancora Homo sum…), si incontrano poi anche numerosi enunciati qualificabili come proverbiali pur non essendo introdotti o seguiti da alcuna formula (basti pensare al citato passo del  Satyricon di Petronio in cui si dice di Safinio che con lui si poteva giocare alla morra al buio); e ancora più numerosi sono quelli divenuti proverbiali nel tempo.

Innumerevoli sono infine le frasi che, estrapolate dai testi, sono diventate talmente famose da diventare spesso proverbiali.

Di tutto ciò parleremo nei prossimi contributi.