L’abitudine di citare locuzioni di uso comune senza definirle come proverbia, ma richiamandosi semplicemente alla oralità della loro più o meno lunga tradizione, è riscontrabile in numerosi autori della letteratura latina, a cominciare da Plauto.

Nel Mercator / Il mercante (vv.771-72), leggiamo, ad esempio, «Nunc ego verum illud verbum esse experior vetus, aliquid mali esse propter vicinum malum / Ora so per esperienza quanto sia vero il vecchio detto che “Chi ha un cattivo vicino ha di sicuro un qualche danno” (“Da un cattivo vicinato viene di sicuro un qualche danno”)».

Ancora, nel Miles gloriosus / Il soldato fanfarone  (vv.790-91), il proverbio «non è cosa facile da farsi soffiare e succhiare contemporaneamente / simul flare sorbereque haud factu facilest» è introdotto da «Si voles verbum hoc cogitare / Se vuoi riflettere su questo antico detto».

Nel Poenulus / Il Cartaginese (vv.135-137), si legge: «Scitumst, per tempus si obviamst verbum vetus. Nam tuae blanditiae mihi sunt quod dici solet gerrae germanae, αἱ δὲ κολλῦραι λύραι / Se ti viene in mente a proposito, cade proprio a fagiolo un vecchio detto: infatti i tuoi complimenti sono per me , come si suol dire, vere e proprie chiacchiere a vuoto, pure e semplici “canzonette stonate”».

Nell’Asinaria / La commedia degli asini, infine, al v. 203, si fa riferimento ad un vecchio detto Vetus est (verbum/ dictum) –, di cui si riporta solo la parte iniziale: «“Nihili coactiost…”scis cuius. Non dico amplius / È un vecchio detto “Non c’è niente da riscuotere…” Lo sai di cosa parlo. Non dico altro».  Il proverbio era evidentemente ben noto al pubblico, ma purtroppo non è giunto fino a noi nella sua completezza: in ogni caso – e anche se la lezione coactiost (coactio = esazione, riscossione) è controversa –, il contesto suggerisce che la ruffiana Cleareta, nel negare ogni concessione al giovane Diabolo, rimasto a secco dopo aver dissipato tutti i propri averi, e nel rimarcare che nulla si ottiene senza pagare, voglia porlo di fronte al dato di fatto che “niente si può riscuotere da chi niente ha”.

 

Dopo Plauto, è Terenzio a trasmetterci numerose frasi proverbiali, introducendole o accompagnandole con espressioni che le qualificano in quanto tali. Le frasi in questione sono già state tutte citate in «Homo sum: humani nil a me alienum puto», con l’aggiunta di una in «Divagazioni sui proverbi latini» («Visa verost, quod dici solet, aquilae senectus»): mi limito qui a riportarle, raggruppandole a seconda delle ‘formule’ ad esse associate.

«Verum illud verbum est, volgo quod dici solet, omnis sibi malle melius esse quam alteri – È vero quel proverbio che il popolo usa ripetere, che tutti preferiscono che vada bene a sé piuttosto che ad un altro – che ognuno antepone il proprio vantaggio a quello altrui» (Andria / La ragazza di Andro, vv. 426-427).

«Verbum hercle hoc verum eritSine Cerere et Libero friget Venus” – Accidenti, deve essere vero il detto “Senza Bacco e senza Cerere resta fredda Venere”» (Eunuchus / L’eunuco, v. 732).

«Vetus verbum hoc quidem est, communia esse amicorum inter se omnia – Un vecchio detto afferma che tutte le cose degli amici sono comuni – che tra amici si divide tutto» (Adelphoe / I fratelli, vv. 803-804).

«Verum ita est, quot homines tot sententiae – È proprio vero il detto “Quanti uomini altrettante sentenze”» (Phormio / Formione, vv. 453-54).

«Visa verost, quod dici solet, aquilae senectus – Davvero tu ci mostri, come si è soliti dire, la vecchiaia dell’aquila» (Terenzio, Heauton timorumenos / Il punitore di se stesso, vv. 518-19).

 «Verum illuc […] dicuntIus summum saepe summa est malitia” – È proprio vero il detto “Somma giustizia è spesso somma frode”» (Heauton timorumenos, vv. 795-796). Al riguardo, ricordiamo che Cicerone scrive «Summum ius summa iniuria / Giustizia ferrea, ingiustizia somma» (I doveri, I, 10), definendolo come «un proverbio sulla bocca di tutti» (vedi Divagazioni).

«Vulgo audio dici diem adimere aegritudinem hominibus – Sento ripetere dal popolo che il tempo allevia la sofferenza degli uomini» (Heauton timorumenos, vv. 421-422).

«Sic ut quimus, aiunt, quando ut volumus non licet – Stiamo come si può, come si dice, dato che non si può stare come si vuole» (Andria, v.805).

Quid si redeo ad illos qui aiunt “quid si nunc caelum ruat”? – E se io mi rifacessi a quelli che dicono “E cosa facciamo se ora ci casca addosso il cielo?» (Heauton timorumenos, v.719).

«Actum - aiunt - ne agas – Come si dice “Non curarti di compiere ciò che è già compiuto” », ovvero “Lascia stare ciò che non puoi cambiare”; “cosa fatta capo ha”» (Phormio, v. 419).

«Id quod aiunt, auribus teneo lupus – Come si suol dire, “Tengo il lupo per le orecchie”» (Phormio, v. 506).

«Ita fugias ne praeter casam, quod aiunt – Scappa pure, a condizione, come si suol dire, di non passare davanti a casa » (Phormio, v. 768).

«Venere in mentem mi istaecNamque inscitia est advorsum stimulum calces” – Mi hai fatto venire in mente il proverbio “È da stupidi prendere a calci un pungolo”» (Phormio, vv.77-78).

 

Oltre ai proverbia ricordati in Divagazioni, due sono ancora le frasi proverbiali che, introdotte da «come si dice», ci trasmette Varrone, all’inizio del suo trattato sull’agricoltura:

«Ut dicitur, si est homo bulla, eo magis senex – Come si dice, se l’uomo è di per sé una bolla d’acqua, tanto più lo è se vecchio» (De re rustica, I, 1).

«Ut aiunt, dei facientes adiuvant  – Come si dice, gli dei aiutano i volenterosi» (De re rustica, I, 1). Il proverbio ricorda molto da vicino: «Fortes fortuna adiuvat La fortuna aiuta i coraggiosi» (Terenzio, Phormio, v. 203); «Audentes Fortuna iuvat  – La fortuna arride agli audaci » (Virgilio, Aeneis / Eneide, X, 284); «Audentes deus ipse iuvat – Il dio stesso aiuta gli audaci» (Ovidio, Metamophoseon libri / Le metamorfosi, X, 586); «Fortes fortuna iuvat – La fortuna arride ai coraggiosi» (Plinio il Giovane, Epistulae / Epistole, VI, 16, 11). Qualche somiglianza è evidenziabile anche con la frase senecana «Fortuna fortes metuit, ignavos premit – La Fortuna ha paura dei coraggiosi, gli ignavi li schiaccia» (Medea, v.159).

 

Anche Cicerone ricorre talvolta a detti proverbiali senza definirli in quanto proverbia (come fa per i due citati in Divagazioni), ma caratterizzandoli semplicemente con le espressioni «ut dicitur», «quod aiunt» o «ut aiunt». Almeno cinque esempi si possono trovare nel De officiis / I doveri; uno nel De legibus / Le leggi; uno nel De finibus bonorum et malorum / Il sommo bene e il sommo male; uno in una epistola a Bruto.

In De officiis, II, 10, 36, parlando degli elementi che riguardano il conseguimento della gloria, Cicerone si sofferma sull’ammirazione riservata agli uomini che mostrano inaspettate qualità e singolari virtù, e, per converso, sul disprezzo riservato a chi è privo di buone qualità, nonché di spirito e di energia: uomini che non sono utili , «come si suol dire, “né per sé né per l’altro” – nec sibi nec alteri, ut dicitur», che mancano di ogni attitudine ed operosità e si disinteressano di tutto.

Sempre nel De officiis (III, 29, 105), si legge poi: «Quod aiunt “minima de malis” […] – Quanto al detto “il minore fra più mali” […]». I mali di cui si parla sono, di fatto, da un lato la vergogna, dall’altro la sventura: e Cicerone commenta  asserendo che comportarsi in modo turpe per sfuggire ad una disgrazia significa in realtà scegliere il più grande dei mali, perché non c’è male maggiore della turpitudine.

Quod aiunt ricompare anche in III, 30, 110: «Quod aiunt quod valde utile sit, id fieri honestum […] – Quanto al detto che ciò che è molto utile diventa onesto  […]». E Cicerone corregge il detto comune, asserendo che la formulazione corretta non dovrebbe essere «ciò che è molto utile diventa onesto», ma  «ciò che è molto utile è onesto», perché non c’è nulla di utile che non sia allo stesso tempo onesto, e perché niente è onesto se è utile, ma ogni cosa è utile se è onesta.

In III, 33, 116, poi, con riferimento al filosofo greco Aristippo, alla scuola cirenaica, e soprattutto a quella epicurea, Cicerone afferma che contro tutti costoro – contro le loro dottrine edonistiche – occorre lottare, come si suol dire (ut dicitur), «a piedi e a cavallo – viris equisque».

E, poco più avanti (III, 33, 117), Cicerone asserisce che, sì, Epicuro dice molte cose giuste sulla padronanza di sé e sulla temperanza, ma poi, come si suol dire (ut aiunt), «l’acqua si ingorga e stagna – aqua haeret», ovvero il suo ragionamento si incaglia, perché non si può lodare la temperanza se si pone il sommo bene nel piacere.

Molto familiare è per noi il modo di dire che compare nel De legibus (III, 16): in riferimento al tribuno Marco Gratidio, si legge infatti che «excitabat […] fluctus in simpulo ut dicitur  – scatenava, come si dice, una tempesta in un bicchiere». Più che un vero e proprio bicchiere, il simpulo era in realtà una sorte di grande cucchiaio – o piccolo vaso che dir si voglia – con un lungo manico, usato nei sacrifici per attingere il vino.

Ugualmente familiare è la locuzione che Cicerone ci tramanda nel De finibus, laddove scrive: «qui numquam philosophum pictum, ut dicitur, viderunt  – quelli che un filosofo non l’hanno mai visto, come si dice, nemmeno dipinto» (V, 27).

Nella lettera di consolazione e di esortazione ad essere forte, indirizzata a Bruto in occasione della perdita di una persona a lui molto cara (forse la moglie Porcia), Cicerone non manca di ricordargli il suo ruolo pubblico, che lo pone sotto gli occhi di tutti, dall’esercito ai cittadini, scrivendo anche: «Tibi nunc populo et scaenae, ut dicitur, serviendum est – Ora, tu devi venire incontro ai desideri del popolo e, come si suol dire, della platea» (Ad Brutum, I, 9, 2).

 

Altri esempi di proverbi, citati col ricorso alla loro tradizione orale, sono presenti in Orazio, Properzio, Seneca e Frontone:

 «Hac urget lupus, hac canis aiunt – Da una parte, si dice, incalza il lupo, dall’altra il cane »: così si legge in Orazio (Sermones / Satire, II, 2, 64). Il detto, che si riferisce palesemente alla situazione di chi si trova a dover scegliere fra due alternative entrambe rischiose (un po’ come dire “trovarsi fra l’incudine e il martello”), è presente in forma leggermente diversa già in Plauto: «Hac lupi, hac canes / Di qua ci sono i lupi, di là i cani» (Casina, v. 971).

«Pudeat, certe, pudeat! Nisi forte, quod aiunt, turpis amor surdis auribus esse solet – Dovrei vergognarmi, certo, vergognarmi! Sennonché forse è vero quanto si dice, e cioè che “un amore degradante suole avere le orecchie sorde”». Il proverbio ci viene tramandato da Properzio (Elegiarum libri IV / Elegie, II, 16, 35-36).

Oltre ai tre proverbia citati nelle sue Epistole a Lucilio (vedi Divagazioni), dobbiamo a Seneca il «vetus dictum» «a lasso rixam quaeri», ovvero «la rissa la cerca chi è sfinito» (De ira / L’ira, III, 9).

Infine, è Frontone a tramandarci un detto relativo all’atto dello scrivere e alle difficoltà ad esso connesse. In una sua epistola all’imperatore Antonino Pio (Ep. ad Antoninum I, 5), si legge infatti: «Quaedam menti meae se offerebant non supino, ut dicitur, rostro scribenda – Mi venivano in mente cose che non si potevano scrivere, come si dice, col becco rivolto al cielo (a faccia in su, con la testa per aria)». Si trattava cioè di argomenti che non potevano essere affrontati in maniera superficiale, ma richiedevano una attenta considerazione e la necessaria attenzione (Sullo «scurrarum proverbium» presente in un’altra sua epistola, vedi Divagazioni).

 

Anche in questi casi, come già annotato per i proverbia ci troviamo di fronte a forme locutive abbastanza diverse fra loro; e anche per questi ‘proverbi’ valgono alcune delle osservazioni fatte in precedenza (vedi Divagazioni): dal ruolo in essi della metafora, all’insistenza sul verum – sulla verità – in essi contenuta.

Citazioni come «Hac lupi, hac canes» (Plauto, Casina, v. 971), o «Fortes fortuna adiuvat» (Terenzio, Formione, v. 203), o ancora «Audentes Fortuna iuvat» (Virgilio, Eneide, X, 284), ecc. confermano peraltro come spesso i proverbi – probabilmente i più noti – potessero essere riportati senza l’ausilio di alcuna formula utile a qualificarli in quanto tali.