Come già ripetutamente osservato (vedi «Homo sum [...]», «Divagazioni sui proverbi latini», «Divagazioni [...] Capitolo secondo»), …), sono numerosissimi gli enunciati qualificabili come proverbiali: locuzioni già ampiamente diffuse nel mondo romano, o frasi estrapolate dai testi letterari e diventate proverbiali nel tempo, non sempre distinguibili fra loro.

I temi coinvolti – impossibili da raggruppare tutti – vanno dalla gestione della quotidianità al vissuto personale; dai motivi folklorici del bere, del mangiare, del sesso e della morte agli imperativi morali; dall’amore alla felicità; dal destino alle scelte individuali; dal sociale al privato, ecc. Vi si dettano regole di condotta più o meno normative, che, riconosciute come valide dalla società di origine, possono avere valore universale o essere riservate a determinate categorie di persone; oppure vi si indicano delle ‘verità’ lasciando implicito il valore normativo, ecc.

 

Sono sicuramente proverbiali già nell’antichità, ad esempio, locuzioni sentenziose quali:

- «Hac lupi, hac canes – Di qua ci sono i lupi, di là i cani» (Plauto, Casina, v. 971), presente anche in una delle Satire di Orazio (II, 2, 64) con riferimento alla sua diffusione orale («Hac urget lupus, hac canis aiunt» (vedi «Divagazioni [...] Capitolo secondo»).

- «Virtus est ubi occasio – Il coraggio si manifesta quando si presenta l’occasione» (Plauto, Persa, v. 268). In forme diverse, il concetto si ritrova anche in Seneca, che scrive: «Tunc est probanda, si locum virtus habet – Il coraggio va dimostrato se si presenta un’occasione propizia»; « Numquam potest non esse virtuti locus – Non può non esserci sempre un’occasione propizia per il coraggio» (Medea, v. 150 ss.).

- «Et oleum et operam perdidi – Ci ho perso l’olio e la fatica» (Plauto, Poenulus, v. 332). Non a caso, il proverbio ricompare anche in Cicerone (Epistole, VII, 1 – a Mario), che lo mette in bocca a Pompeo in relazione al proprio spreco di “olio e fatica” nell’allestimento di giochi di gladiatori. Il nesso oleum /opera si trova infine in due epistole dello stesso Cicerone ad Attico (II, 17 e XIII, 38). Il significato è chiaro: se opera  è “il lavoro”, la “fatica”, oleum – da non escludere che il riferimento sia all’olio usato per la lucerna che permetteva di scrivere e lavorare al calare del buio – rappresenta “ciò che si è consumato”.

- «Fortes fortuna adiuvat – La fortuna aiuta i forti» (Terenzio, Phormio, v. 203). A testimoniarne la diffusione stanno non solo le numerose occorrenze in forme più o meno simili («Audentes Fortuna iuvat – La fortuna aiuta gli audaci» nell’Eneide; «Audentes deus ipse iuvat» nelle Metamorfosi ovidiane; «Fortes fortuna iuvat» nelle Epistole di Plinio il Giovane), ma anche l’«ut aiunt – come si dice» con cui Varrone, nel De re rustica, introduce il proverbio molto simile «Dei facientes adiuvant – Gli dei aiutano i volenterosi». Come si è già avuto occasione di ricordare, qualche somiglianza è evidenziabile anche con la frase senecana «Fortuna fortes metuit, ignavos premit – La Fortuna ha paura dei coraggiosi, gli ignavi li schiaccia» (vedi «Divagazioni [...] Capitolo secondo»).

- «Stilicidi casus lapidem cavat – Una goccia che cade di continuo scava la pietra» (Lucrezio, De rerum natura / La natura delle cose, I, 313), o, nella forma per noi più familiare, «Gutta cavat lapidem – La goccia scava la pietra» (Ovidio, Epistulae ex Ponto / Epistole dal Ponto, IV, 10, 5). Il concetto è ripreso da Lucrezio in IV, 1286-87 («Nonne vides etiam guttas in saxa cadentis umoris longo in spatio pertundere saxa? – Non vedi come anche le gocce di liquido che cadono assidue sulle rocce a lungo andare traforano quelle rocce?»), e da Ovidio in Ars amandi / L’arte di amare, I, 473-74 («Quid magis est saxo durum? Quid mollius unda? Dura tamen molli saxa cavantur aqua – Cosa c’è di più duro della roccia, e che cosa di più fluido delle onde? E tuttavia le dure rocce sono scavate dalla fluida acqua». Dal canto suo, Tibullo (Elegiae / Elegie, I, 4, 18) scrive: «Longa dies molli saxa peredit aqua – In lunghi giorni la fluida acqua erode le rocce».

- «Unde habeas quaerit nemo, sed oportet habere – Nessuno ti chiede da dove venga il denaro, ma l’importante è che tu ne abbia»: questa è la ‘sentenza’– o aforisma che dir si voglia – presente in Giovenale, e introdotta da «Stia sempre sulla tua bocca quella famosa sentenza (sententia) degna degli dei e di essere stata inventata dallo stesso Giove, che recita» (Saturae / Satire, XIV, 205-7).

 

Ugualmente proverbiali, attestate in più di un autore e giunte fino a noi, sono numerose espressioni quali, fra le più diffuse:

- «Lupus in sermone», o, meglio ancora «Lupus in fabula». «Eccum tibi lupum in sermone – Ed eccoti il lupo nella favola» compare in Plauto (Rudens, v. 577); «Lupus in fabula» è in Terenzio (Adelphoe, v. 537), e in Cicerone (Epistole ad Attico, XIII, 33).

 - «Avere la lingua biforcuta come un serpente». «Tamquam proserpens bestiast bilinguis et scelestus – Ha la lingua biforcuta come un serpente ed è una canaglia» troviamo in Plauto (Persa, v. 299), e l’espressione ritorna in Truculentus, vv. 780-81; la troviamo anche in Fedro (Fabulae / Favole, II, 4, 25), Manilio (Astronomica, IV, vv. 575-76), ecc.

- «Rara avis – Uccello raro». Questa metafora, usata ad indicare qualcosa o qualcuno di molto difficile a trovarsi, compare per la prima volta in Aulo Persio, che, ironicamente, definisce così l’evento di riuscire qualche volta a scrivere qualcosa di buono (Saturae / Satire, I, 45-6). Una metafora simile, riferita questa volta all’uomo felice, ricompare in una satira di Giovenale, dove però, al posto del generico rara avis, troviamo il rarissimo corvo albino (vedi più avanti).

 

Pur se non frequentemente presenti nei testi a noi pervenuti, manifestano chiaramente un carattere proverbiale, ed hanno in alcuni casi goduto di grande fortuna nei secoli, anche locuzioni del tipo «Le cose vanno in discesa / Fila tutto liscio come l’acqua», «Trovarsi fra il ceppo e la mannaia», «Non c’è fumo senza fuoco», «Legare una cagna con budella di agnello», «Versare parole in una botte sfondata», «Durare il tempo di uno starnuto», «Il ricco ha molti amici», «Chi ha rimestato il pasticcio se lo ingozzi», «Il miglior condimento è la fame», «La fame aguzza l’ingegno», «Strepitare come un’oca fra i cigni», «Dire la verità scherzando», «È da sciocchi portare legna nel bosco», «Tante le differenze esteriori, altrettante le indoli», «Il ferro si consuma, le selci si logorano», «Solo chi è povero conta le proprie pecore», «La volontà di guarire è parte della guarigione», «Solo chi non ha paura di chiedere può ottenere», «Perdonare i corvi e accusare le colombe», «Cambiare il nero in bianco», «Più raro di un corvo bianco», «Credersi figlio della gallina bianca», «Vendere fumo», «La volpe muta il pelo ma non il vizio».

Attestazioni:

- «Hoc quidem tibi in proclivi quam imber est quando pluit – Le cose ti vanno proprio in discesa come l’acqua quando piove» (Plauto, Captivi, v. 336).

- «Nunc ego inter sacrum saxumque sum Ora mi trovo fra il ceppo e la mannaia» (Plauto, Casina, v. 970): detto con lo stesso significato di «Hac lupi, hac canes», o del moderno «Trovarsi fra l’incudine e il martello».

- «Semper[…] flamma fumo est proxuma  –Vicinissimo al fumo c’è sempre il fuoco» (Plauto, Curculio, v. 53).

- Plauto, Pseudolus, vv. 318-19 «Qua opera credam tibi, una opera alligem fugitivam canem agninis lactibus  – Fidarmi di te equivarrebbe a legare una cagna fuggitiva con budella di agnello da latte». Il proverbio allude chiaramente alla scelta di un rimedio totalmente inutile, se non peggiore del danno: del tipo «Far come Isacco che straccia le camicie per aggiustare il sacco».

- «In pertusum ingerimus dicta dolium – Stiamo versando parole in una botte sfondata» (Plauto, Pseudolus, v. 369): ovvero «Stiamo sprecando il fiato». Pare chiaro il riferimento al mito delle Danaidi, condannate nell’Ade al supplizio eterno di trasportare e versare acqua in una botte dal fondo bucato.

- «Dum tu sternuas, res erit soluta – Il tempo di starnutire e la faccenda sarà conclusa» (Plauto, Pseudolus, vv. 629-30).

- «[…] Res amicos invenit – «Le amicizie di un uomo sono legate alla sua fortuna. Se il patrimonio è saldo, allora sono saldi anche gli amici, ma se il patrimonio vacilla, allora vacillano anche gli amici. Gli averi scovano le amicizie» È la grana che ti fa trovare gli amici» (Plauto, Stichus, v. 522).

- «Tute hoc intristi, tibi omne est exedendum – Tu hai rimestato il pasticcio e tu devi ingozzartelo tutto», ovvero «Tu hai combinato il pasticcio e tu devi risolverlo da solo» (Terenzio, Phormio, v. 318).

- «Socratem […] audio dicentem cibi condimentum esse famem, potionis sitim  – Do ascolto a Socrate quando asserisce che condimento del cibo è la fame e delle bevande la sete»: questo l’aforisma citato da Cicerone (Il sommo bene e il sommo male, II, 28) e da lui attribuito a Socrate.

- «Neque adhuc Vario videor nec dicere Cinna digna, sed argutos inter strepere anser olores – Non mi sembra ancora di cantare cose degne di Vaio né di Cinna, ma mi sembra di strepitare come un’oca fra i melodiosi cigni» (Virgilio, Eclogae / Bucoliche, IX, 35-36). Sullo sfondo, si può scorgere il riferimento all’antica favola esopica col cigno che, scambiato per l’oca nell’oscurità, stava per essere ucciso dal proprietario, finché il suo canto non svelò lo scambio, salvandogli la vita: favola da cui nacque quasi certamente la proverbiale antitesi fra oca e cigno, presente ad esempio nei proverbi «Ognuno vede le proprie oche come cigni», e «Per quanto allunghi il collo, l'oca non diverrà mai cigno».

- «Ridentem dicere verum quid vetat? – Che cosa vieta di dire la verità ridendo?» (Orazio, Sermones / Satire, I, 1.24-25).

- «In silva non ligna feras insanius ac si magnas Graecorum malis implere catervas – Non saresti più sciocco a portare legna nel bosco che a voler accrescere ulteriormente le già folte schiere dei poeti greci» (Orazio, Satire, I, 10, 34-35): così – tali voce – parla il dio Quirino ad Orazio in sogno.

- «Etiam stultis acuit ingenium fames – La fame acuisce l’ingegno anche agli sciocchi»: questa è la morale della favola di Fedro sull’orso affamato che impara a pescare i gamberi (Appendix Perottina, 20). Sull’Appendix Perottina, vedi Le “Favole” di Fedro – Fra tradizione e innovazione.

- «Pectoribus mores tot sunt, quot in orbe figurae – Tante sono le indoli quante sono al mondo le fattezze umane » (Ovidio, Ars amandi / L’arte di amare, I, 757): non a caso, simile al detto riportato da Terenzio «quot homines tot sententiae – Quanti uomini altrettante opinioni» (Phormio, vv.453-54).

- «Conteritur ferrum, silices tenuantur ab usu – Il ferro si consuma, si logorano le selci per l’uso» (Ovidio, Ars amandi, III, 91).

- «Pauperis est numerare pecus – Solo chi è povero conta le proprie pecore » (Ovidio, Le metamorfosi, XIII, 824): così canta il Ciclope, vantando le proprie ricchezze alla ninfa Galatea.

- «Pars sanitatis velle sanari fuit – Parte della guarigione è da sempre il voler guarire – » (Seneca, Fedra, v. 249): proverbio simile a «Voler guarire è quasi tornar sano», o «La voglia di guarire aiuta a rifiorire».

- «Qui timide rogat docet negare – Chi chiede timidamente insegna a rifiutare» (Seneca, Fedra, v. 593-94: simile a «Non c’è intoppo per avere, più che chiedere e temere».

- «Da tempus ac spatium tibi: quod ratio non quit, saepe sanavit mora – Devi darti tempo e spazio: quello che la ragione non ha potuto guarire, spesso lo ha guarito la dilazione » (Seneca, Agamennone, vv.129-30): che è come dire «Il tempo cura le ferite e sistema le cose».

- «[…] dat veniam corvis, vexat censura columbas – E, dopo ciò, si dice male di noi? Così si perdona ai corvi e si accusano le colombe!» (Giovenale, Satire, II, 63).

- «Maneant qui nigrum in candida vertunt – Rimangano pure a Roma […] quelli che cambiano il nero in bianco» (Giovenale, Satire, III, 30): ovvero, gli spacciatori di fandonie, quelli che stravolgono e capovolgono la verità, asserendo che il bianco è nero e il nero è bianco.

- «Felix ille tamen corvo quoque rarior albo – E tuttavia l’uomo felice e fortunato è anche più raro di un corvo bianco» (Giovenale, Satire, VII, 202). Come s’è detto, col medesimo significato il poeta Persio usa l’espressione rara avis. I versi di Giovenale ricordano molto da vicino il proverbio «È più raro della fenice l’uomo che in tutto sia felice».

«[…] ten, o delicias, extra communia censes ponendum, quia tu gallinae filius albae, nos viles pulli, nati infelicibus ovis? – Forse tu, gioia, pensi di non essere come tutti gli altri, perché sei figlio della gallina bianca, mentre noi siamo poveri polli nati da uova sfortunate?» (Giovenale, Satire, XIII, 141). Il significato della locuzione è abbastanza chiaro, anche se ci sono dubbi sulla sua origine, né risultano altre occorrenze che possano scioglierli: la spiegazione più generica è che si faccia riferimento ad un tempo in cui una gallina tutta bianca veniva considerata la più pregiata del pollaio; ma si è anche avanzata la supposizione, probabilmente corretta, che il riferimento sia ad uno specifico episodio narrato da Svetonio all’inizio della biografia dell’imperatore Galba, e già presente nella Naturalis historia / Storia naturale di Plinio il Vecchio (XV, 40). Plinio e Svetonio riferiscono, con alcune variabili, di un evento memorabile verificatosi all’epoca di Augusto. Plinio racconta che un’aquila, dopo aver ghermito una gallina di grande candore (gallinam conspicui candoris), dall’alto la lasciò cadere sul grembo di Livia Drusilla, allora promessa ad Augusto e destinata poi a diventare sua moglie; la gallina aveva nel becco un ramo d’alloro carico delle sue bacche, e gli indovini comandarono che non solo si provvedesse a proteggere la gallina e i polli che ne sarebbero nati, ma che si piantasse e si proteggesse anche l’alloro; in seguito, la villa in cui si trovava la gallina, e in cui il ramoscello d’alloro crebbe rigoglioso, dando origine ad un folto laureto, prese il nome “Le galline”. In Svetonio, l’episodio miracoloso – con l’aquila che rapisce in cielo una gallina bianca (gallinam albam) con un ramoscello di alloro stretto nel becco, è collocato subito dopo il matrimonio, nella villa di Veio, e si attribuisce a Livia la decisione di fare allevare la gallina e far piantare l’alloro; si racconta inoltre che, nell’ultimo anno della vita di Nerone, inaridì tutto il laureto e morirono tutte le galline. In ogni caso, «figlio della gallina bianca» indica senza dubbio qualcuno che crede di essere speciale, e ritiene di essere destinato ad una vita lussuosa e protetta per il solo fatto di stare al mondo.

- «Vendere […] vanos circa palatia fumos – Vendere vani fumi attorno ai palazzi» è, secondo Marziale, una delle cose che, a Roma, gli uomini onesti giustamente non sanno fare (Epigrammaton libri / Epigrammi, IV, 5).

- «[…] proclamaverit “vulpem pilum mutare, non mores”– Qualcuno dice che fosse avidissimo di natura, citando il rimprovero che gli aveva fatto un vecchio bovaro quando, all’atto in cui era stato innalzato all’impero, si era visto respingere la preghiera di concedergli la libertà a titolo gratuito: “la volpe muta il pelo ma non il vizio”» (Svetonio, Vespasianus, XV).

 

Innumerevoli sono infine le frasi d’autore che hanno attraversato i secoli, finendo talvolta col far perdere traccia delle propria origine letteraria e trasformandosi in veri e propri detti proverbiali.

Basti pensare a:

- «Homo homini lupus – L'uomo è un lupo per l’uomo / Ogni uomo è un lupo per un altro uomo». È Plauto a scrivere: «Lupus est homo homini, non homo, quom qualis sit non novit – Quando non lo si conosce, un uomo è un lupo per l’uomo (che gli sta di fronte), e non un uomo (Plauto, Asinaria, v. 495). Come si può constatare, nel passo plautino, la frase ha chiaramente valore circostanziale e non assoluto: l’estremo pessimismo che l’ha poi caratterizzata, con riferimento all’istinto di sopraffazione e all’egoismo che determina sempre le azioni umane è sicuramente una variazione successiva.

- «Hospes nullus tam in amici hospitium devorti potest, quin, ubi triduom continuom fuerit, iam odiosus siet – Nessun ospite può trattenersi a casa dell’amico che lo ospita tanto a lungo da non venire in odio all’amico stesso dopo essersi trattenuto tre giorni di seguito» (Plauto, Miles gloriosus, vv. 741-43). Molto probabilmente, i versi plautini sono all’origine del noto proverbio «L’ospite è come il pesce, dopo tre giorni puzza».

- «Certa mittimus dum incerta petimus; atque hoc evenit in labore atque in dolore, ut mors obrepat interim – Mentre cerchiamo l’incerto lasciamo il certo; e intanto accade che, in mezzo ad affanni e dolori, si insinua la morte» (Plauto, Pseudolus, vv. 685-86). Il che è come dire «Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia e non sa quel che trova».

- «Cuiusvis hominis est errare: nullius nisi insipientis, in errore perseverare – È proprio di ogni uomo l'errare: di nessuno, se non dello sciocco, perseverare nell'errore» (Cicerone, Philippicae orationes / Filippiche, XII, 5). Nella sua forma più conosciuta, la frase è diventata «Errare humanum est, perseverare autem diabolicum – Errare è umano, ma perseverare nell’errore è diabolico». Questa versione ci riporta a S. Agostino, che, in uno dei suoi suoi Sermones / Discorsi (164, 14), afferma: «Humanum fuit errare, diabolicum est per animositatem in errore manere  – Cadere nell'errore è stato proprio della natura umana, è diabolico insistere nell'errore per malanimo».

- «Appius ait fabrum esse suae quemque fortunae – Appio afferma che ognuno è artefice della propria sorte» (Pseudo-Sallustio, Epistulae ad Caesarem senem de Re publica / Epistole al vecchio Cesare sul governo della Repubblica, I, 1, 2). Il riferimento ad Appio Claudio Cieco riconduce la sententia al IV/III secolo a. C. Sia in latino che in traduzione italiana, sono ancora proverbiali «Faber est suae quisque fortunae», o, in forme abbreviate, «homo faber fortune suae» e «homo faber ipsius fortunae».

- «Quid rides? Mutato nomine, de te fabula narratur – Che cosa hai da ridere? Mutato il nome, la favola parla di te» (Orazio, Satire, I, 1, 69-70). L'espressione «De te fabula narratur» si usa tuttora quando qualcuno non capisce , o finge di non capire, che il discorso lo riguarda.

 - «Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tabernas regumque turris – La pallida morte bussa con piede imparziale ai tuguri dei poveri e ai palazzi dei re» (Orazio, Carmina / Odi, I,4, 13-14); «Aequa tellus pauperi recluditur regumque pueris – La terra si schiude imparziale per accogliere il povero e i figli dei re» (Odi, II, 18, 32). Immediato il richiamo a proverbi come «L’eccelse ed umil porte batte ugualmente morte» «La morte non guarda in faccia nessuno», «La morte pareggia tutti» «Alla fine del gioco tanto va nel sacco il re quanto la pedina», ecc.

- «Parturient montes, nascetur ridiculus mus – Partoriranno le montagne , e nascerà un topolino ridicolo» Orazio, Ars poetica / L’arte poetica, v. 139. Orazio si riferisce a quei testi epici che iniziano con un esordio vanamente roboante: conformemente a ciò, nell’accezione moderna, il detto «La montagna ha partorito un topolino» viene usato per indicare che i risultati sono ridicolmente inferiori alle aspettative.

- «Semel in anno licet insanire – Una volta all'anno è lecito fare pazzie»: frase che, in forma leggermente diversa, compare nel De tranquillitate animi / La tranquillità dell’animo, laddove citando il poeta greco Menandro, Seneca scrive: «aliquando et insanire iucundum est» (XVII, 10). In forma più simile a come la conosciamo, la frase si trova peraltro nel De civitate Dei / La città di Dio di S. Agostino, dove si legge che, nel suo trattato sulla superstizione, Seneca avrebbe affermato: «Tolerabile est semel anno insanire» (VI, 10).

- «Manus manum lavat  – Una mano lava l’altra» (Seneca, Apokolokyntosis o Ludus de morte Claudii / Satira sulla morte di Claudio, IX e Petronio, Satyricon, XLV, 13).

- «Mens sana in corpore sano Una mente sana in un corpo sano». La locuzione si deve a Giovenale, che, in una delle sue Satire, nel criticare gli uomini che aspirano a ricchezze materiali e alla fama, riferendosi alle giuste preghiere da innalzare agli dei, scrive: «Orandum est ut sit mens sana in corpore sano – Bisogna pregare di avere una mente sana in un corpo sano» (X, 356). E continua: «Chiedi uno spirito vigoroso, libero dalla paura della morte, […] che sappia sopportare qualunque fatica, che sappia ignorare la collera e il desiderio[…]». Dunque, nel contesto originario, la locuzione ha un significato palesemente diverso da quello che ha oggi assunto: non afferma infatti che, per avere una mente sana, è necessario che anche il corpo lo sia, ma considera la sanità fisica e quella mentale come gli unici beni per cui si debba pregare.

 

Tra le frasi letterarie che sono divenute proverbiali nel tempo, o che in proverbi popolari hanno trovato e trovano riscontro, un capitolo a parte è rappresentato da quelle sull’amore. Ne ricordiamo solo alcune:

- «Amor et melle et felle est fecundissimus – L’amore è una sorgente inesauribile di miele e di fiele» (Plauto, Cistellaria, v. 69).

- «Quom inopiast, cupias; quando eius copiast, tum non velis. – Quello di cui c’è mancanza lo si desidera; quando ce n’è in abbondanza, allora non lo si vuole» (Plauto, Trinummus, v. 671).

- «Amantium irae amoris integratio est  Le liti degli amanti ne rinnovano l’amore» (Terenzio, Andria, v. 555).

- «Mulier cupido quod dicit amanti, in vento et rapida scribere oportet aqua – Ciò che donna dice all’amante smanioso, va scritto nel vento e nell’acqua che scorre impetuosa» (Catullo, Carmina / Poesie, 70, 3-4).

- «Amantem iniuria talis cogit amare magis, sed bene velle minus – Il tradimento eccita l’amante alla passione, ma spegne il voler bene» (Catullo, Carmina / Poesie, 72, 7-8).

- «Quantum oculis, animo tam procul ibit amor Quanto sarà lontano dagli occhi, altrettanto lontano dal cuore se ne andrà l’amore» (Properzio, Elegiarum libri IV / Elegie, III, 21, 10).

- Orazio, «Leporem venator ut alta in nive sectetur, positum sic tangere nolit […] Meus est amor huic similis: nam transvolat in medio posita et fugientia captat – Il cacciatore insegue la lepre sulla neve alta e si rifiuta di toccarla una volta che sia servita a tavola […] Il mio amore è simile a quel cacciatore: infatti trascura ciò che è a disposizione e cerca di afferrare ciò che gli sfugge» (Orazio, Sermones, I, 2,105-108). In questi versi Orazio traduce liberamente un epigramma del poeta greco Callimaco, e lo fa per criticare quegli amanti incontentabili che ricercano l’amore delle matrone, sprezzando donne più pronte e facili da conquistare. Il motivo dell’amore che insegue chi fugge o fugge a chi lo insegue, su cui Orazio ironizza, ha un’ampia presenza nella poesia amorosa e nella letteratura di tutti i tempi: e, come dimostrano i numerosi proverbi, trova anche ampia diffusione nel vissuto quotidiano. Nel mondo latino, lo ritroviamo ad esempio frequentemente in Ovidio: «Quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor – Ciò che mi insegue, io lo fuggo; ciò che mi fugge, sono io ad inseguirlo» (Amores / Amori, II, 19, 36). E poi: « Quod refugit, multae cupiunt, odere quod instat – Molte donne desiderano ciò che a loro sfugge, disdegnano ciò che le incalza / » (Ars amandi / L’arte di amare, I, v. 715). E ancora: «[…] Requietus ager bene credita reddit, terraque celestes arida sorbet aquas – Quando sarai certo che ti vuole e soffrirà se tu le sei lontano, dalle un poco di requie: un campo riposato rende generosamente ciò gli è stato affidato, e una terra arida beve avidamente le acque del cielo» (Ars amandi, II, 349-54).

- «Quod licet, ingratum est; quod non licet acrius urit Non piace ciò che è lecito, più ardentemente brucia il proibito» (Ovidio, Amores / Amori, II, 19, 3): concetto ripetuto da Ovidio anche nel libro III, quando scrive «Nitimur in vetitum semper cupimusque negata Aspiriamo al proibito, sempre, e desideriamo ciò che ci viene negato» (4, 17); e ancora «Iuvat inconcessa voluptas Fa godere un piacere non consentito» (4, 31).

 - « Pinguis amor nimiumque patens in taedia nobis vertitur, et, stomacho dulcis ut esca, nocet Un amore facilmente saziabile e troppo indisturbato ci si tramuta in noia ed è per noi nocivo, come nocivi per lo stomaco sono i cibi dolci» (Ovidio, Amori, II, 19, 25-26). O, per dirla con altre parole: «Dulcia non ferimus; suco renovemur amaro Non sopportiamo le cose dolci; siamo rinvigoriti dalle pozioni amare / » (Ars amandi, III, v. 583).

 

«L’amore dinanzi ha il miele, e di dietro si attacca il fiele».

«Cosa troppo vista perde grazia e vista».

«L’amore non è bello se non è litigarello»

«Amor senza baruffa fa la muffa».

«Lontano dagli occhi lontano dal cuore».

«Se vuoi che ti ami fa’ che ti brami»,

«In amor vince chi fugge»

«Più da noi è desiderato ciò che più ci vien negato».

«Cosa vietata è più desiderata».

 «Quel che è lecito dispiace, e quel che è vietato piace».

«Il troppo zucchero guasta le vivande e il troppo dolce stomaca».