Ogni lingua è soggetta a mutamenti. Se noi consideriamo l’italiano, e leggiamo diversi testi di epoche diverse, ci rendiamo subito conto che la nostra lingua è cambiata nel tempo (diacronicamente): ci rendiamo conto che, nel tempo, sono cambiati i suoni, sono cambiate la morfologia e la sintassi, è cambiato il lessico (anche con l’introduzione di neologismi e di parole straniere). Ma non solo: possiamo notare che esiste, nell’italiano, uno scambio continuo fra lingua e dialetti (scippo, ad esempio, è di origine romana; intrallazzo è di origine siciliana; scassare è di origine napoletana; balera è di origine lombarda…); constatiamo inoltre che esiste un uso diverso della lingua all’interno delle diverse classi sociali e che esistono tutta una serie di lingue ‘speciali’ (medicina, biologia, fisica, vita militare, burocrazia…); ci accorgiamo che esiste una lingua letteraria e che, a prescindere dai dialetti, esistono tutta una serie di variazioni regionali; possiamo dire insomma che la nostra lingua, in ogni suo periodo storico, è caratterizzata anche da differenze che si presentano simultaneamente (sincronicamente).
Ugualmente, anche il latino, per tutto l’arco della sua sopravvivenza, è caratterizzato da grandi differenze sia diacroniche che sincroniche.
Diacronicamente, nella storia del latino come lingua viva di una comunità di parlanti, si possono grossomodo distinguere sette fasi, l’ultima delle quali (latino tardo-antico, o basso) copre i secoli dal III al VI.
Sincronicamente, il latino, nelle sue diverse fasi, è caratterizzato da diversi livelli stilistici: c’è la lingua letteraria, ci sono le lingue tecniche delle varie arti e attività, c’è la lingua d’uso della conversazione e della corrispondenza e c’è, infine, il latino volgare degli indotti o semidotti. Di quest’ultimo abbiamo ovviamente testimonianze molto ridotte, limitate a singoli elementi, più o meno celati nel normale tessuto linguistico dei vari autori.
C’è però una eccezione, ed è rappresentata dall’ Itinerarium (o Peregrinatio) Egeriae ad loca sancta, che riveste dunque un’importanza notevole dal punto di vista della storia linguistica: ed è su questo aspetto che solitamente si soffermano – peraltro brevemente – i vari manuali di letteratura latina o di letteratura latina medievale, mettendo in rilievo come l’Itinerario – eccezionale esempio di latino volgare – ci testimoni ampiamente fatti linguistici propri dell’uso corrente, tali da preludere per vari aspetti alla futura nascita delle lingue romanze.
Sennonché, l’operetta e la sua autrice meritano sicuramente di essere meglio conosciute.

Le prime notizie attorno ad Egeria e al suo pellegrinaggio si trovano nella lettera scritta, verso la fine del VII secolo, da un monaco di un’abazia della regione del Bierzo, in Spagna, ai propri confratelli, in cui, lodando questa donna coraggiosissima, il monaco racconta appunto del suo viaggio dalla vicina Galizia alla Terrasanta.
Solo nel 1884, nella biblioteca della Fraternita dei laici ad Arezzo, fu scoperto un manoscritto databile al secolo XI, che conteneva fra i suoi testi una anonima Peregrinatio, mutila al principio e alla fine, con lacune anche al suo interno: un diario di viaggio, scritto sicuramente da una mano femminile. Fin dalla scoperta del manoscritto, un’ampia e controversa letteratura si soffermò sull’identità della scrittrice, finché, nel 1903, non fu ipotizzata la sua identificazione con la Egeria ricordata dal monaco Valerio nella sua lettera: ipotesi da allora largamente accettata. Continuò però – e per certi versi continua tuttora – la ridda delle ipotesi sulle date del viaggio, sul luogo d’origine e sul rango sociale di Egeria, sulla forma corretta del suo nome, sui dettagli geografici e archeologici del resoconto, sulle caratteristiche volute o spontanee del linguaggio utilizzato, ecc..
Per quanto riguarda la datazione del viaggio, alla luce dei più recenti studi sembra potersi giungere alla conclusione che esso sia durato circa tre anni, dalla Pasqua del 381 a quella del 384. Su Egeria, si è ancora incerti relativamente alla sua origine – se galiziana o aquitana –; non si è giunti ad alcuna conclusione definitiva relativamente al suo status – se monaca o matrona d’alto rango –, e non si sa dunque se le “sorelle” o “signore” alle quali lo scritto è indirizzato fossero le sue consorelle in Cristo o le dame sue amiche devote; nulla si conosce sulla sua personalità – sia dal punto di vista socio-culturale che da quello intimo –; la grafia del suo nome, anche se ha prevalso la forma Egeria, è incerta, perché, laddove compare, i codici attestano oscillazioni fra Egeria, Etheria, Aetheria, Eiheria, Heieria; il resoconto del suo lungo pellegrinaggio è mutilo, e le tappe del viaggio sono state più o meno ipoteticamente ricostruite sulla base di altri Itinerari in Terrasanta, di epoca vicina, a noi pervenuti; le analisi linguistiche del testo hanno portato da un lato a parlare di Egeria come di una donna priva di educazione classica, non molto colta, che usava il latino in modo approssimativo e conosceva soltanto le Scritture e pochi altri scritti religiosi – una ingenua narratrice incolta– , ma dall’altro hanno anche fatto supporre che la sua fosse una scelta consapevole, che la rozzezza fosse simulata, che il tutto fosse funzionale al richiamo dei valori della fede – una sorta di stilista-teologa –.

Il testo che ci è pervenuto è – come s’è detto – mutilo. Ciò che di esso ci resta è divisibile in due parti: la prima (I-XXIII) racconta le varie visite di Egeria ai Luoghi Santi compresi fra il Sinai, la Siria e l’Anatolia; la seconda (XXIV-XLIX) illustra la vita liturgica nella città di Gerusalemme.
La prima parte prende avvio dall’escursione al monte Sinai:
«… Intanto, proseguendo nel cammino, giungemmo in un punto dove i monti, fra cui procedevamo, si aprivano e formavano una valle sconfinata, immensa, completamente pianeggiante e molto bella, e, al di là della valle, si stagliava il monte santo di Dio, il Sinai. Il luogo dove i monti si aprivano è vicino a quello in cui si trovano le Tombe della concupiscenza (Kibrot-Taava, Numeri 11, 34)…» (I).
«…Terminata la discesa dal monte di Dio, attorno all’ora decima arrivammo al roveto. Si tratta del roveto di cui ho parlato in precedenza, dal quale il Signore parlò a Mosè nel fuoco, e che si trova all’estremità della valle, nel luogo in cui sono parecchi eremi e una chiesa. Davanti alla chiesa c’è un giardino molto accogliente, che offre in abbondanza un’acqua eccellente, e in quel giardino c’è il roveto…» (IV).


Dal Sinai, Egeria rientrò a Gerusalemme, per andare poi, passando il Giordano, verso il Moab (in Giordania), ed inerpicarsi sino alla cima del Nebo (X); rientrata a Gerusalemme, ripartì nuovamente per la città di Carneas, dove era eretta una chiesa in onore di Giobbe, e passò quindi per Salìm (o Sedima):
«Allora, poiché ricordavo – così è scritto – che San Giovanni battezzava a Enon vicino a Salìm (Giovanni, 3, 23), gli chiesi quanto fosse lontano quel luogo; e il santo presbitero mi disse “Ecco, è qui a duecento passi: se vuoi, vi ci accompagno subito a piedi. L’acqua così abbondante e pura che vedete in questo villaggio viene proprio da quella sorgente”. Allora cominciai a ringraziarlo e a chiedergli di condurci in quel luogo, e così avvenne. Subito dunque cominciammo ad andare con lui a piedi, il tutto attraverso una valle bellissima, finché arrivammo ad un frutteto molto ameno, al cui centro il presbitero ci mostrò una sorgente di acqua ottima e limpida, che, in un unico getto, faceva scaturire un vero e proprio corso d’acqua. La sorgente aveva davanti a sé una specie di lago, dove si capiva che aveva operato il santo Giovanni Battista… Nuovamente, anche presso questa sorgente, come in ogni altro luogo, fu fatta la preghiera, fu letta la lettura del giorno, fu anche recitato il salmo che si conveniva… » (XV).

Giunse poi ad Edessa, in Mesopotamia (XIX), proseguendo quindi il viaggio verso Harran (in Turchia), e recandosi ad Antiochia e da lì a Costantinopoli.
Da Costantinopoli, infine, comunicò alle sue amiche l’intenzione di recarsi ad Efeso, per pregare nel santuario dell’evangelista Giovanni (XXIII).

Quanto alle pagine dedicate a Gerusalemme, esse sono preziose per quanto concerne la liturgia, ma nulla ci dicono riguardo alle caratteristiche della città e alla vita che ci si svolgeva: per Egeria, Gerusalemme – una città che da altre fonti sappiamo essere piena di contraddizioni – si configura come un’anticamera del Regno dei Cieli.


Organizzato in periodi molto brevi, con una sintassi estremamente semplice, con ‘formule’ che si ripetono («arrivammo in un luogo», «arrivammo al roveto», «arrivammo nella città», «arrivammo alle pendici del monte», «arrivammo sulla cima del monte»; «per volontà di Dio»; «è questo il luogo», ecc.), il testo, nella sua monotonia e ripetitività, presenta, dal punto di vista formale, un ritmo quasi incantatorio; almeno apparentemente del tutto povero di stile, risulta al massimo evocativo di una certa solennità.
Dal punto di vista dei contenuti, non concede alcuno spazio al ‘personale’: manca in esso qualsiasi accenno alla fatica fisica e ai pure inevitabili contrattempi e disagi; non è mai espressa una qualche emozione che non sia strettamente legata alla santità dei luoghi visitati, e anche in questi casi le emozioni – prevalentemente suscitate dal paesaggio – sono tratteggiate con estrema semplicità; non traspare mai alcun segno di interesse per le guide e gli accompagnatori – monaci, preti, vescovi – ai quali sono sempre e soltanto rivolte lodi stereotipe; ogni religioso incontrato è una specie di manuale ambulante di geografia sacra.
Di fatto, da un luogo santo ad un altro, da un santuario ad un altro, Egeria si rivolge alle sue interlocutrici, interessate ovviamente alle vestigia bibliche, evangeliche e liturgiche, senza lasciare spazio ad altro, e trasmettendo ben poco a livello di spiritualità.

Egeria si nasconde nell’atteggiamento del pellegrino ideale, del viaggiatore instancabile, che fa domande e cerca verifiche: le verifiche riassumono la gioia e la meraviglia del vedere in prima persona ciò che era stato appreso attraverso le letture religiose, senza però nessun tentativo di comunicare la propria meraviglia e la propria gioia, ma solo con lo scopo di assicurare che tutto è come doveva essere, tutto è come ci si doveva aspettare.
Attraverso i suoi resoconti – è stato anche supposto che l’Itinerario altro non sia se non una raccolta successiva di lettere di viaggio inviate periodicamente –, Egeria intendeva trasmettere alle amiche o alle consorelle una sorta di testimonianza sul fatto che, in Terrasanta, tutto era bello e puro e conforme alla Scrittura, in modo che, senza viaggiare come lei, ogni luogo potesse offrire loro la conferma della verità della Buona Novella.

Può destare sorpresa l’immagine di una donna, probabilmente non più giovane, capace di intraprendere un così lungo e disagevole viaggio, compiuto per nave, su carri, su cavalli o asini o cammelli, e spesso a piedi, ma in realtà le fonti ci attestano che, nel IV-V secolo, erano abbastanza numerose le donne e le monache viaggiatrici. Basti pensare alle donne che ruotavano nella cerchia di San Gerolamo, alle varie signore che i Padri della Chiesa ritraggono intente a lunghi viaggi per conoscere eremiti, alle matrone che si trovarono a visitare più volte Gerusalemme (dove Flavia Giulia Elena, madre dell’imperatore Costantino, aveva fatto edificare la chiesa del Santo Sepolcro), alle monache che dalla Cappadocia raggiungevano la Terrasanta e contro cui si scagliava il vescovo e teologo Gregorio di Nissa. Gli anni fra IV e V secolo videro di fatto una forte emancipazione della donna romana, concedendo al mondo femminile cristiano di darsi con grande libertà allo studio della Bibbia e di manifestare esplicitamente il proprio interesse per i luoghi ricordati nelle Scritture: interesse che portò anche alla nascita di numerose fondazioni monastiche a Gerusalemme e nei suoi dintorni.