Riguardo alla guerra in Ucraina, sempre più frequenti sono gli appelli ad una “pace giusta”: «Sosterremo l’Ucraina nel perseguire una pace giusta», ha affermato il presidente americano Joe Biden, nel corso dell’incontro alla Casa Bianca con Volodymyr Zelensky. E ha poi aggiunto: «Il popolo americano è orgogliosamente a fianco di quello ucraino. Gli Stati Uniti sono dalla sua parte e dalla parte dei cittadini e delle cittadine coraggiose dell’Ucraina […] Faremo quello che serve per portare avanti una strategia di difesa, in particolare di quella aerea. Forniremo ulteriori armi all’Ucraina».

Ideologia della pace e ideologia della guerra risultano così strettamente collegate, ma la pace resta palesemente in totale subordine.

 

I fautori dell’antico si vis pacem para bellum non mancano, al riguardo, di rifarsi al mondo romano, citando sia l’Epitome sull’arte della guerra di Publio Flavio Vegezio Renato, sia il ben più famoso Cicerone della VII Filippica; e ricordando le riflessioni degli antichi sul concetto della “guerra giusta” e della giusta difesa armata da parte di chi viene aggredito. Ben pochi si chiedono quali fossero le posizioni degli antichi sulla pace, a prescindere dal suo collegamento con la guerra.

Ebbene, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, dal mondo antico non ci è pervenuto alcuno scritto che sviluppi espressamente il tema della pace: probabilmente, ciò è dovuto al fatto che gli antichi consideravano per così dire normale la condizione dello stato di guerra e che, conseguentemente, vedendo la pace come una sorta di tregua fra una guerra e l’altra, non le attribuivano una vera e propria autonomia concettuale.

In ogni caso, riflessioni interessanti sull’idea di pace, assieme all’elaborazione più o meno sistematica di sue concezioni positive, si possono trovare in diversi momenti di svolta del mondo antico.

 

Per quanto concerne la romanità, il periodo del tramonto della Repubblica vede Cicerone occupare un ruolo di primo piano: egli ebbe infatti alcune intuizioni originali, sviluppando considerazioni politiche sulla pace ed elaborando concezioni teoriche abbastanza nuove.

Dal complesso dei suoi scritti – pur fra incertezze e ondeggiamenti, sia nelle prese di posizione politiche, sia nella formulazione del pensiero filosofico intorno all'idea di pace –, emergono fondamentalmente tre modi di considerare la pace, riguardanti l'uno la pace del sapiente e gli altri due la pace del cittadino: il cittadino inteso come membro della comunità e in essa impegnato, e il cittadino coinvolto nelle guerre civili.

Tralasciando la pace del sapiente, gli altri due aspetti del problema riguardano dunque la pace di Roma con gli altri popoli e la pace in Roma tra i cittadini. Vero è che Cicerone, riflettendo sulla natura umana, celebra molto spesso la pace come prerogativa dell’uomo e condanna la guerra come “bestiale”; vero è che, qua e là, soprattutto nelle sue opere filosofiche, si trovano spiragli in direzione di una visione della pace diversa da quella della sua imposizione con la forza, ma complessivamente, il rimedio ai mali presenti – nel periodo di grave crisi sociale e istituzionale in cui si trova a vivere – sembra per lui consistere prevalentemente in un ritorno al passato, non escluse le guerre condotte per mantenere i propri impegni o per la propria salvezza: di fatto, in una sorta di anticipazione di quello che sarà il pensiero virgiliano – con l’attribuzione a Roma della missione provvidenziale di instaurare la pace nel mondo –, per lui è Roma che, in occasione di conflitti, dona la pace agli avversari, purché si arrendano a lei, ne riconoscano la superiorità morale, ne accettino la supremazia politica, ne seguano i precetti.

Altrettanto vero è però che le sue affermazioni sull'importanza dell'impegno politico civile rispetto a quello militare, sulla preminenza dello strumento della diplomazia in confronto allo strumento della guerra nei rapporti con gli altri popoli, sono segni inequivocabili di una nuova, conquistata, consapevolezza dell'esistenza di valori superiori a quelli fondati sullo spirito di sopraffazione e di violenza.

Quasi certamente a causa del coinvolgimento diretto della popolazione, delle istituzioni e di Cicerone stesso, il discorso si fa più complesso e contraddittorio in rapporto ai turbamenti della vita politica interna di Roma, all’importanza della pace interna fra i cittadini, al rifiuto e al superamento della guerra civile. Al riguardo, sono frequentissime le dichiarazioni dell'oratore di essere, e di essere stato, sempre, nel1a vita politica della sua città, auctor pacis, pacis alumnus, defensor pacis: ma ciò non gli impedì, sul finire della propria vita, di sostenere la necessità della guerra civile fra Marco Antonio e Ottaviano, in nome del fatto che la pace non è accettabile qualora porti con sé la servitus, perché solo se unita alla libertas, la pace è securitas. La pace, insomma, deve essere una “pace giusta”, una pace honesta, garantendo quella sicurezza che solo la libertà può dare: una libertà il cui concetto è peraltro ben diverso da quello odierno, non avendo quel valore universale che le si attribuisce oggi, ma avendo il compito squisitamente politico di bilanciare il potere in un equilibrio armonico.

In ogni caso, Cicerone è stato spesso visto come uno dei più insigni celebratori e difensori della libertà, tanto da far scrivere già al Leopardi che le sue Filippiche – ovvero le orazioni contro Marco Antonio degli anni 44/43 – erano «l’ultimo monumento della libertà antica, le ultime carte dov’ella sia difesa e predicata apertamente» (Zibaldone, 459). Particolarmente significativa al riguardo è la già ricordata orazione VII, databile agli inizi del 43, che testimonia il clima di guerra civile ormai consolidato fra Marco Antonio e Ottaviano:  c’è chi vuole trattare con Antonio – dice Cicerone –, c’è chi sostiene che le sue richieste siano moderate, mi accusano di volere la guerra, sostengono che non bisognasse irritare Antonio. Chi sono costoro? Sono quelli che si sono creati la fama di democratici, e che oggi scelgono di essere non più democratici ma cattivi cittadini. Nessun tempo è mai stato tanto decisivo come l’attuale, «e così io, che sono sempre stato un fautore della pace […] io, che per così dire mi nutro di pace […], ebbene io, che – ripeto ancora – ho sempre lodato e promosso la pace, proprio io ora non voglio che ci sia la pace con Marco Antonio. Perché dunque non voglio la pace? Perché la pace sarebbe vergognosa, pericolosa, impossibile […] E non è che io non voglia la pace, ma ho paura di una guerra che si nasconda sotto la falsa sembianza di pace: perciò, se vogliamo usufruire della pace, bisogna fare la guerra; perciò, se rinunciamo ora alla guerra, non usufruiremo mai della pace (Quare, si pace frui volumus, bellum gerendum est; si bellum omittimus, pace numquam fruemur). È proprio della vostra saggezza, Senatori, guardare il più lontano possibile nel futuro» (1, 3- 6,19).

Sennonché, la varietà delle angolature secondo cui Cicerone, all’interno di tutte le sue opere, sviluppa considerazioni politiche sulla pace, e la varietà delle concezioni teoriche espresse dipendono dal fatto che egli si pronuncia sempre partendo dalla valutazione della situazione politica in cui le sue diverse posizioni prendono forma: considerando il contesto, sia alla dichiarazione che l’unica pace possibile sia quella “giusta”, sia alla conseguente affermazione che, per usufruire della pace, si debba fare la guerra, non si può dunque attribuire alcun intento o valore universalistico. Esse sono fondamentalmente riferite alla situazione contingente: una situazione in cui Cicerone, convinto di poterlo manovrare, e sicuro della sua vittoria, aveva deciso di appoggiare Ottaviano contro Antonio – da lui considerato un pericolo per la repubblica –, riportandolo sotto la tutela del Senato. E mai egli si sarebbe aspettato il voltafaccia di Ottaviano, che, dopo avere sconfitto Antonio a Modena, aveva stretto con lui e con Lepido un accordo, dando vita ad un triumvirato, e procedendo ad una sistematica persecuzione degli oppositori, fra cui lo stesso Cicerone: un errore di valutazione che gli costò la vita.

 

A dimostrazione del fatto che alle affermazioni di Cicerone, al suo ‘inno’ alla guerra in nome di una pace honesta e sicura, non possono essere riconosciuti intenti o valori universalistici, essendo esse esclusivamente riferite ad una situazione contingente, basti ricordare il ben diverso atteggiamento assunto dallo stesso Cicerone in relazione alle tragiche vicende della guerra civile fra Cesare e Pompeo: perché, anche ammettendo che, teoricamente, solo se unita alla libertas, la pace sia per Cicerone in grado di garantire sicurezza, la prassi si allontana dalla teoria quando una causa, pur se giusta, appare disperata; quando, per la disparità delle forze, si dispera della vittoria; quando, in una guerra fratricida, la scelta è fra il continuare ad uccidersi e il sopravvivere; quando, infine, ad essere in gioco sono il proprio futuro e la propria stessa vita.

Molto interessanti al riguardo sono le lettere di Cicerone relative a quella prima guerra civile: fermo restando che, se rispetto a vari temi appare sempre segnato da qualche diversità l’atteggiamento di Cicerone politico e di Cicerone filosofo, non possono non rilevarsi ulteriori diversità nella dimensione privata di un epistolario.

Nella notte fra l’11 e il 12 gennaio del 49 a. C., Cesare attraversa il Rubicone, dando così ‘ufficialmente’ inizio alla guerra civile; il 17 gennaio Pompeo fugge da Roma in direzione di Brindisi, seguito da una parte dei senatori. Cicerone parteggia per Pompeo, ma, fin dall’inizio del conflitto, si mostra pieno di dubbi e di dilemmi, cercando di muoversi per una pacificazione e rimanendo costantemente incerto sull’ipotesi di offrire la propria partecipazione diretta alla guerra di Pompeo, come testimoniano le numerose sue lettere all’amico Attico, nonché quelle allo stesso Pompeo, a Cesare e ad altri. Peraltro, non va dimenticato il complesso e controverso rapporto personale che, negli anni, lega Cicerone a Cesare, rapporto all’interno del quale si comprendono i suoi diversi tentativi di mediazione.

Che la guerra potesse assumere dimensioni planetarie pericolose, Cicerone lo capisce ben presto, non appena assiste alla mossa di Pompeo di lasciare Roma.

È della fine di gennaio, ad esempio, una sua lettera all’amico Attico (Att. VII, 14), in cui fra l’altro si legge: «Spero che per il momento avremo la pace»; e ancora: «Personalmente, non smetto di esortare alla pace, che, per quanto ingiusta, è sempre meglio della guerra più giusta con i concittadini (Equidem ego ad pacem hortari non desino, quae vel iniusta utilior est quam iustissimum bellum cum civibus)».

Ancora, alla fine di febbraio dello stesso anno, in una lettera inviata a Pompeo e trasmessa anche ad Attico (Att. VIII, 11d), Cicerone scrive: «Credo che tu ricordi quale fu sempre il mio parere: principalmente, conservare la pace anche se la pace comporta condizioni inique (Mea quae semper fuerit sententia, primum de pace vel iniqua condicione retinenda,…meminisse te arbitror )».

I suoi dilemmi sono del resto ben chiariti in una lettera scritta sempre all’amico Attico il 12 marzo (Att. IX, 4), quando Pompeo è ancora a Brindisi, assediato da Cesare: Cicerone si chiede se si debba restare in patria anche quando a reggerla è un tiranno; se si debba ad ogni costo cercare di abbattere la tirannide, anche quando ciò comporti per la patria un rischio mortale; se chi si propone di abbattere il tiranno debba però anche salvaguardare se stesso; se non sia preferibile soccorrere la patria oppressa con un’azione politica tempestiva e con la parola, piuttosto che con la guerra; se si possa considerare come un comportamento politico l’andarsene lontano dalla patria, anziché affrontare qualunque pericolo per la libertà; se ci si debba comunque arruolare anche se non si approva l’abbattimento del tiranno attraverso la guerra; se in guerra si debba comunque correre tutti i rischi al fianco degli amici e dei benefattori, anche quando le loro scelte politiche non appaiono condivisibili; se chi ha già tanto patito per la patria debba di propria iniziativa esporsi ad ulteriori rischi, ecc.

Solo il 7 giugno, Cicerone si imbarcherà per congiungersi con le forze di Pompeo, ma, di fatto non ci sarà mai un suo coinvolgimento diretto nelle azioni militari: sarà presente a Durazzo (dove Cesare, dopo alterne vicende, non riuscì ad avere ragione di Pompeo e fu costretto a desistere dai suoi propositi, trasferendosi con i suoi in Tessaglia), ma non seguirà Pompeo in Grecia (dove, nell’estate del 48 ebbe poi luogo il decisivo scontro di Farsalo fra Cesare e Pompeo). Dopo Farsalo, Pompeo si rifugiò in Egitto, dove venne proditoriamente ucciso per ordine del re Tolomeo, che intendeva con questo ingraziarsi Cesare.

Sarà Cicerone stesso a descrivere poi questa fase della sua vita, dal momento della partenza dall’Italia per ricongiungersi a Pompeo, fino al successivo ritorno a Roma, evidenziando la propria presa di distanza dalla scelta pompeiana di proseguire nella guerra.

Siamo nel luglio del 46, e Cicerone scrive all’amico Marco Mario (Fam. VII, 3): racconta di come, prima di raggiungere Pompeo in Epiro, fosse confuso e dubbioso sulla decisione da prendere, e non perché si preoccupasse della propria salvezza personale, ma per le domande che si poneva sull’onore e sull’opinione pubblica. Una volta raggiunto Pompeo – continua – non tardò a pentirsi della propria decisione: le forze di Pompeo erano scarse e poco agguerrite, fra i suoi seguaci c’erano persone oberate dai debiti e desiderose di saccheggio; anche se la causa era giusta, lì non c’era niente di buono, e la cosa migliore da proporre poteva essere solo quella pace che del resto lui aveva sempre consigliato. Pompeo era però sordo ad ogni possibilità di un esito pacifico, e, in alternativa, Cicerone gli suggerì di portare la guerra alle lunghe il più possibile: cosa che Pompeo inizialmente accettò, ma poi, spinto da qualche successo militare, decise di affrettare lo scontro. Di fronte alla ineluttabilità di una sconfitta, Cicerone decise di tornare a Roma, uscendo   da una situazione che non gli offriva altre alternative se non quelle di morire armi alla mano, o cadere in un'imboscata, o diventare preda del vincitore, condannandosi all'esilio o al suicidio. Il destino più tollerabile sarebbe stato l’esilio, ma Cicerone preferì ad esso scegliere la propria casa e la propria famiglia. La sua coscienza – scrive – è pulita, la sua passione per le lettere e la gloria del proprio nome gli sono di supporto; non aveva mai voluto che qualcuno si impadronisse della repubblica; una volta compresa l’ineluttabilità della sconfitta aveva solo desiderato la pace; dopo la sconfitta, si era sempre ostinato a volere la pace, e, vedendo che rimaneva inascoltato, non gli era rimasto che chiamarsi fuori dalla lotta. Quanto a quelli che lo attaccano e che considerano come colpa il fatto che egli sia vivo, ebbene, la sua morte non sarebbe certo servita alla repubblica («Sunt enim qui, quum meus interitus nihil fuerit Rei publicae profuturus, criminis loco putent esse quod vivam»: non si rendono conto che già in troppi sono morti, e che, se gli avessero dato ascolto, quei morti «vivrebbero una pace ottenuta sì a condizioni ingiuste ma onorevole. Noi, infatti, non avevamo la forza, ma il diritto era comunque dalla nostra parte (Quibus ego certo scio non videri satis multos perisse: qui, si me audissent, quamvis iniqua pace, honesta tamen viverent. Armis enim inferiores, non causa fuissent)».

Sempre del 46 è l’epistola ad Aulo Cecina (Fam. VI, 6), di impostazione simile, in cui si legge: «È sorta la causa per la guerra: che cosa ho trascurato, io, sia in consigli che in lamenti e proteste, quando ho persino anteposto una pace più che iniqua ad una più che giusta guerra? (Causa orta belli est: quid ego praetermisi aut monitorum aut querelarum, cum vel iniquissimam pacem iustissimo bello anteferrem?)».

C’è chi ha notato come, nel rievocare in queste ultime due lettere la difficile e complessa situazione, Cicerone appaia per così dire reticente, e, soprattutto, come egli cerchi di giustificare il proprio comportamento, sottraendolo ad ogni accusa di incoerenza e opportunismo; e c’è chi ha asserito che il suo convincimento pacifista sconfini pericolosamente in un comodo disimpegno: sennonché, non solo l’idea che, nella situazione specifica, anche una pace iniqua fosse preferibile alla guerra è espresso fin dall’inizio della guerra civile, ma soprattutto non va dimenticato che   – come si è già detto – le considerazioni politiche di Cicerone (sulla pace, ma non solo) sono sempre strettamente connesse alle sue valutazioni sulla situazione politica del momento, e, pur considerando l’aspetto umano e personale delle sue lettere agli amici, pur non sottovalutando le istanze di auto rappresentazione in esse celate, nelle sue parole non è difficile riconoscere innanzitutto il pragmatismo che in ambito politico lo caratterizza e lo caratterizzerà per tutta la vita.

 

Due guerre civili, due diverse valutazioni sugli schieramenti e sulle possibilità di vittoria, due posizioni politiche diverse: da un lato, le ripetute esortazioni  alla pace, che, per quanto ingiusta, è sempre meglio della guerra più giusta; dall’altro, le esortazioni alla guerra in nome della pace. Da un lato, la convinzione – poi dimostratasi corretta – che la causa di Pompeo fosse perdente; dall’altro, un errore di valutazione sulle forze in campo, sulle persone, sulle possibili alleanze, e conseguentemente sui rischi effettivi: e le sue scelte ‘pragmatiche’, basate sull’errore, si rivelarono necessariamente, in quel frangente, come scelte sbagliate.

Va da sé che, così come è erroneo attribuire valore universalistico alla frase della VII Filippica «si pace frui volumus, bellum gerendum est», ed è fuorviante considerarla come espressione del pensiero filosofico-politico di Cicerone, altrettanto sbagliato e fuorviante sarebbe  ‘generalizzare’ le sue affermazioni sulla necessità di anteporre «una pace più che iniqua ad una più che giusta guerra», e fare di Cicerone un fautore del ‘pacifismo’, o, peggio ancora, accusarlo di incoerenza, opportunismo, disimpegno, tacciando di falsità il suo preteso pacifismo. Ma sbagliato sarebbe anche non tener conto di come – a fronte di dubbi, incertezze e timori sulle forze politiche in campo, sulle persone coinvolte, sugli esiti del conflitto, sul debito di vite umane da pagare, sulle scelte non condivisibili operate dai contendenti – Cicerone, spesso considerato riferimento culturale e modello politico da imitare  si schieri pragmaticamente a favore della pace, quale che essa sia.

 

 

In ogni caso, a prescindere dalla indispensabile contestualizzazione delle dichiarazioni ciceroniane, a prescindere dal suo pragmatismo e dai possibili errori di valutazione e di scelte, a prescindere infine dalla veridicità o meno del suo convincimento pacifista in relazione alla guerra civile fra Cesare e Pompeo, le sue parole sulla pax iniusta o iniqua o iniquissima, comunque preferibile anche alla guerra più giusta, furono riprese, nel Cinquecento, da un pensatore considerato a pieno titolo come il primo pacifista dell’Europa moderna, ovvero Erasmo da Rotterdam.

Per Erasmo, la pace è il pensiero dominante fin dal 1504, come si evince dal suo Panegyricus ad Philippum Austriae ducem (Panegirico a Filippoduca d’Austria) pubblicato appunto in quell’anno , in cui, fra le altre cose, la guerra è definita come un gioco concertato dai potenti per mantenere la propria tirannia. Nel 1511 esce l’Encomium morae (Elogio della follia), in cui si afferma che la guerra è «opera di parassiti, lenoni, ladri, sicari, contadini, imbecilli, falliti, tutta quanta insomma la feccia della società» (XXV). Del 1514 è una lettera ad Antonio di Bergen (P. S. Allen, Opus Epistolarum Des. Erasmi Roterodami, vol. I, Lettera n. 288, Oxford 1906, pp. 551-554), in cui si legge: «pensa ancora quanti crimini si commettono col pretesto della guerra, quando le buone leggi tacciono nello strepito delle armi: quante rapine, quanti sacrilegi e rapimenti e altre azioni infami, da vergognarsi soltanto a nominarle. Questo sfacelo morale dura per molti anni, anche quando la guerra è finita. Calcola, ora, quanto costa la guerra: anche se si vince, il danno supera sempre il guadagno. Come si può stimare che la vita e il sangue di tante migliaia di uomini valgano un regno? E poi, la maggior parte delle sciagure ricade su chi alla guerra non è affatto interessato. I vantaggi della pace, invece, toccano tutti. In guerra, quasi sempre, piange anche chi riporta la vittoria». Del 1515 è il testo definitivo del Dulce bellum inexpertis (Dolce è la guerra per chi non l’ha vista in faccia), negli Adagia (Proverbi) insieme ad altri scritti contro la guerra. Nel 1517 è pubblicata la Querela pacis, undique gentium eiectae profligataeque (Lamento – ma anche denuncia, protestadella pace scacciata e respinta da tutte le nazioni), ecc.


Erasmo scrive la Querela pacis nel 1516, in vista della conferenza di Cambrai, volta a stringere vincoli di pace tra Francia, Spagna e Impero: i destinatari immediati – coloro che si cerca di convincere – sono i principi, i principi cristiani, dal cui potere può derivare la pace. Ma l’opuscolo, col suo accorato appello a dar voce alla pace, offre anche una sintesi di quella che, sulla pace, è la costante riflessione di Erasmo: un pacifismo che sottende la sua intera attività, e che si lega strettamente al suo progetto di promozione della cultura, rigenerata dal messaggio cristiano, come lotta contro la violenza e il fanatismo.

«Già da un pezzo – leggiamo – sento le scuse di uomini con la disposizione naturale a far danno a se stessi. Lamentano di essere costretti e trascinati in guerra a loro dispetto. Togliti quella maschera, elimina il belletto, interroga il tuo cuore. Troverai che a trascinarti furono l’ira, l’ambizione, la follia, non la necessità. […] E intanto si tengono solenni suppliche, s’invoca la pace a gran voce, si alza un grido immenso: “Donaci la pace, t’imploriamo. Ascoltaci”. Non potrebbe Dio rispondere loro, a buon diritto, “Perché mi prendete in giro? Mi chiedete di allontanare ciò che voi stessi chiamate volontariamente a voi? Deprecate ciò che da voi stessi vi siete procurato?” Se un’offesa qualsiasi genera una guerra, chi mai non avrà di grazia motivo di lamentarsi? […] Esistono le leggi, esistono uomini eruditi, venerandi abati, reverendi vescovi, grazie alla cui salutare saggezza la contesa potrebbe essere ricomposta. Perché non scegliere piuttosto costoro come arbitri? Ché di sicuro non si potrebbe trovarne di così dannosi da non risolvere la questione con un danno minore del ricorso alle armi. Quasi nessuna pace è così ingiusta da non essere preferibile anche alla più giusta delle guerre (Vix ulla tam iniqua pax, quin bello vel aequissimo sit potior). Valuta prima attentamente cosa richiede o comporta una guerra, e capirai quale guadagno te ne deriverà (XVIII-XIX). […] Se poi la guerra è inevitabile, sia condotta in modo tale che la maggior parte dei mali ricadano sulla testa di coloro che l’hanno causata. Ora i principi combattono al sicuro, i comandanti aumentano di grado, la massima parte dei mali si riversa sui contadini e sulla plebe, che con la guerra non hanno a che fare e non ne sono in alcun modo responsabili (XX). […] Pretesti di guerra vanno stroncati immediatamente. Su qualcosa si deve cedere, la condiscendenza indurrà ad essere condiscendenti. Qualche volta la pace va comprata. Se dal prezzo toglierai le risorse consumate dalla guerra e le vite dei cittadini risparmiate, la pace sembrerà comprata a poco prezzo anche se pagata molto, dal momento che, oltre al sangue dei tuoi sudditi, molto di più avresti dovuto spendere per la guerra. Fai il conto di quanti mali hai evitato e di quanti beni hai protetto, e non ti rincrescerà la spesa (XXI,5). […] Che se poi la pace ti sembrerà avere qualcosa di ingiusto, guardati dal pensare “perdo questo”, ma pensa piuttosto “questo è il prezzo della pace” (XXVI)».