«Il lustro dei miei genitori non mi ha dato nulla di più grande dell’essere stata ritenuta degna di te come marito. Tutta la mia luce, tutta la mia gloria, è il nome di mio marito: il tuo, Agorio, che nato da orgogliosa stirpe, illumini la tua patria, il senato e tua moglie con l’integrità della tua mente, con i tuoi costumi e i tuoi studi, tu che hai raggiunto le più alte vette della virtù. Qualunque cosa infatti sia stata scritta nell’una o nell’altra lingua ad opera dei saggi a cui si aprono i cancelli del cielo, o qualunque poesia e qualunque opera in prosa gli eruditi abbiano composto, tutte tu hai reso migliori di quanto le abbia trovate leggendo. Ma ciò è poco. Tu , pio, iniziato ai sacri misteri, ne seppellisci le dottrine nel profondo della mente, e, edotto in esse, adori una divinità molteplice, legando generosamente a te nei sacri riti divini e umani tua moglie, come compagna complice e fidata. Perché dovrei ora parlare degli onori, del potere o delle gioie che gli uomini cercano nelle preghiere, cose che sono sempre apparse piccole e fragili a te che ti elevi in dignità per le insegne del tuo sacerdozio? Marito mio, col tuo buon insegnamento hai liberato me, innocente e umile, dalla schiavitù della morte, mi hai condotto nei templi e mi hai consacrato agli dei; con te testimone, sono immersa in tutti i misteri… A causa tua tutti mi lodano, mi chiamano benedetta e santa, perché tu mi hai mostrato come essere buona: e così io, che ero ignota, sono conosciuta da tutti… Tutto ciò ora mi è tolto, e da moglie afflitta mi tormento. Quanto sarei stata felice se gli dei avessero fatto sì che fosse mio marito a sopravvivermi. Eppure, alla fine, io sono felice: sono e sono stata tua, e presto, dopo la mia morte, sarò ancora tua». 

A scrivere queste parole – questo epigramma – è la matrona pagana Fabia Aconia Paolina, moglie del console Vettio Agorio Pretestato: un’unione, la loro, iniziata nel 344 e durata quarant’anni.

L’epigramma è inciso sulla base del monumento funebre dedicato a Pretestato (oggi ai Musei Capitolini), unitamente al cursus honorum del medesimo (con tutte le cariche civili e religiose da lui ricoperte) e a due brevi componimenti in cui è Pretestato a parlare alla e della moglie. Si suppone che il lungo componimento sia una derivazione dell’orazione funebre declamata da Paolina per il funerale del marito.

Pretestato era un uomo brillante sia culturalmente che nella vita pubblica: studioso di religione, filosofia, lettere, traduttore di testi filosofici greci, ritratto quale ospite e guida della conversazione nell’immaginario banchetto dei Saturnalia di Microbio, al termine della sua vita era console designato.

Paolina non era donna confinata ai compiti domestici, ma era stata anzi partecipe delle iniziazioni ai misteri da parte del marito: i misteri eleusini, i misteri lernici di Dioniso e Demetra, e inoltre il culto di Cerere, di Ecate e di Isis. Nelle dediche a lei rivolte dal marito, la si dice consapevole della verità e della castità, sollecita nelle pratiche religiose, pudica, fedele, pura nella mente e nel corpo, piacevole nell’abbigliamento; e poi ancora, si parla del suo pudore, della sua castità, del suo affetto materno e della sua grazia coniugale.

Nel suo epitaffio, Paolina rievoca la vita trascorsa insieme a Pretestato: oltre alle sue doti quali la nobiltà di nascita e l’integrità, oltre a tutti i meriti per ciò che è riuscito a dare al senato e a lei come moglie, quello che viene fortemente sottolineato è la loro condivisione spirituale e l’esperienza, condivisa come coppia, dei misteri religiosi.

Il marito è visto fondamentalmente come compagno, unito a lei nella concordia e nella fedeltà: e come colui che, con le sue doti, l’ha condotta a liberarsi pienamente dalla paura della morte.

Nella commemorazione fatta incidere da Paolina si avverte non solo una dedizione totale, ma soprattutto la convinzione profonda di dovere tutto il proprio sapere, e le lodi e i favori che riceve dal mondo, all’insegnamento del marito. Fino al v. 37, nulla fa pensare ad una iscrizione tombale, e poi, improvvisamente, nei quattro versi finali, ecco affacciarsi la freddezza della morte, legata ad una fitta dolorosa di desiderio. E poi, a chiusura del tutto, arriva la manifestazione consolatoria di una serena speranza, data dalla certezza che l’unità in vita garantisca per l’unità nella morte: e l’idea dello sviluppo dell’unione d’amore umana in una unione immortale nell’altro mondo nonché la fede nella sopravvivenza ultraterrena sono espresse con una convinzione talmente intima e ferma da farci comprendere quali sentimenti sapesse ancora ispirare l’antica religione pagana.

 

I due aristocratici pagani Pretestato e Paolina offrono palesemente l’esempio di un matrimonio ideale: qualcosa di sacro, con due spiriti in perfetta comunione fra loro, senza alcuna traccia di sottomissione femminile. Ed era questo un esempio che, unito alla forza della loro fede pagana e all’esperienza condivisa dei misteri religiosi non poteva non costituire un problema per Girolamo, teso com’era a sminuire in qualche modo l’istituzione stessa del matrimonio e, soprattutto, faticosamente impegnato nell’intento di convertire al cristianesimo proprio l’aristocrazia senatoria: cosa che può spiegare in qualche modo gli impietosi attacchi da lui rivolti ai due sposi, rispettivamente nelle Epistole 23 e 39 (ordine temporale).

L’epistola 23 è indirizzata alla discepola Marcella ed è relativa alla morte della vedova Lea: la santità della vita e della morte della donna diventano per Gerolamo una sorta di pretesto per scopi ‘propagandistici’, consentendogli di richiamarsi per contrasto a quella di Pretestato.

«Mi chiedi perché io torni a parlare di questa morte? Ti rispondo con le parole dell’Apostolo: importa molto e in ogni senso. In primo luogo perché una gioia universale deve accompagnare colei che, vinto il demonio, ha già ricevuto la corona della salvezza; in secondo luogo per poter esporre brevemente la sua vita; e in terzo luogo per ribadire come il console designato, dissipatasi ormai l’aura della sua fama mondana, sia all’inferno».

«Quell’uomo che pochi giorni fa era preceduto dalle insegne di tutte le più alte cariche; quell’uomo che saliva la rocca capitolina quasi fosse un trionfatore che avesse assoggettato i nemici; quell’uomo che il popolo romano accolse con un certo applauso e tripudio e per la cui morte tutta la città si commosse, ora è abbandonato, spoglio di tutto. Non abita, no, la lattea dimora del cielo, come pretende la moglie infelice, ma è sprofondato in sordide tenebre. Lea, difesa dalla clausura di una sola cameretta, lei che poteva sembrare povera e insignificante (la sua vita era ritenuta pazzia!), ora se ne sta continuamente con Cristo».

L’epistola 39 si configura come una consolazione alla discepola Paola – di cui fra l’altro si suppone una qualche parentela con Pretestato – per la morte della figlia Blesilla: ma, in realtà, nelle parole di Girolamo c’è ben poco di veramente consolatorio.

Ad una Paola distrutta dal dolore Girolamo continua a ricordare cosa distingue il bene dal male, continua a rimproverarla e a ricordarle il suo compito di buona fedele. Blesilla è morta ma bisogna gioire per questo perché è morta da perfetta cristiana:

«E chi può ricordare cogli occhi non bagnati di lacrime questa giovinetta di vent’anni, che ha impugnato il vessillo della croce, con una fede così ardente da rammaricarsi più della perdita della verginità che della morte del marito? Chi può, senza singhiozzi, rievocare anche solo di scorcio l’assiduità nella preghiera, il candore della conversazione, la tenace memoria, la profondità della sua mente?» (Traduzione di Beatrice Girotti, Paola, omnium Romae matronarum exemplum, Bologna 2014).

«Si tratta della morte del marito? Piango per la sventura sopraggiunta; ma poiché così è piaciuto al Signore, la sopporto senza turbamento d’anima. Ti viene tolto l’unico figlio? È duro, sì, ma si può sopportare, poiché te lo toglie chi te l’aveva dato. Se divento cieco, mi consolerà la lettura che qualche amico mi farà. Se per di più la sordità delle orecchie mi rende impossibile l’udito, divento invulnerabile ai vizi che vengono dall’esterno: non penserò ad altro che al Signore. S’aggiunge a questi mali anche la miseria, il freddo, la malattia, la nudità? Attenderò la morte che pone fine a tutto, e stimerò breve la disgrazia cui succede una sorte migliore» (Trad. B. Girotti).

Più avanti, infine, lasciando parlare Cristo stesso, Girolamo scrive:

«Sei forse irritata perché tua figlia è diventata figlia mia? Sei sdegnata per quanto ho deciso? Che scopo ha questa tua ribellione fatta di lacrime, questa tua invidia verso di me, suo padrone? Tu lo sai cosa penso di te e delle altre che stanno con te… Se tu credessi che tua figlia è viva, non rimpiangeresti certo che sia passata a miglior vita! Non è questo il comando che vi ho dato per bocca del mio Apostolo: di non rattristarvi per coloro che muoiono, come fanno invece i pagani? Non arrossisci? In confronto, una donna pagana la vince su di te! Una a servizio del demonio è migliore di una al mio servizio! Quella, per lo meno, crede che il marito infedele sia stato trasportato in cielo, mentre tu non credi o non ti vuoi rassegnare che tua figlia viva con me!» (Trad. B. Girotti).

La donna pagana «a servizio del demonio» è chiaramente Paolina: i pagani sono soliti rattristarsi per coloro che muoiono, è solo il Cristianesimo a poter dare la speranza dell’immortalità, e la fede di Paolina nella sopravvivenza ultraterrena è per Girolamo qualcosa di intollerabile.