Negli anni fra il 13 e l’11 a. C. Lucio Calpurnio Pisone  era impegnato nei Balcani per una rivolta scoppiata in Tracia. Fra la popolazione trace da lui resa schiava dopo la repressione, sembra potesse esserci un bambino, che, portato a Roma, entrò a far parte non si sa come degli schiavi di Augusto, venendo poi successivamente affrancato da Augusto stesso, probabilmente per le sue doti intellettuali e la cultura acquisita: questo bambino si chiamava Fedro.

 

Le parole “sembra potesse esserci” sono già di per sé indicative di quanto poco sappiamo sulla vita di Fedro: nel buio documentale che ne circonda la persona e l’esistenza, la sua biografia si può infatti ricostruire quasi esclusivamente sulla base delle poche notizie da lui stesso fornite all’interno delle Favole, e questa ricostruzione necessita di una ricerca indiziaria di tracce, che fornisce purtroppo poche risposte definitive.

 

Che fosse liberto di Augusto, lo sappiamo dalla tradizione manoscritta: il titolo del codice principale che ce ne trasmette i testi recita infatti Phaedri Augusti liberti liber fabularum (Libro delle favole di Fedro, liberto di Augusto).

 

La forma al nominativo del suo nome non è certa, anche se il favolista del IV/V secolo Aviano lo chiama Phaedrus: il genitivo Phaedri può infatti presupporre sia Phaedrus che Phaeder.

 

Unica testimonianza dei suoi ‘rapporti’ con Augusto è una favola, e precisamente la decima del III libro (Poeta – De credere et non credere). In essa, si narra di un processo per un fatto di sangue: a seguito delle calunnie di un liberto, che sperava di ereditare, un uomo si convinse che la moglie avesse un amante e che l’amante stesso frequentasse la sua casa; simulò un viaggio; poi, nel cuore della notte, fece irruzione in camera della moglie. La moglie aveva fatto dormire con lei il figlio, per controllarlo meglio, e l’uomo, in preda al furore, toccando il letto a tastoni nel buio, finì col trafiggere il proprio figlio uccidendolo: scoperta la verità, in preda all’angoscia si suicidò. Venne incriminata la donna, sospettata in quanto unica erede; la difesa, in mano ad avvocati di polso, fu superba; la giuria si appellò ad Augusto e, alla fine, Augusto stesso sentenziò, assolvendo la donna e condannando il liberto, non senza parole di forte biasimo per il padre assassino e suicida. Fedro racconta il fatto come avvenuto a sua memoria, come un ricordo personale (narrabo tibi memoria quod factum est mea v. 8), fornendo quantomeno una indicazione cronologica della propria presenza a Roma durante il principato augusteo.

 

L’origine trace è ricavabile, con un buon margine di certezza, dal prologo del III libro (Phaedrus ad Eutychum – Fedro a Eutico), in cui Fedro afferma di avere visto la luce sui monti della Pieria, dove Mnemosine aveva partorito a Giove tonante le nove Muse, e di essere dunque quasi nato nella loro scuola (vv. 17-23), salvo poi scrivere «Se Esopo, Frigio, se Anacarsi, Scita, poterono procurarsi col loro ingegno una fama eterna, perché io, che sono più vicino di loro alla dotta Grecia, dovrei trascurare per inerzia di onorare la mia patria, quando la gente di Tracia conta propri autori, e Lino ha per padre Apollo, e una Musa è la madre di Orfeo, che col suo canto muoveva le pietre e domava le fiere e seppe dolcemente frenare il rapido corso del fiume Edbro? » (vv.52-59). Dunque, prima si proclama nato in Pieria, ovvero in Macedonia; poi, agganciandosi alle proprie origini per affermare di poter legittimamente aspirare alla gloria, rivendica di essere più vicino alla Grecia di quanto non fossero Esopo, originario della Frigia, e Anacarsi, originario della Scizia, e di essere vicino alla Grecia quanto Lino e Orfeo, originari appunto della Tracia. Sennonché, se fosse nato in Macedonia – cioè ben più vicino alla Grecia – tutto il ragionamento sarebbe stato necessariamente diverso: di qui, la conclusione che egli fosse nato appunto in Tracia, vicino alla Macedonia, e che il riferimento ai monti della Pieria altro non sia che una amplificazione retorica per poter accomunare la propria nascita a quella delle Muse. Ovviamente, egli ignorava la tradizione che considerava Esopo originario della Tracia: cosa che sicuramente avrebbe accresciuto le sue speranze di gloria. 

 

Che si trovasse a Roma già dall’infanzia, lo si può desumere dall’epilogo del libro III (Poeta) in cui si legge: «Di quella massima che lessi un tempo, da ragazzino (puer), “Per un plebeo è cosa empia protestare apertamente”, mi ricorderò bene finché sarò sano di mente”»: la massima è un frammento della tragedia Telefo del poeta Ennio, che Fedro poteva avere letto solo in una scuola romana.

 

Che a portarlo a Roma come schiavo fosse stato Lucio Calpurnio Pisone Frugi, identificato come probabile destinatario, assieme ai due figli, dell’Ars poetica di Orazio, è una congettura  convincente, avanzata da Francesco Della Corte nel 1939.

 

Che egli abbia poi vissuto la propria maturità ai tempi di Tiberio, ci è attestato dalla favola quinta del II libro (Caesar ad atriensemL’imperatore allo schiavo atriense), un aneddoto relativo appunto a Tiberio e ad un suo schiavo; e ci è ulteriormente confermato dai riferimenti a Seiano, braccio destro dell’imperatore, colpevole di aver fatto cadere Fedro in disgrazia, contenuti ancora nel prologo del III libro.

Anche altre favole sembrerebbero peraltro ricondurre all’età tiberiana, come I, 2 (Ranae regem petierunt -Le rane vollero un re); I, 6 (Ranae ad Solem – Le rane al Sole); I, 30  (Ranae metuentes taurorum proeliaLe rane che temono le contese dei tori); II, 1 (Iuvencus, leo et praedator – Il giovenco, il leone e il brigante); Simius tyrannus - Il re delle scimmie (di cui ci è pervenuta solo una parafrasi medievale).

In I, 2 – con Giove che, dopo avere inviato alle rane il pacifico travicello di legno, di cui le rane chiedono la sostituzione, manda loro come re la biscia d’acqua che se le divora una ad una –, c’è chi identifica la biscia con Seiano; così come  allusioni a Seiano, ancora più forti, sono state individuate ne Le rane al Sole (I, 6) e Il re delle scimmie (vedi Le “Favole” di Fedro – Fra tradizione e innovazione).

Quanto a Le rane che temono le contese dei tori, la cui morale, espressa nei due versi iniziali (promizio), recita «I poveri soffrono quando i potenti sono in discordia», racconta della paura provata dalle rane nel vedere i tori (diversum genusun’altra razza) litigare fra loro: «Quel toro – afferma infatti una rana – che, cacciato dal regno del bosco, fuggirà, verrà a nascondersi nelle parti più segrete della nostra palude e ci calpesterà e ci schiaccerà con i suoi duri zoccoli». Identificando le rane con i poveri e i tori con i potenti (appunto una razza diversa), si è supposto che la favola potesse riferirsi ai timori per un ritorno alla guerra civile, che più volte si presentarono al tempo di Tiberio.

Ne Il giovenco, il leone e il brigante, infine, troviamo un leone che, davanti alla propria preda (un giovenco), respinge con forza un brigante che ne pretende parte; quando invece arriva un tranquillo viandante, che vedendolo retrocede timidamente, il leone lo invita a prendere a sua discrezione quanto ritiene giusto, e, smembrato il giovenco, se ne va lasciando via libera all’uomo. In modo non particolarmente convincente, è stata avanzata l’ipotesi che dietro la favola possano celarsi i problemi delle Province, vessate dall’avidità dei proconsoli: intorno all’anno 15, infatti, le province di Acaia e Macedonia avevano invocato un alleggerimento degli oneri, e si era deciso di sottrarle all’amministrazione proconsolare affidandole a quella diretta di Tiberio.

 

È sempre dal prologo del III libro che abbiamo notizia della calamitas, della disgrazia che colpì Fedro dopo le accuse rivoltegli da Seiano. «Ora ti spiegherò brevemente perché fu inventato il genere della favola. Uno schiavo, non osando dire apertamente quello che avrebbe voluto dire, tradusse i propri sentimenti in apologhi, eludendo così, con fantasiose invenzioni, le accuse di calunnia. Io, in seguito, feci di quel suo viottolo un’ampia via, e diedi forma a molte più riflessioni di quante egli ne avesse lasciate, apprezzandone alcune che mi condussero alla rovina. Che, se l’accusatore fosse persona diversa da Seiano, se diverso da Seiano fosse il testimone, se un altro fosse infine il giudice, potrei pure ammettere di meritare così grandi mali, né cercherei di lenire il mio dolore con questi rimedi. Sennonché, chi, per un suo sospetto, equivocasse e considerasse riferito a sé ciò che è invece diretto a tutti, metterebbe stoltamente a nudo la propria cattiva coscienza. Nondimeno, vorrei scagionarmi anche ai suoi occhi: perché non è mia intenzione colpire i singoli, ma svelare la vita stessa e i costumi degli uomini in generale» (vv. 33-50). Le allusioni fedriane sono volutamente oscure, sicché, di fatto, non sappiamo quali fossero le accuse specifiche. Peraltro, se l’accusa di Seiano fosse stata ‘politica’, dopo la caduta in disgrazia e la condanna a morte del medesimo Fedro avrebbe potuto riscattarsi: cosa che pare invece non essere mai avvenuta, come si desume dal complesso delle Favole. Quella che alcune favole dei libri I e/o II fossero state interpretate da Seiano e ai suoi seguaci come attacchi personali, e che dunque Seiano avesse fatto processare Fedro per vendetta, usando un pretesto a noi sconosciuto, è soltanto l’interpretazione tradizionale, che appare essere comunque la più convincente.

 

Dall’epilogo del III libro (Poeta), apprendiamo che, all’epoca, Fedro era già vecchio, o che, quantomeno, così si sentiva. Rivolgendosi ad un destinatario di cui manca il nome (probabilmente lo stesso Eutico del prologo), Fedro scrive infatti: «Di giorno in giorno la vita è più vicina alla morte e, quanto più tempo si consumerà nell’attesa tanto minore sarà il dono che riceverò; se tu interverrai presto, sarà più lungo l’uso che del dono potrò fare – ne godrò per più tempo, se lo riceverò prima. Finché resta una qualche reliquia della mia stanca vita, c’è spazio per il tuo soccorso. La tua tenera benevolenza si adopererà invano per aiutarmi una volta che sarò troppo indebolito dalla vecchiaia: non avrà più alcuna utilità nella concessione di un beneficio, e verrà prossima la morte a richiedere il suo credito» (vv. 10-19).

 

Su chi fosse Eutico non abbiamo certezze, e i vari tentativi di identificazione non hanno condotto ad alcuna certezza: era in ogni caso un liberto, un liberto abbastanza potente di cui Fedro cercava la protezione e l’aiuto per la propria riabilitazione, nel nuovo stato di bisogno in cui dovette trovarsi dopo la condanna più o meno infamante inflittagli da Seiano. Forse un liberto era anche quel Particolone a cui è indirizzato il prologo del IV libro (Poeta ad Particulonem), ma il tono con cui Fedro gli si rivolge è ben diverso da quello usato per Eutico, non contenendo alcuna richiesta esplicita di intercessione; così come diversa – in questo caso  decisamente amichevole – è la frase rivolta allusivamente a tale  Fileto nel verso finale della favola Canis et sus et venator (Il cane, il cinghiale e il cacciatore V, 10). La favola ha come personaggio centrale un cane da caccia, che, negli anni, aveva sempre soddisfatto il suo padrone, finché, infiacchito dalla vecchiaia, un giorno, mentre ci si azzuffava, si era lasciato sfuggire un cinghiale. Aspramente rimproverato dal cacciatore, il cane gli si era rivolto così: «Sono le mie forze ad esserti venute meno, non la mia disposizione d’animo: loda dunque ciò che sono stato, se pure vuoi ora biasimare ciò che sono». Dopo di che, Fedro conclude: «E tu, Fileto, sai perfettamente il motivo per cui lo scrivo». Sta di fatto che, anche questa favola, come molte altre, lascia intravvedere la disillusione per  un riscatto mai ottenuto: l’amarezza di chi, sentendosi finito, si aggrappa all’orgoglio del proprio passato.

 

Che fosse ancora in vita al tempo di Caligola parrebbe dimostrato da quattro favole: quella frammentaria di IV, 13 (De leone regnante – Il leone regnante); Serpens. Misericordia nociva – La serpe o pietà nociva (IV, 19); Paterfamilias et Aesopus. Quomodo domanda sit ferox iuventus – Il padre di famiglia ed Esopo. Come si possa tenere a freno la gioventù focosa (Appendice Perottina* 10); Luscinia et accipiter – L’usignolo e lo sparviero (di cui ci è pervenuta solo una parafrasi medievale). (* Sull’Appendix Perottina, vedi Le “Favole” di Fedro – Fra tradizione e innovazione).

Il leone regnante ci è nota per intero grazie alle parafrasi medievali: ci presenta il leone che, autoproclamatosi re degli animali, per salvare le apparenze di un proprio buon governo, pieno di virtuosi propositi, giura di diventare vegetariano, accorgendosi poi, però, di non poter cambiare la propria natura. Asserendo che gli puzzava l’alito, escogita allora di farsi annusare la bocca  da tutti gli animali, finendo poi col divorarli, indipendentemente dalla loro reazione a dalla loro risposta. Solo una scimmia viene risparmiata, perché riesce a spiazzarlo, assicurandogli che il suo alito è divino. Più tardi, si finge malato e, al consiglio dei medici di nutrirsi con qualche cibo particolare che gli allevii la nausea, esprime il desiderio di poter assaggiare la carne di scimmia: col che, la scimmia adulatrice viene trascinata davanti a lui e divorata. Si è notato come il leone ricordi da vicino il Caligola dei primi tempi, perfetto nella parte di monarca umano e ‘democratico’, atroce nei delitti privati, imprevedibile nell’astuzia e nella beffa, còlto poi da una sorta di delirio di onnipotenza.

La serpe o pietà nociva è l’apologo della serpe che, scaldata nel seno e ripresasi dal gelo, uccide l’uomo che l’ha salvata: alla domanda di un’altra serpe sul perché, risponde di averlo fatto «a che nessuno impari ad aiutare i malvagi». La fredda ferocia di Caligola, non priva peraltro di umorismo, poteva farlo assomigliare ad una serpe: somiglianza che, come racconta Svetonio (Vita di Caligola, 11), era ben evidenziata da Tiberio, solito dire che, con Caligola, egli stava allevando una vipera per il popolo romano, senza sapere che si disse allora e lo credeva anche Svetonio quella vipera avrebbe avvelenato per primo proprio lui. La favola è mutuata dalle raccolte esopiche, ma il suo ‘scioglimento’, con la morte dell’uomo, è una innovazione di Fedro, che – è stato suggerito – intendeva denunciare come colpa di Tiberio la lunga e paziente tutela della serpe Caligola.

Nella favola Il padre di famiglia ed Esopo compaiono un vecchio bue e un giovenco, attaccati dal padrone allo stesso giogo: alle lamentele del vecchio bue, l’uomo risponde di non averlo aggiogato col giovane perché faticasse quanto lui, ma perché lo domasse, visto che aveva già maltrattato troppi altri buoi a cornate e colpi di zoccolo. La storiella viene raccontata da Esopo ad un padre, il cui figlio era solito frustare a sangue e tormentare crudelmente i servi della casa non appena si trovasse fuori dallo sguardo paterno: ed è lo stesso Esopo a consigliare all’uomo di stare sempre vicino al figlio e di curarne la ferocia con la bontà, per evitare che l’intera casa vada in rovina, ché la dolcezza è l’unico rimedio alla crudeltà. Si è ricondotta la favola al tempo della successione  di Caligola a Tiberio, quando l’imperatore, visto che la successione a Caligola sembrava inevitabile, pensò che fosse un buon rimedio affiancargli qualcuno ben diverso di carattere da lui: all’apertura del testamento si vide infatti che Tiberio aveva nominato coerede di Caligola l’altro suo nipote, il figlio di Druso (Svetonio, Vita di Tiberio, 76), anche se, purtroppo, la volontà testamentaria fu annullata dal Senato che riconobbe a Caligola la totalità del potere (Svetonio, Vita di Caligola, 14).

Quanto, infine, a L’usignolo e lo sparviero, vi è descritto un gesto di pura malvagità: c’è uno sparviero che si accinge a divorare i piccoli usignoli nel nido; alle suppliche della madre perché li risparmi, promette pietà in cambio di un bel canto, e la madre, costretta dal terrore, canta per lui; venendo meno alla parola data, lo sparviero la accusa di aver cantato male e comincia a straziare uno dei piccoli, ma ecco che arriva un uccellatore e per lo sparviero è finita. La morale è che chi tende insidie ad altri deve temere di non essere lui a cadere nella rete. Ora, se si pensa che, sadicamente, Caligola, fra le sua innumerevoli crudeltà, costringeva anche i genitori ad assistere al supplizio dei figli (Svetonio, Vita di Caligola, 27), sembra lecito ricondurre la favola agli anni folli del suo regime. La punizione dello sparviero ad opera dell’uccellatore potrebbe far pensare in qualche modo alla ‘punizione’ finale di Caligola, con la sua morte ad opera di congiurati (nel 41); così come, nell’usignolo, si potrebbe identificare Cassio Cherea, che ebbe parte attiva nella sua uccisione. Svetonio ci racconta infatti che Caligola aveva l’abitudine di insultare con ogni tipo di ingiuria questo ufficiale ormai vecchio definendolo non virile ed effeminato, rispondendogli con parole d’ordine allusive (quali “Priapo” o “Venere”), porgendogli la baciare la mano atteggiata e mossa in modo osceno (Vita di Caligola, 56); e lo stesso ci racconta Cassio Dione (Storia romana, 59,29). Su quale fosse il motivo, o meglio il pretesto, che ‘giustificava’ lo scherno dell’imperatore, il chiarimento ci viene da Seneca, che annota come Cherea avesse «un modo di parlare che non rispecchiava il suo coraggio: un tono di voce languido, e in qualche modo sospetto, se non si fossero conosciute le sue imprese» (De constantia sapientisLa fermezza del saggio, 18, 3): si potrebbe dire, cioè, una voce “da usignolo”. L’ipotesi non è facilmente sostenibile, soprattutto per il fatto che il rapace viene catturato e non ucciso: a meno di non supporre un finale più violento della favola originale a fronte di quella che ne è la parafrasi medievale.

 

In conclusione – come si è detto all’inizio –, le vicende di Fedro e le datazioni relative alla sua vita sono tutte ricostruibili in modo approssimativo, vista l’estrema scarsità di ogni documentazione: e, se qualche supposizione può essere fatta in relazione all’anno di nascita, accettando l’ipotesi del suo arrivo a Roma, bambino, negli anni 13/10, nulla si può ipotizzare attorno alla data della sua morte. Parrebbe probabile che fosse ancora vivo all’epoca dell’imperatore Claudio (e ne potrebbe far fede anche la favola de L’usignolo e lo sparviero), ma, di fatto, ogni ipotesi risulta più o meno indimostrabile.

Per quanto suggestivo sia cercare di tessere una biografia nascosta fra le righe delle sua pagine, con certezza, sappiamo soltanto che egli visse la giovinezza e l’età matura sotto Augusto e Tiberio, e che tre sono i dati biografici certi ed essenziali per comprendere l’uomo e la sua opera: la schiavitù, la calamitas, l’età avanzata in cui si colloca la composizione di gran parte delle sue favole.

Di questo dobbiamo accontentarci.

 

 

Nella numerazione delle favole seguo l’edizione di L. Müller (Phaedri Augusti liberti Fabulae Aesopiae, Teubner, 1890), ripresa in Fedro, Favole, a cura di A. Richelmy e A. La Penna, Einaudi, 1992).