«Si dice che fosse alto, ben proporzionato e di colorito chiaro. Aveva il viso un po’ troppo pieno e gli occhi neri e vivaci. Godeva di ottima salute, ma negli ultimi tempi soffriva di svenimenti e di incubi notturni: due volte, mentre svolgeva la sua attività, fu anche colto da attacchi epilettici. Era tanto meticoloso nelle cure del corpo che, non contento di farsi tagliare i capelli e radere la barba con estrema cura, si faceva persino depilare, come qualcuno gli rinfacciò. Non riuscì mai a consolarsi di essere calvo, angustiandosi eccessivamente per gli scherzi dei suoi detrattori, e, per nascondere la calvizie, si pettinava portando avanti i radi capelli… Dicono che fosse anche molto ricercato nel vestire. Portava infatti il laticlavio con frange fino alle mani, cingendosi sempre al di sopra di esso e con la cintura molto allentata … Molti testimoni lo dicono estremamente desideroso di lusso e di eleganza: poiché non corrispondeva al suo gusto, distrusse fin dalle fondamenta, quando già era finita, una villa che aveva fatto costruire con grande spese…, benché in quell’epoca fosse in modeste condizioni finanziarie e oberato da debiti. Dicono anche che, durante le spedizioni militari, portasse con sé pavimenti a intarsio e a mosaico (inseriti su telai smontabili)… Collezionò sempre con grande passione gemme, vasi, quadri e statue antiche. Si procurava anche degli schiavi belli e colti, pagandoli a così alto prezzo che dava ordine di non segnarlo nei suoi registri di spese… È notorio che fu molto incline alla libidine e pronto per questo a spendere, e che sedusse molte donne di famiglia illustre… ma più di ogni altra amò Servilia, la madre di Marco Bruto, per la quale, durante il primo consolato aveva acquistato una perla del valore di sei milioni di sesterzi. Durante le guerre civili, oltre a molti altri regali, le aveva fatto assegnare all’asta vastissime proprietà a un prezzo irrisorio. Poiché molti si meravigliavano del basso prezzo, Cicerone disse con arguzia: “E l’affare è stato ancora migliore, perché bisogna dedurne la terza parte”, alludendo alla voce secondo cui Servilia favoriva anche gli amori di Cesare con sua figlia Terzia… Amò anche delle regine… Ma amò soprattutto Cleopatra, con la quale spesso si intrattenne a banchetto fino all’alba, e su una nave fornita di stanze si addentrò con lei in Egitto e fin quasi in Etiopia… In seguito, fattala venire a Roma, la rimandò in patria solo dopo averla colmata di onori e di regali splendidi, e consentì che il figlio nato dalla loro unione portasse il suo nome… e, perché non vi possa essere alcun dubbio sul fatto che Cesare ebbe la peggior fama di sodomita e di adultero, Curione padre, in un suo discorso, lo chiama “marito di tutte le mogli, moglie di tutti i mariti”».

Questo il Cesare che potremmo definire ‘privato’, nella descrizione per certi versi impietosa che ce ne dà Svetonio (Vita, XLV-LII, in Vite dei Cesari, trad. di Felice Dessì, BUR 1982, pp. 49-157).

Eppure quest’uomo, questo – apparentemente – piccolo uomo, con la pettinatura a riporto, l’attenzione all’aspetto, la depilazione, gli amori lussuriosi, i debiti e le manie di grandezza, lasciò un’orma indelebile nella storia; nel contesto forse più travagliato della vita di Roma, quest’uomo, ripetutamente accusato anche di sodomia per la presunta relazione giovanile col re Nicomede di Bitinia, si fece strumento di storia, percorse le tappe di una carriera militare e politica che lo portò ai vertici del potere, e soprattutto ne proiettò l’ombra sui secoli futuri.

 

Ancora oggi, tutti sanno più o meno chi fu Giulio Cesare; molti, pur senza saperle sempre collocare nel contesto, conoscono e usano almeno due frasi attribuite a lui e divenute proverbiali: Alea iacta est (Il dado è tratto), Veni vidi vici (Sono venuto, ho visto, ho vinto). Ugualmente molti riconoscono come sua l’esclamazione Tu quoque Brute fili mi (Anche tu Bruto figlio mio), pronunciata in punto di morte, quasi come segno di resa, nel riconoscere fra i propri assassini il prediletto, quasi figlio, Marco Giunio Bruto. 

Da dove deriva questa sua immortalità?

È vero che, al di là delle debolezze umane e al di là della più o meno discutibile morale individuale, Cesare fu senza dubbio un grande personaggio dell’antichità: un condottiero pressoché invincibile, un leader politico di importanza fondamentale per la storia politica di Roma, un illustre letterato e storico. Ma, come lui, ce ne furono sicuramente altri, ed è pertanto evidente come non possa bastare la sua grandezza per giustificarne la conoscenza a tutt’oggi ampiamente diffusa e il consolidamento nell’immaginario collettivo; per spiegare la fama e il prestigio ininterrotti, che tuttora accompagnano il suo nome.

Il fatto è che, quando Cesare, a cinquantasei anni, fu ucciso con ventitre pugnalate, il 15 marzo del 44 a. C., la sua morte segnò la fine dell’uomo, ma diede origine a un mito: nei secoli, Cesare diventò una sorta di archetipo del potere; numerosi sovrani ebbero ed alimentarono un grande interesse nei suoi confronti; il suo mito, di condottiero e di uomo politico, fu ampiamente coltivato e nutrito da grandi pittori, e letterati, e musicisti; più recentemente, il cinema ha riportato quel mito fino ai giorni nostri, con le oltre cento pellicole che, dai primi anni ad oggi, vedono Cesare come protagonista diretto o indiretto. 

Le cause di ciò sono complesse: c’è, sì, l’auto-rappresentazione che Cesare fa di se stesso nei suoi Commentari De bello Gallico e De bello civili (La guerra Gallica e La guerra civile); c’è, sì, la gestione della sua figura da parte dell’imperatore Augusto suo erede; ma c’è soprattutto – questa l’origine vera del mito – l’utilizzo della sua figura da parte del potere.

Il re di Francia Carlo VIII, Carlo V d’Asburgo, il sultano turco del sedicesimo secolo Solimano, Enrico IV di Borbone, il re di Francia Luigi XIV, Napoleone Bonaparte, Napoleone III – per ricordare i più importanti –, tutti furono attenti conoscitori e studiosi del personaggio che aveva prodotto trasformazioni epocali: l’uomo che, da democratico, da espressione cioè del partito più popolare, aveva messo fine all’esperienza repubblicana, aveva relegato alla quasi totale impotenza il Senato, aveva consegnato il Principe – se stesso – ad un rapporto esclusivo con il suo popolo.

Cesare era il grande condottiero che aveva romanizzato l’Europa e fatto nascere una monarchia universale, ed era il politico che di fatto aveva creato il moderno concetto di dittatura: l’incarnazione di tutti i più grandi sogni del potere. Abbastanza logico, dunque, che tutti i sovrani ricordati mirassero in qualche modo a creare un culto attorno alla sua persona, quando non addirittura – come Bonaparte – ad assumerlo come proprio modello di sovranità, in un processo di auto-identificazione. E va aggiunto che già prima, durante il Medioevo con l’affermarsi del Sacro Romano Impero, il mito di Giulio Cesare aveva conosciuto un suo splendore: quando era stato utilizzato ideologicamente e politicamente per riconfermare i valori aggreganti del nuovo impero carolingio.

Di non secondaria importanza fu poi l’insorgere, con l’umanesimo e il Rinascimento, di quel nuovo senso dell’individualità, volto a cercare nei classici il proprio modello, quando i grandi personaggi dell’antichità alimentarono l’immaginario poetico: e Cesare non poteva non essere uno di loro.

Nella letteratura e nel teatro vennero celebrati i suoi fasti suoi e quelli di Roma: basti pensare alla Vita di Cesare (De gestis Caesaris) di Petrarca, o al Giulio Cesare di Shakespeare; o all’opera lirica Giulio Cesare in Egitto di Georg Friedrich Haëndel; o alle tragedie di Voltaire (La morte di Giulio Cesare), Vittorio Alfieri (Antonio e Cleopatra), Bertold Brecht (Gli affari del signor Giulio Cesare).

Per quanto concerne l’Italia, infine, è noto a tutti come, agli inizi del Novecento, il mito romano abbia trovato nuova linfa nell’ideologia fascista: e la figura di Giulio Cesare era evidentemente quella che meglio poteva rappresentare l’idea di magnificenza che doveva essere attribuita al Duce.

 

Il modello di sovranità cesariano ha insomma rappresentato per secoli, e rappresenta tuttora, una tipologia di potere, che, semplificando, potremmo definire come una dittatura legittimata dal consenso: ché il rapporto privilegiato stabilito da Cesare col popolo, con la parte politicamente attiva degli strati sociali più bassi, aveva di fatto costituito la legittimazione di un potere personale interclassista; e la sua capacità di giocare col mito, assecondando ad arte la credenza nella sua discendenza da Venere, aveva creato suggestioni difficili da scalfire. 

Cesare assurse ai massimi poteri grazie al coraggio, all’ambizione, alla determinazione, ma grazie anche alla mancanza di scrupoli e alla munificenza; grazie alla capacità di valutazione di uomini e situazioni, ma anche alla capacità di tessere rapporti politicamente redditizi, di gestire le campagne elettorali, di autocelebrare la propria politica e se stesso e la propria famiglia, di legare a sé – a seconda del momento – sia le masse urbane che le masse militari: grazie, insomma alla capacità di catturare e consolidare attorno a sé il consenso, e all’abilità nel saperlo sempre e comunque riconquistare. 

Nella sua Vita di Cesare, Plutarco bene evidenzia i mezzi utilizzati dal leader politico nella sua marcia verso i massimi poteri dello Stato: l’alleanza con i potenti dell’opposizione antisenatoria, ma anche e soprattutto la corruzione sistematica del popolo; la lotta per ottenere misure politiche viste con favore dal popolo stesso, a prescindere dalla loro valenza per il bene pubblico. Plutarco racconta, ad esempio, come Cesare, preso possesso della carica di console, «presentò subito certe proposte di legge che nessuno si sarebbe aspettato da un console, ma, se mai, dal più rivoluzionario dei tribuni: propose infatti, per far piacere alla plebe, alcune divisioni di terre e distribuzioni di grano. Nel Senato si opposero a queste leggi vari probi ed insigni senatori; allora Cesare, che già da tempo cercava un pretesto, gridando che lo spingevano contro la sua volontà a ricorrere al popolo, scese tra la plebe» (14). 

Mutila all’inizio, in Plutarco, la narrazione della vita di Cesare inizia con l’ascesa al potere di Silla, nell’82: Cesare aveva allora diciassette anni.

In maniera simile, la pressoché coeva Vita di Cesare scritta da Svetonio, anch’essa mutila, inizia con la perdita del padre a sedici anni, la rottura del fidanzamento con la giovane Cossuzia e il matrimonio, a diciassette anni, con Cornelia, figlia del nemico di Silla Lucio Cornelio Cinna; seguono il suo rifiuto ad obbedire a Silla ripudiandola e la conseguente persecuzione.

Dopo il servizio militare in Asia e il soggiorno presso il re Nicomede di Bitinia, dopo la cattura da parte dei pirati e il viaggio a Rodi, dove si forma come oratore, Cesare torna a Roma nel 78, alla morte di Silla: ed è allora che inizia la sua attività politica.

Già descritto in precedenza come un eroe sicuro di sé, sprezzante del pericolo, strafottente e pronto alla rivincita, già ampiamente lodato per le doti oratorie, in Plutarco il personaggio di Cesare acquista spessore attraverso l’insistenza sulla popolarità via via crescente: una popolarità volutamente perseguita, ottenuta con l’affinamento di una naturale predisposizione all’eloquenza, con l’attività retorica vincente, con la vita fastosa, con la prodigalità, con le dimostrazioni di affabilità, con l’attenzione costante a guadagnarsi prestigio e favore.

«I suoi avversari politici – commenta Plutarco –, ritenendo che ben presto, quando gli fossero venuti a mancare i denari, questa autorità sarebbe svanita, permettevano che prendesse piede tra la gente; però quando essa era divenuta grande e difficile da abbattere, e anzi procedeva direttamente al sovvertimento generale, si accorsero, ma tardi, che non si deve ritenere trascurabile all’inizio nessuna azione, che rapidamente diventa grande se è continua, e poi diviene irresistibile se non viene considerata per quel che è. Il primo che sembra aver sospettato e temuto la bonaccia dell’attività politica di Cesare come quella del mare, e aver temuto la potenza del suo carattere, dissimulata dal tono ilare e affabile, fu Cicerone, che disse di vedere un intendimento tirannico in tutti i suoi pensieri e in tutte le sue azioni politiche; “ma, – aggiungeva – quando vedo i suoi capelli così ben curati, e lo vedo grattarsi la testa con un dito, davvero non mi pare che quest’uomo possa concepire un pensiero così funesto, e cioè la distruzione della costituzione romana”» (4-5). 

Nel 69 muore Cornelia, e Cesare tiene un discorso di celebrazione della giovane moglie, mostrandosi pieno di buoni sentimenti, e guadagnandosi molti consensi; va poi in Spagna come questore; nel 67 sposa Pompeia, nipote di Silla per discendenza materna; eletto curatore della Via Appia, spende, del suo, moltissimo denaro, e ancora di più ne spende nella sua veste di edile, quando – in una sorta di grande e continua spettacolarizzazione del potere – offre giochi gladiatorii, e spettacoli teatrali, e processioni, e pranzi, oscurando tutte le magnificenze dei precedenti magistrati. C’erano allora a Roma due fazioni: quella Sillana, forte, e quella Mariana, divisa e dimessa. Cesare si pone l’obiettivo di risollevare quest’ultima e conciliarsela, e ci riesce con una sorta di ‘colpo di teatro’: fa infatti costruire di nascosto delle statue di Mario e delle Vittorie, e le fa collocare di notte sul Campidoglio, col che i Mariani appaiono in pubblico straordinariamente numerosi, lodando Cesare e salutandolo come discendente di Mario. Non mancano accuse e accusatori, ma Cesare esce vincente dallo scontro, al punto che, alla morte del pontefice massimo, si presenta al popolo per avanzare la propria candidatura: dal principale contendente, l’aristocratico Lutazio Catulo, gli viene chiesto di ritirarsi, dietro la corresponsione di una ingente somma di danaro, ma Cesare mantiene la candidatura e alla fine prevale. L’insistenza nel mantenere la candidatura a pontefice e la frase detta alla madre il giorno della votazione («Madre, tu oggi vedrai tuo figlio pontefice massimo o esule») sono peraltro manifestazioni di quel gusto del rischio che sempre emergerà in situazioni decisive di svolta. 

Dal coinvolgimento nella congiura di Catilina alla pretura, dallo scandalo che vede implicati la moglie Pompeia e Publio Clodio al ripudio di Pompeia, dalla pro-pretura in Spagna al ritorno a Roma, fino alla costituzione del primo triumvirato, sempre meglio viene definendosi in Plutarco il ritratto iniziale: ad essere messi continuamente in luce sono la ricerca costante del favore popolare e la capacità di conciliarselo sempre e comunque, anche nelle situazioni più difficili; il piacere costante per il rischio, il desiderio costante di primeggiare, un ardore di gloria sempre insoddisfatto, una politica di fatto sovversiva mascherata da una apparente filantropia. Assieme, acquistano peso, da un lato, il calcolo prudente e sottile e le manovre sul piano delle cricche politiche; dall’altro, soprattutto nella gestione del consolato, nel 59, la lacerazione del velo della mitezza conciliante e l’assenza di scrupoli.

Un esempio dell’assenza di scrupoli attiene all’utilizzo spregiudicato dei legami personali e familiari a fini politici: per stringersi ancora di più a Pompeo, Cesare – racconta Plutarco – fa fidanzare con lui la figlia Giulia, già fidanzata ad un altro; a quest’ultimo promette in moglie la figlia di Pompeo, a sua volta già promessa al figlio di Silla; poco dopo sposa Calpurnia, figlia del senatore Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, e fa designare Pisone come console. Catone protesta – scrive ancora Plutarco –, affermando «che non era tollerabile che lo Stato fosse prostituito a matrimoni, e che, valendosi di donnette, si dividessero fra loro le province, le cariche militari, le cariche pubbliche» (13). 

La narrazione delle campagne galliche è in Plutarco relativamente ampia, e, fin dall’incipit, mette in luce le grandi qualità di Cesare come condottiero, con segnalazione di tutti gli atti di coraggio, audacia e accortezza.

Quanto ai rapporti con Roma e alla lotta politica, l’immagine di Cesare continua ad apparire meno luminosa, lasciando ben trasparire la sua politica demagogica ed insidiosa, tesa come sempre ad accrescere il favore popolare nei propri confronti: il popolo è corrotto con le ricchezze, l’opposizione è ridotta all’impotenza, l’azione corruttrice verso il Senato tocca punte mai viste.

Non diversa è l’impressione generale desumibile da Svetonio. 

Nel gennaio del 49 scoppia la guerra civile: uno scontro voluto, per Plutarco, da Cesare, che se lo era posto come obiettivo fin dall’inizio del proconsolato in Gallia: ma, per la realizzazione della sua volontà, Cesare trova un terreno molto fertile nella realtà oggettiva, caratterizzata soprattutto da una corruzione politica imperante:

«Egli coglieva i pretesti che in parte gli erano offerti da Pompeo, in parte dalle circostanze e dalla immoralità pubblica dominante a Roma, per effetto della quale gli aspiranti a cariche pubbliche mettevano i loro banchi per strada e spudoratamente corrompevano le masse; e la gente, prezzolata, scendeva nel Campo Marzio non solo a votare, ma addirittura a sostenere con archi, spade e fionde chi le aveva dato denaro a profusione. Spesso i contendenti si separarono dopo aver contaminato la tribuna con il sangue e con i cadaveri, lasciando la città nell’anarchia, come una nave senza nocchiero sbattuta qua e là, tanto che le persone più serie sarebbero state contente se, da una tale aberrazione e vergogna, la situazione fosse caduta sotto il potente comando di uno solo, evitando mali peggiori. Molti erano anche coloro che osavano apertamente dire che non si poteva guarire quella situazione se non con il ricorso al governo assoluto di uno solo, e che bisognava accettare questo rimedio dato che lo offriva il più mite dei medici, e alludevano a Pompeo» (28).

È la nomina di Pompeo a console unico, con la proroga di tutti gli incarichi provinciali, a far sì che, nel 52, anche Cesare annunci la propria candidatura al consolato e chieda la proroga degli incarichi: ed è in qualche modo l’avvio della guerra civile, che avrà inizio ‘ufficialmente’ col famoso passaggio del Rubicone nel 49 e l’altrettanto famosa esclamazione iacta alea est, che in Plutarco similmente suona «si getti il dado».

In soli sessanta giorni Cesare diventa di fatto padrone dell’Italia: Pompeo è fuggito in Grecia.

Le vicende della guerra si spostano in Spagna, da dove Cesare scaccia i legati di Pompeo; dopo di che muove contro Pompeo, senza avere alle spalle alcun nemico.

Come è noto, la prima fase della guerra ha termine con la battaglia di Farsalo: lo sconfitto Pompeo, rifugiatosi in Egitto, viene proditoriamente ucciso per ordine di Tolomeo, che intende con questo ingraziarsi il vincitore.

Ai primi di ottobre del 48 Cesare giunge in Egitto, dove apprende dell’uccisione di Pompeo avvenuta pochi giorni prima, il 28 settembre. 

Dopo la fine della guerra Alessandrina, la scena ritorna a Roma, dove Cesare, già insignito del titolo di dittatore nel 49, verrà nominato dittatore a vita nel febbraio del 44.

Posta fine alle guerre civili, Cesare si mostra clemente coi nemici, generoso col popolo e con l’esercito, pronto ad elargire cariche e onori agli ottimati, alla ricerca del consenso di tutti. Ma non è soddisfatto, ché il suo continuo desiderio di grandezza e di onori è, almeno nella lettura di Plutarco, patologico, una sorta di malattia.

«I molti successi non consentivano alla sua naturale ambizione e all’ansia di grandi imprese di godere dei risultati raggiunti, ma erano un incitamento e uno sprone verso il futuro, e gli suggerivano di ideare maggiori imprese e di aspirare a nuova gloria, quasi che fosse ormai sazio di quelle che godeva. Il suo stato d’animo non era altro che invidia di sé, quasi che fosse un altro, e tensione verso il da farsi per superare il già fatto» (58).

Prende così piede l’idea di una spedizione contro i Parti, per chiudere il cerchio dell’impero, limitato da ogni lato dall’Oceano.

Nel frattempo, Cesare formula progetti sempre più grandiosi per abbellire e arricchire Roma: la costruzione di un tempio a Marte e di un immenso teatro; l’apertura di biblioteche greche e latine; la bonifica delle paludi di Pomezia e di Sezze… Inizia i lavori per tagliare con un canale l’istmo di Corinto, progetta di deviare il Tevere e di farlo confluire in mare presso Terracina, pensa di bonificare e di intervenire sul litorale di Ostia per farvi porti e ancoraggi. 

Cesare non riuscirà a condurre a termine alcun progetto, né partirà per la spedizione contro i Parti: alle idi di marzo del 44 verrà infatti ucciso da un manipolo di congiurati, fra i quali Bruto. 

L’uomo che aveva fatto del consenso la sua arma principale, l’uomo che tale consenso aveva in gran parte perduto nell’ultimo scorcio della sua vita, seppe proiettare oltre la propria stessa morte la propria abilità nel riconquistarlo: il giorno dopo la sua uccisione, Bruto tenne un discorso nel foro, e il popolo, che si limitò ad ascoltare, di fatto testimoniò col suo silenzio il solco ormai profondo che si era instaurato fra sé e il dittatore che aspirava a diventare re; ma quando si aprì il testamento di Cesare, e si trovò che egli aveva lasciato un consistente donativo in denaro a tutti i Romani; quando la gente vide il suo corpo sfigurato dai colpi portato attraverso il foro, ci fu una rivolta, e la folla cremò il corpo con materiali strappati dal foro, dopo di che si precipitò alle case degli uccisori per bruciarle ed uccidere gli uccisori stessi.

 

Cesare – come s’è detto – fu di fatto il creatore del moderno concetto di dittatura: una dittatura legittimata dal consenso, fondata sul rapporto pressoché esclusivo fra il ‘dittatore’ stesso e il suo popolo.

La strategia cesariana di organizzazione, o per meglio dire manipolazione del consenso si compone di diversi elementi, ma sicuramente un ruolo centrale è rivestito dalla propaganda.

Intento propagandistico e di auto-encomio hanno i suoi Commentarii De bello Gallico e De bello civili (basti dire che, nel De bello Gallico, la campagna è presentata come una guerra difensiva e le capacità militari e politiche di Cesare sono messe costantemente in risalto; nel De bello civili, gli avversari sono meschini e corrotti, mentre la condotta di Cesare si basa sulla moderazione e sul rispetto della legalità; gli avversari sono crudeli, mentre Cesare è clemente).  Strumento di propaganda diventa anche l’utilizzo del mito, con l’assecondare la credenza nella propria discendenza da Venere, attraverso l’asse Venere-Enea-Ascanio o Iulo, da cui avrebbe avuto origine la gens Iulia (Giulia): utilizzo ben testimoniato anche dalla coniazione di monete con le immagini di Venere ed Enea. E anche altre raffigurazioni ed iscrizioni presenti sulle monete – trofei gallici, immagini dei vinti, riferimenti alle proprie cariche religiose e civili – rappresentano un importante veicolo d’immagine.

Ci sono poi le campagne militari, i progetti sempre più grandiosi per abbellire la città, le grandi opere realizzate o progettate: simboli che veicolano un messaggio di potenza militare ed economica.

E ci sono anche l’attività retorica – con un’eloquenza che Cicerone, a dire di Svetonio, definiva elegante, brillante ed anche magnifica e generosa –, la vita fastosa, la prodigalità, le dimostrazioni di affabilità, la capacità di cavalcare i sentimenti popolari, i ‘colpi di teatro’…

 

Altrettanto importante è l’uso della demagogia nelle sue varie sfaccettature: spettacolarizzazione del potere, corruzione mascherata da filantropia, innalzamento agli onori di persone inadatte a ricoprirli, lotta per ottenere misure politiche viste con favore dal popolo a prescindere dalla loro reale efficacia …

Paradossalmente, infine, riconducono all’acquisizione del consenso anche la capacità di usare la menzogna, l’audacia, la mancanza di scrupoli e, non ultima, l’arroganza.

 

Dal punto di vista strettamente letterario, sia per quanto concerne le caratteristiche narrative, sia per quanto attiene al linguaggio, non c’è dubbio che Plutarco rappresenti, rispetto a Svetonio, una lettura più avvincente: una lettura che, per il suo spessore narrativo e drammatico, è maggiormente in grado di trasmettere e far comprendere le ragioni del fascino del personaggio, soprattutto in ambito letterario. Sennonché, dalla Vita plutarchea emergono due immagini diverse di Cesare: quella del condottiero di eserciti e quella del leader politico. Il condottiero resta fino alla fine ‘senza macchia e senza paura’; l’uomo politico non è mai privo di ombre. L’idea di fondo, in Plutarco, è che la gloria e la tirannide siano gli scopi sempre  perseguiti da Cesare, implacabilmente proteso, dall’inizio fino alla morte, alla conquista del regnum. Ed è questa una sorta di deformazione propria di tutta la tradizione antica, che però è stata scossa, quando non totalmente negata, dalla storiografia moderna: storiografia che, tendenzialmente, non ci presenta un personaggio misticamente mosso dalla propria passione verso l’impero, ma, più realisticamente, un politico pragmatico, flessibile, lucido, attento a capire le situazioni e a cogliere i momenti opportuni.

Più vicina a questa seconda interpretazione è senza dubbio la Vita di Svetonio: al di là del fatto che è spesso più precisa nel racconto e nella datazione dei fatti, la differenza fondamentale rispetto alla vita plutarchea è che, in essa, Cesare non ha alcuna dimensione tragica, non presenta alcuna contraddizione forte di immagine tra il condottiero e il leader, ma le ombre accompagnano la sua figura in entrambe le vesti, consegnandoci un ritratto storico che, di fatto, consente una interpretazione più realistica del personaggio e della sua vicenda storico-politica. Si rivela inoltre particolarmente interessante, in Svetonio, l’insistenza sulla dimensione privata dell’uomo, nonché il racconto di un gran numero di particolari, che, insieme, ne favoriscono una conoscenza più completa.

Ed è proprio con alcune citazioni di Svetonio che vorrei concludere. 

Non alieno da calunnie, denunce e cospirazioni contro gli avversari (capp. IV, IX, XII), all’epoca del consolato, per colpire in una sola volta tutti i suoi nemici, Cesare arrivò ad assoldare un calunniatore, spingendolo, dietro pagamento di denaro, a dichiarare che alcuni di loro gli avevano chiesto di assassinare Pompeo, e lo fece salire sulla tribuna a denunciare per nome i mandanti del delitto. Sennonché, il calunniatore inserì nell’elenco due nomi sbagliati, facendo nascere il sospetto della frode: Cesare lo fece allora scomparire, si crede avvelenandolo (cap. XXII).

Di fronte al rimprovero di avere innalzato ai più alti onori persone di umilissima origine, poco adatte agli onori stessi, Svetonio racconta che Cesare affermasse: «Se, per difendere il mio onore, avessi chiesto aiuto a dei ladri e a degli assassini, avrei ringraziato anche loro nello stesso modo» (LXXII).

Nel capitolo XXX, viene riferito che, a dire di Cicerone, Cesare aveva sempre sulle labbra due versi di Euripide, che recitano: «Se devi violare la giustizia, fallo per regnare; per ogni altro motivo cerca di rispettare la legge».

«Quando i suoi soldati  si legge nel cap. LXVI – erano atterriti dalle voci sulle forze degli avversari, non li rincuorava col negarle o lo sminuirle, ma anzi con l’esagerarle, e raccontando frottole. E così, quando tutti erano terrorizzati nell’attesa dell’esercito di Giuba, riuniti i soldati disse loro: “Sappiate che fra pochissimi giorni arriverà il re con dieci legioni, trentamila cavalieri, centomila fanti e trecento elefanti. Perciò la smettano certuni di chiedere e di fare congetture, e diano retta a me, che sono bene informato. Altrimenti li faccio imbarcare sulla nave più malconcia ed abbandonare senza meta in balìa dei venti”».

Particolarmente significativi appaiono i capitoli LXXVI/LXXVII, in cui Svetonio racconta:

«Regolò… a suo piacere e in dispregio del costume patrio la successione dei magistrati per parecchi anni…, accolse in Senato degli individui ai quali aveva dato lui stesso la cittadinanza romana e tra essi alcuni Galli semibarbari. Mise inoltre a capo della zecca e delle dogane pubbliche alcuni dei suoi schiavi privati, e delegò il comando e l’amministrazione delle tre legioni, che aveva lasciato ad Alessandria, a Rufione, figlio di un suo liberto e suo amante… Inoltre… teneva in pubblico dei discorsi di non minore tracotanza, affermando che la repubblica non era altro che un nome senza sostanza né forma… E giunse a tal punto di arroganza che una volta, avendo annunciato l’aruspice che le viscere erano infauste e prive del cuore, rispose: “Le farò diventare di buon augurio, perché voglio così. E, del resto, non si deve considerare un miracolo il fatto che una bestia sia senza cuore?”»

Illuminante del personaggio, è infine la frase che Cesare pare fosse solito dire nei suoi ultimi anni:

«La mia vita non è necessaria tanto per me quanto per lo Stato. Io sono ormai assurto da tempo al massimo della potenza e della gloria; ma lo Stato, se dovesse succedermi qualcosa, perderebbe la sua stabilità» (LXXXVI).

 

 

Col termine ambiguo di “cesarismo” si suole genericamente definire un regime politico personalistico, basato sul potere di un uomo ‘forte’, carismatico, dotato di consenso popolare, e ritenuto capace di porre fine ad una situazione di disordine sociale e di conflitto: va da sé che, nel loro sogno di potere, diversi politici abbiano recentemente aspirato od aspirino a ‘reincarnare’ in se stessi il ‘mito’ di Giulio Cesare, ed è altrettanto chiaro come il ritratto di Cesare qui delineato possa evocare suggestioni e sovrapposizioni di immagine.

Sennonché, se è giusto – come tributo al senso critico e alla Storia – ‘demitizzare’ Cesare e suggerirne  una valutazione più realistica, è altrettanto giusto dargli ciò che è suo, ovvero riconoscergli una oggettiva grandezza in campo militare e politico nonché in ambito letterario; e riconoscerne l’intelligenza, le doti oratorie, l’indiscutibile carisma, il coraggio, la determinazione, la lucidità.

Tutt’altra cosa sono quei personaggi odierni che, forti solo dell’arroganza del potere e del potere di propaganda dei mass-media, si mascherano da Cesare, convinti di poter ingannare gli altri con i loro travestimenti caricaturali.