È questo, sicuramente, il verso più famoso di tutte le commedie di Terenzio: citato già più volte da Cicerone, e poi da Seneca, da Sant’Ambrogio e da Sant’Agostino, finì progressivamente con lo staccarsi dal contesto originario, diventando una vera e propria sentenza, conosciuta nelle letterature dei diversi secoli ed utilizzata nei contesti più vari.

Nella commedia terenziana, vediamo il vecchio Menedemo che, per punirsi, lavora instancabilmente nel proprio campo, non riuscendo a perdonarsi di avere impedito le nozze di suo figlio: figlio che, in conseguenza del rifiuto paterno, è andato in Asia a combattere come mercenario. Suo vicino di casa è Cremete, che, vedendolo sfinirsi in quel modo, cerca di conoscere il motivo del suo comportamento per poterlo aiutare. «È vero che ci conosciamo da poco, – esordisce – cioè da quando hai comprato un campo qui vicino, e che fra noi non c’è stato niente di più; tuttavia, il fatto che tu sia un galantuomo e il nostro rapporto di vicinanza (cosa che per me assomiglia da vicino all’amicizia), mi inducono a parlarti francamente e in confidenza: perché mi pare proprio che tu lavori troppo per la tua età e per ciò che il tuo stato richiede» (vv.53-60). Alle sue successive domande e ai suoi consigli, Menedemo risponde seccamente: «Cremete, hai così tanto tempo libero da poterti impicciare degli affari altrui, e di cose che non ti riguardano per nulla?». Ed ecco che, a giustificazione della propria curiosità, Cremete, nel famoso verso, rivendica il proprio essere indiscreto, sulla base dell’assunto che gli uomini possono con diritto occuparsi di tutto ciò che riguarda altri uomini.

Generalmente interpretato come un elogio dell’essere uomo, o dell’umanità, il verso – come si può constatare – sembrerebbe essere più che altro un elogio della “indiscrezione”: di fatto, con le sue parole, Cremete cerca di legittimare quello che potrebbe apparire come un suo inopportuno eccesso di curiosità, in nome del principio che gli uomini possono occuparsi di tutto ciò che riguarda la sfera dell’umano.

Sennonché, dietro alla volontà di conoscere, c’è la volontà di capire ed aiutare l’altro: e dunque la comunicazione può pure travalicare i confini della discrezione in nome della comune umanità, laddove il ritrarsi, il non chiedere, il cauto riserbo altro non sarebbero che indifferenza. 

Possiamo allora affermare che, all’epoca di Terenzio, quando il sostantivo astratto humanitas non esiste ancora, questo verso ne sintetizza molto bene il concetto: l’humanitas si presenta come un valore collettivo, come il diritto/dovere dell’uomo di interessarsi agli altri uomini, di nutrire nei loro confronti sentimenti di condivisione e solidarietà.

Il sostantivo è attestato solo a partire dal I secolo a. C., e, non a caso, Cicerone, l’autore che più di ogni altro ha contribuito ad elaborare il complesso concetto di humanitas, sviluppandone ed ampliandone il significato, cita in ben tre passi il verso dell’Heauton timorumenos

Ci sono uomini – scrive nel De officiis (I doveri  I, 9, 30) – che, per prendersi cura del proprio patrimonio, o perché provano una certa avversione per gli altri uomini, affermano di attendere alle proprie occupazioni e pensano di non fare torto a nessuno. In realtà, è vero che evitano un certo tipo di ingiustizia, ma cadono in un altro, perché finiscono col trascurare il consorzio umano, non apportando nessun contributo di amore, né di cura, né di mezzi materiali. Due sono i generi di ingiustizia, ed occorre stabilire come comportarsi in ogni circostanza, evitando di cadere nell’egoismo, a partire dalla consapevolezza che non è facile prendersi cura degli altri. «Sebbene il personaggio terenziano Cremete – continua poi – “non reputi estraneo a sé nulla di ciò che è umano”, tuttavia, poiché percepiamo e sentiamo maggiormente le fortune e le sventure che capitano a noi rispetto a quelle degli altri, che vediamo comunque distanti, noi giudichiamo diversamente su di noi e sugli altri».

Nel De legibus (Le leggi, I, 12, 33), si legge  che, se gli uomini fossero tutti uguali nelle opinioni e nei giudizi così come lo sono per natura, e se, come dice il poeta, «non reputassero estraneo a sé nulla di ciò che è umano», allora il diritto sarebbe seguito ugualmente da tutti.

Infine, nel sottolineare la sostanziale comunità e uguaglianza degli uomini, che, tutti, costituiscono il “genere umano”, nel De finibus bonorum et malorum (Il sommo bene e il sommo male, III, 19, 63) Cicerone riecheggia la massima di Terenzio, affermando che è naturale la comune solidarietà degli uomini con gli uomini, così che un uomo non può apparire estraneo ad un altro uomo, per il semplice fatto che è un uomo. 

Come si può evincere dalle citazioni – e come peraltro è dimostrato da altri numerosissimi passi – in relazione al rapporto fra humanitas e valori morali Cicerone è molto chiaro: l’humanitas si configura come un principio morale oggettivo, contrapposto all’utile personale. Ma, oltre a questo, egli individua nell’humanitas una natura umana universale, sottolineando la sostanziale comunanza e uguaglianza degli uomini, di tutto il “genere umano”. 

Dal canto suo, Seneca, in una lunga epistola a Lucilio relativa alla felicità e all’agire (Epistulae, XCV, 53), affrontando fra gli altri il problema del comportamento da assumere con gli uomini, scrive: «Perché dovrei dire tutto ciò che va osservato e tutto ciò che va invece evitato, quando potrei usare questa breve formula per sintetizzare cosa sia il dovere umano? Tutto ciò che vedi, e in cui sono racchiuse le cose divine e umane, è un tutto unico: noi siamo membra di un grande corpo. La natura ci ha messo al mondo parenti, generandoci dai medesimi elementi e per i medesimi fini; la natura ci ha ispirato l’amore reciproco e ci ha fatto socievoli. La natura ha disposto ciò che è equo e giusto, e, secondo i suoi principi, è più miserevole nuocere che essere danneggiati; per suo comando, le mani devono essere sempre pronte a soccorrere chi ha bisogno. Ci sia sempre nell’animo e sulle labbra quel famoso verso “Sono un uomo: nulla di ciò che è umano io reputo estraneo a me”. Che i nostri beni siano comuni, perché in comune siamo nati. La nostra società è molto simile ad una volta di pietre, che, destinata a crollare se quelle pietre non si sostenessero vicendevolmente, si regge per questo loro sostegno reciproco». 

Un’eco del verso terenziano si ritrova anche in Sant' Ambrogio, nel suo De officiis ministrorum – I doveri dei ministri di Dio, strutturato sul modello del De officiis ciceroniano. Nell’affermare come, in tempi di carestia, non si possa rifiutare asilo agli stranieri, espellendoli dalle città proprio quando hanno più bisogno di soccorso, strappandoli alle parentele, negando loro beni che sono di proprietà comune, spezzando i nodi della fratellanza, Ambrogio afferma che gli animali non hanno nulla che assomigli alle proscrizioni, mentre l’uomo scaccia l’altro uomo; che gli animali dividono fra loro i nutrimenti che la terra concede e soccorrono i propri simili, laddove l’uomo li combatte, «quando invece non dovrebbe ritenere estraneo a sé tutto ciò che è umano» (III, 7, 45). 

Non può infine stupire la citazione terenziana in Sant’Agostino, all’interno delle cui opere il concetto di humanitas raggiunge appieno una dimensione universale: l’uomo è concepito come “il prossimo”, al di là di ogni appartenenza etnica; e tutti gli uomini vanno amati in quanto uomini; per amare Dio bisogna amare il prossimo come noi stessi. Nell’Epistola CLV, definendo cosa debba intendersi per “prossimo”, Agostino scrive che esso non indica chi ci è congiunto da rapporti di parentela, ma fa riferimento alla «comunanza della ragione che lega fra loro tutti gli uomini in un’unica società»: «Ecco perché – continua – anche il famoso autore comico […], in un dialogo che si immagina avvenuto fra due vecchi, fa dire ad uno di essi: hai così tanto tempo libero da poterti impicciare degli affari altrui, e di cose che non ti riguardano per nulla? Al che l’altro risponde: Sono un uomo: nulla di ciò che è umano io reputo estraneo a me. Si racconta anche –  conclude – che a quella battuta interi teatri, pieni di persone ingenue ed ignoranti, applaudissero: ché la comunanza degli animi umani toccava a tal punto il sentimento comune di tutti che ciascuno dei presenti si sentiva “prossimo" di qualunque altro» (4, 14). 

Gli applausi che, durante la rappresentazione della commedia, accoglievano le parole di Cremete perdurarono metaforicamente nei secoli, e, staccate dal contesto, quelle parole godettero di un successo tale da divenire proverbiali, subendo inevitabili slittamenti e variazioni di significato: dal riferimento immediato alla comunicazione, alla condivisione e alla solidarietà necessarie nel consesso umano, nonché alla sostanziale comunanza e uguaglianza degli uomini, passarono infatti ad indicare anche la fondamentale debolezza della natura umana, la difficoltà ad evitare errori e colpe, e la conseguente necessaria compassione; citate anche a significare la disponibilità ad aprirsi ad ogni esperienza, a non racchiudersi entro limiti preesistenti, a non sottrarsi all’infinita gamma delle esperienze umane, si legarono alla creatività e all’innovazione, trovando spazio in tutti i campi delle arti e delle scienze.

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Se questa  è senza alcun dubbio la più famosa citazione terenziana, anche altre, inerenti all’essere umani, alla vita personale e a quella sociale, meritano di essere ricordate: tenendo ovviamente presente che il loro significato originario non può non essere contestualizzato. 

Sempre nell’ Heauton timorumenos si legge ad esempio:

- «La natura umana è fatta così: tutti vedono e giudicano le cose altrui meglio delle proprie. Perché va così? Forse perché in una cosa che riguarda noi siamo condizionati dalla troppa gioia o dalla sofferenza?» (vv. 503-506).

- «Nessun problema è così difficile da non poterne venire a capo esaminandolo attentamente» (v. 675).

- «Nessuna cosa è così facile da non diventare difficile se fatta malvolentieri» (vv. 805-806).

 

Nell’Andria (La ragazza di Andro):

- «Ai nostri giorni, l’adulazione ti procura amici, la verità genera odio» (vv. 67-68).

- «Quando l’animo è in preda al dubbio, in un attimo è spinto da una parte o dall’altra» (v. 267).

- «Dal momento che non può accadere ciò che vuoi, cerca di volere ciò che è possibile» (vv.305-306).

- «È facile per chi sta bene dare buoni consigli a chi sta male» (v. 309).

 

Nell’Eunuchus (L’eunuco):

- «All’uomo saggio si addice tentare di tutto prima di usare le armi» (v.789).

 

Nel Phormio (Formione):  

- «Quanto è ingiusto che al mondo chi meno ha debba sempre dare a chi è più ricco!» (vv. 41-42).

- «Tutti, quanto più le cose vanno bene, tanto più dovrebbero riflettere su come far fronte alle disgrazie, ai pericoli, ai malanni, all’esilio: chi torna da un viaggio pensi sempre che una colpa del figlio, o la morte della moglie, o una malattia della figlia sono cose di tutti i giorni, che possono capitare, in modo tale da non essere colto di sorpresa. E, se poi qualcuno dei tanti mali possibili non si avverasse, lo consideri un guadagno» (vv. 241-246).

- «Non si tende la rete al nibbio o allo sparviero, che sono pericolosi: la rete si tende agli uccelli innocui, perché da loro si può cavare qualcosa, mentre con gli altri è una perdita di tempo»   (vv. 330-332).

 

Nell’Hecyra – La suocera:

- «A tutti noi, a seconda delle circostanze, capita di sentirsi grandi o umili» (v.380).

 

Negli Adelphoe (I fratelli):

- «È meglio tenere a freno i figli col rispetto e l’indulgenza piuttosto che con la paura […] Chi fa il proprio dovere costretto dal timore del castigo, finché pensa che la cosa si verrà a sapere ci va cauto, ma, se spera di tenerla nascosta, riprende le sue vecchie abitudini» (vv. 57-71).

- «Questo è il compito di un padre: abituare il proprio figlio ad agire rettamente di sua volontà, piuttosto che per paura di qualcun altro. Questa è la differenza che c’è fra un padre e un padrone» (vv. 74-76).

- «Non c’è nulla di peggio di un ignorante che reputa giusto solo ciò che fa lui» (vv. 98-99).

- «Tu ne sei il padre naturale, io gli sono padre perché lo educo» (v. 126).

- «Non curarsi dei soldi quando è il momento è a volte il più grande dei guadagni» (v.216).

- «Quando ne hai bisogno, ti fa piacere ricevere aiuto da chiunque te lo offra; ma, alla fin fine, fa più piacere se a farti del bene è la persona giusta» (vv. 254-255).

- «Essere saggi significa non vedere soltanto ciò che ti sta davanti ai piedi, ma prevedere anche ciò che accadrà» (vv. 386-387).

- «[…] a meno che tu non creda che io appartenga a quella categoria di uomini che si reputano offesi se chiedi loro di riparare ad una offesa che ti hanno arrecato, e per giunta ti lanciano accuse» (vv. 594-596).

- «La vita degli uomini è come una partita a dadi: se, gettandoli, non ottieni il punteggio di cui hai assoluta necessità, devi destreggiarti con quello che ti è toccato in sorte» (vv.739-741).

- «Tirando le somme, a nessuno è andata così bene nella vita da far sì che la realtà delle cose, l’età e l’esperienza non gli portino sempre qualcosa di nuovo e non gli insegnino sempre qualcosa: così che quello che credevi di sapere non lo sai e le cose che consideravi le più importanti alla prova dei fatti arrivi a rifiutarle» (vv. 855-858).

 

Degni di nota sono infine i vari detti proverbiali o modi di dire che Terenzio cita in vari contesti e spesso in chiave critica, con una denuncia latente della ‘immorale’ ‘morale’ spicciola.

Nell’Andria:

- «Verum illud verbum est, vulgo quod dici solet, omnis sibi malle melius esse quam alteri – È vero quel proverbio che il popolo usa ripetere, che tutti preferiscono che vada bene a sé piuttosto che ad un altro – che ognuno antepone il proprio vantaggio a quello altrui» (426-427).

- «Sic ut quimus, aiunt, quando ut volumus non licet – Stiamo come si può, come si dice, dato che non si può stare come si vuole» (v.805).

 

Nell’Heauton timorumenos:

- «Vulgo audio dici diem adimere aegritudinem hominibus – Sento ripetere dal popolo che il tempo allevia i dolori degli uomini» (vv. 421-422).

- «Quid si redeo ad illos qui aiunt “quid si nunc caelum ruat”? – E se io mi rifacessi a quelli che dicono “E cosa facciamo se ora ci casca addosso il cielo?» (v. 719).

- «Verum illuc […]dicuntIus summum saepe summa est malitia” – È proprio vero il detto “Somma giustizia è spesso somma frode”» (v. 795-796). ).

 

Nell’ Eunuchus:

- «Verbum hercle hoc verum erit Sine Cerere et Libero friget Venus” – Accidenti, deve essere vero il detto “Senza Bacco e senza Cerere resta fredda Venere”» (v.732).

 

Nel Phormio:

- «Venere in mentem mi istaecNamque inscitia est advorsum stimulum calces” – Mi hai fatto venire in mente il proverbio “È da stupidi prendere a calci un pungolo”» (vv.77-78).

- «Actum - aiunt - ne agas – Come si dice “Non curarti di compiere ciò che è già compiuto” ovvero “Lascia stare ciò che non puoi cambiare”; “cosa fatta capo ha”» (v. 419). ».

«Verum ita est, quot homines tot sententiae – È proprio vero il detto “Quanti uomini altrettante sentenze”» (vv.453-54).

«Id quod aiunt, auribus teneo lupus – Come si suol dire, “Tengo il lupo per le orecchie”» (v. 506).

 

Negli Adelphoe:

 - «Vetus verbum hoc quidem est, communia esse amicorum inter se omnia – Un vecchio detto afferma che tutte le cose degli amici sono comuni – che tra amici si divide tutto» (vv. 803-804).

 

Se i detti e i proverbi ricordati sono accompagnati da aiunt, dicunt, verbum hoc, vetus verbum, verum est, vulgo audio dici, venere in mentem mihi istaec, ed espressioni simili, che chiariscono la loro ripresa dalla tradizione orale, presentano caratteristiche simili anche alcune frasi non introdotte o seguite da alcuna ‘formula’, come ad esempio:

- «Amantium irae amoris integratio est  Le liti degli amanti ne rinnovano l’amore» (Andria, v. 555).

 - «Proximus sum egomet mihi – Per me il mio prossimo sono io» (Andria, v. 636).

- «Quod fors feret feremus aequo animo – Sopporteremo di buon animo ciò che la sorte ci riserverà» (Phormio, 138).

- «Fortes fortuna adiuvat – La fortuna aiuta i forti ( Phormio, 203).

- «Tute hoc intristi, tibi omne est exedendum – Tu hai mestato il pasticcio e tu devi ingozzartelo tutto – Tu hai combinato il pasticcio e tu devi risolverlo da solo» ( Phormio, 318).

 

Mentre i proverbi finora citati sono tutti più o meno immediatamente comprensibili, risulta invece particolarmente oscuro quello riportato al v. 768 del Phormio  («Ita fugias ne praeter casam, quod aiunt»), non a caso variamente interpretato nel corso dei secoli, a partire dal grammatico Elio Donato nel suo Commento a Terenzio, del IV secolo.

La commedia, il cui intreccio è abbastanza complesso, vede come protagonisti principali i due vecchi fratelli Cremete e Demifone, i lori rispettivi figli Fedria e Antifone, il servo Geta, nonché, ovviamente, il parassita Formione. In assenza dei padri, la custodia di Fedria e Antifone è affidata a Geta: sennonché, i due giovani sono entrambi invischiati in amori impossibili, e Geta si sente in dovere di aiutarli. Fedria è innamorato di una suonatrice di cetra, al servizio di un lenone, e deve trovare il denaro per riscattarla; Antifone ha conosciuto la giovane Fanio, libera, ma povera e di modesti natali, appena rimasta orfana di madre, e se ne è innamorato perdutamente, tanto da volerla sposare. Spacciando Antifone per un parente stretto di Fanio, attraverso un cavillo giuridico il parassita Formione riesce a far sposare i due giovani, ma, col ritorno di Demifone, iniziano i guai: il vecchio non approva infatti il matrimonio del figlio e vuole chiederne lo scioglimento. Nel frattempo, torna a casa anche Cremete, che, per ragioni sue, disapprova ugualmente il matrimonio del nipote: anni prima, nell’isola di Lemno, egli, presentandosi peraltro sotto falso nome, ha avuto infatti una figlia illegittima, di cui la moglie attuale non sa nulla, e, onde evitare troppe spiegazioni sull’origine della ragazza, vorrebbe dare la ragazza in moglie ad Antifone. In tutto questo, Geta non cessa di darsi da fare per aiutare anche Fedria, oltre ai due giovani sposi, tessendo un complicato imbroglio alle spalle dei due vecchi padri con la complicità di Formione: un imbroglio che porta soldi nelle tasche di Formione stesso. Demifone e Geta sono appena tornati dall’aver pagato il parassita, ed è a questo punto che Demifone, rivolgendosi a Geta, dice: «Se i disonesti ci guadagnano ad essere tali, è tutta colpa nostra, che ci teniamo ad essere considerati buoni e amorevoli. Ita fugias ne praeter casam, quod aiunt; non bastava forse ricevere un torto da lui? In più, gli si è dato anche del denaro, perché abbia di che vivere e intanto commetta una qualche altra azione vergognosa». Il proverbio – di cui non è dato trovare altra attestazione – parrebbe dunque alludere al comportamento incauto di chi, per rimediare ad un danno, finisca con l’incorrere in uno maggiore; o, con un leggero spostamento del punto di vista, potrebbe riferirsi ad una situazione in cui chi abbia subito un torto finisca col favorire chi glielo ha fatto. Se la traduzione ‘letterale’ del detto latino è abbastanza semplice – «Scappa pure, a condizione, come si suol dire, di non passare davanti a casa» –, non altrettanto semplice ne è il significato, tanto che, nel tempo, si sono susseguite interpretazioni diverse. Non è del tutto scontato, innanzi tutto, alla casa di chi il detto voglia alludere, se cioè si debba interpretare: “Scappa pure, a condizione di non passare davanti a casa tua”, o “Scappa pure, ma non passare davanti alla casa di chi ti sta inseguendo”. E, se nel secondo caso il consiglio sarebbe chiaramente quello di evitare di “finire nella tana del lupo”, nel primo caso, le interpretazioni sarebbero – e sono state – diverse: “Scappa pure, a condizione di non passare davanti a casa tua, conducendo proprio lì il tuo inseguitore”; oppure “Scappa pure, ma non oltrepassare casa tua, che è il luogo di rifugio più sicuro”; o ancora «Scappa pure, ma non allontanarti tanto da perdere di vista la tua casa.

Per parte mia, pur nell’assenza di certezze, due sono le interpretazioni che, considerando il contesto, mi appaiono più convincenti (la seconda, forse, più della prima): “Scappa pure, ma evita di finire nella tana del lupo”, che riconduce palesemente al comportamento incauto di chi, cercando di rimediare ad un danno, finisce col cadere per così dire “dalla padella nella brace”; “Scappa pure, a condizione di non passare davanti a casa tua, conducendo proprio lì colui dal quale stai scappando, e finendo dunque col favorirlo”, che rispecchia di fatto il comportamento nei confronti di Formione rimproverato a se stesso da Demifone.