Il termine “cultura” ha una portata vastissima, arrivando ad essere, in senso lato, sinonimo di civiltà: esso può infatti comprendere ogni aspetto dell’ambiente sociale e fisico dell’uomo, così come l’uomo l’ha costruito, lo costruisce, lo utilizza. In questo senso, ‘cultura’ coincide con l'intera operosità dell'uomo in quanto intenzionale e intelligente, con la disposizione a comunicare con gli altri, con la capacità propriamente umana di conferire significati sempre nuovi e più ricchi alle cose e alle situazioni.

C'è presenza culturale negli atti e nei progetti della vita quotidiana, come nelle più raffinate e formalizzate elaborazioni intellettuali. La cultura – di un popolo o di un’epoca – è formata dunque da innumerevoli elementi ideologici e materiali: costume, filosofia, etica, arte, religione, diritto, letteratura, ma anche forme di elaborazione scientifica e tecnica, sistemi organizzativi, vita quotidiana, economia, modi produzione. Ciò significa che, ovviamente, rientrano nella cultura la filosofia, l’etica, l’arte nelle sue varie forme espressive, la religione, il diritto, vari elementi antropologici, ecc., e ne fanno anche parte a pieno titolo tutti gli aspetti della vita quotidiana: dall’acquisizione degli alimenti e delle materie prime alla produzione e all’organizzazione tecnica del lavoro; dagli insediamenti abitativi ai trasporti e al commercio e alle comunicazioni; dalla sanità all’igiene e alle condizioni di vita generali e alle modificazioni inflitte dall’uomo all’ambiente naturale: tutti quei molteplici aspetti della vita quotidiana, insomma, che fanno parte della cosiddetta cultura materiale.

 

Per quanto concerne l’acquisizione degli alimenti, abbiamo già avuto occasione di affermare che «ogni nostro cibo o bevanda ha una storia antichissima, sopravvissuta ai secoli, che trova nell’antica Roma i suoi più diretti antenati»; così come abbiamo sostenuto che conoscere questa storia «non solo ci pone nella condizione di ‘assaporare’ a pieno la nostra quotidianità, ma ci permette di cogliere la permanenza del passato nel nostro presente, ci consente di valorizzare le nostre tradizioni e la nostra cultura alimentare, e contribuisce così alla formazione della nostra coscienza storica» (Parliamo di cibo. Dal Garum ai fichi).

Nel cercare di realizzare quella che potremmo chiamare la storia del fico dai secoli della latinità ad oggi, abbiamo già parlato de La pianta del fico nel mito di fondazione di Roma, così come abbiamo ricostruito La presenza del fico in miti, leggende, credenze, superstizioni e aneddoti, soffermandoci anche sull’associazione simbolica del frutto con l’organo sessuale femminile (Il fico fra religione e oscenità).

Nel farlo, abbiamo avuto modo di ‘incontrare’ i fichi marisca, i fichi di Cauno, i fichi africani, ovvero tre diverse specie di frutti e di piante:  il che induce in qualche modo a deviare il discorso sulla cultura materiale e a chiedersi quali e quante qualità di fichi arrivassero sulla tavola degli antichi romani, quale cultura agricola fosse dietro alla coltivazione di questo albero da frutta, quale sia il segno lasciato  da questa cultura nell’odierno patrimonio agri-culturale.

 

Agli inizi del V secolo d. C., un elenco di varietà di fichi ci veniva trasmesso da Macrobio, che nei Saturnali (III, 20, 1), scriveva: «Anche i fichi secchi mi invitano ad enumerare le diverse specie di questo frutto, sempre guidato, per questo come per gli altri, da Cloazio. Ecco l’elenco che egli fa, con la sua solita precisione, dei diversi fichi: l’africano bianco, il fico di canna, l’asinastro nero, il fico di palude, l’Augusto, il fico che matura due volte all’anno, il fico di Caria, il fico bianco e nero della Calcide, il fico bianco e nero di Chio, il fico bianco e nero calpurniano, il fico a forma di zucca, il fico dalla buccia dura, il fico di Ercolano, il liviano, il fico di Lidia, il piccolo fico di Lidia, il fico dei Marsi, il fico bruno di Numidia, il primaticcio pompeiano, il tellano nero (Africa albula, harundinea, asinastra atra, palusca, Augusta, bifera, Carica, Chal<ci>dica alba nigra, Chia alba nigra, Calpurniana alba nigra, cucurbitiva, duricoria, Herculanea, Liviana, Lydia, leptolydia, Marsica, Numidica pulla, Pompeiana praecox, Tellana atra)».

Se, attraverso il grammatico latino Cloazio, Macrobio ci riporta all’epoca di Augusto, ancora più lungo è l’elenco che ci viene fornito dalla Storia naturale di Plinio il Vecchio:

«Delle altre specie di frutti il fico è il più grosso, e talvolta gareggia in dimensioni anche con le pere. Delle meraviglie del fico egizio e del fico di Cipro abbiamo già parlato trattando degli alberi esotici. Il fico dell’Ida è rosso, ha le dimensioni di un’oliva, soltanto più rotondo, e ha il gusto della nespola. Viene là chiamato fico alessandrino […]. Onesicrito (filosofo e storico greco del IV secolo a. C.) riferisce che in Ircania (regione a sud del Mar Caspio) i fichi sono molto più dolci e le loro piante molto più fruttifere che da noi, se è vero che ciascuna produce duecentosettanta moggi di fichi. Da altri paesi, dalla Calcide, da Chio, ne sono stati importate da noi numerose specie: i fichi di Lidia, che sono violacei, e, simili a loro, le mamillane, e poi i callistruti (callistruthiae), dalla polpa di non eccellente sapore e i più freddi al gusto fra tutti i fichi. Attorno ai fichi africani, che molti preferiscono a tutti, c’è una grossa discussione, perché questa specie è stata introdotta in Africa in tempi abbastanza recenti. Fra i fichi neri, traggono il nome dalla terra di origine gli alessandrini, dalle crepe biancheggianti, che godono dell’appellativo di ‘fichi gentili’. Neri sono anche i fichi di Rodi e, fra i primaticci, i fichi di Tivoli (tiburtini). I fichi possono anche avere il nome dei loro estimatori, come quelli di Livia (liviani) e di Pompeo (pompeiani). Questi ultimi, i fichi pompeiani, sono i più adatti ad essere essiccati al sole per l’uso annuale, assieme ai fichi marisca e a quelli variegati a macchie come le foglie delle canne. Ci sono poi il fico di Ercolano, e l’albicerato, e l’arazia bianca (arateo bianco) col suo picciolo cortissimo e la sua forma molto allargata. Il più precoce è il porfiritide, col suo picciolo lunghissimo; lo segue, fra i piccolissimi e di pochissimo valore, quello chiamato ‘fico popolare’; matura al contrario per ultimo, quasi in inverno, il chelidonio. Vi sono inoltre delle specie che sono al medesimo tempo tardive e precoci, che danno due raccolti all’anno, che producono fichi bianchi e neri che maturano al tempo della mietitura e a quello della vendemmia; fichi tardivi che prendono il nome dalla loro buccia dura, alcuni dei quali, originari della Calcide, di triplice fruttificazione. Solo a Taranto nascono dei fichi dolcissimi chiamati onae. Riguardo ai fichi, Catone ricorda: “pianterai le marische in terreno argilloso o aperto, in terreno più grasso o concimato i fichi africani e i fichi di Ercolano, i fichi invernali, i tellani neri dal picciolo lungo”. In seguito si sono aggiunti tanti nomi e specie che, anche considerando solo ciò, appare chiaramente come la vita sia cambiata» ( XV, 19).

 

Dai passi di Macrobio e di Plinio si evince chiaramente come tutta una serie di specie non fossero autoctone, ma fossero state importate dalla Grecia e dalle sue isole, dalla Turchia, dal Nordafrica; la frase conclusiva del passo pliniano accenna poi all’aumento delle specie, chiaramente importate, frutto di innesti o di tecniche particolari, come quella descritta subito dopo: «Esistono anche fichi invernali in alcune province, come ad esempio in Mesia (territorio più o meno corrispondente alle odierne Serbia e Bulgaria), ma sono frutto di artificio e non della natura. Si tratta di piccoli alberi che, dopo l’autunno, vengono ricoperti di concime assieme ai fichi acerbi (i cosiddetti grossi, destinati a non giungere a maturazione) che l’inverno vi trova sopra; quando il clima si addolcisce, grossi e alberi vengono liberati dal concime, e, riportati alla luce, accolgono avidamente, come se fossero nati una seconda volta, i giorni di sole nuovi e diversi da quelli durante i quali hanno già vissuto: maturano così quando inizia la fioritura di fichi successivi, caratterizzandosi come precoci in un’annata non rispondente alla loro natura e soprattutto in una regione freddissima».

 

Nell’età dell’alta e media repubblica, troviamo ricordate le varietà dei fichi in Catone, e, più precisamente, nell’Agricoltura (De agri cultura), un trattato che, coi suoi centosessantadue capitoli, costituisce una sorta di precettistica del comportamento di un proprietario terriero. Al capitolo VIII, si legge: «Pianta i fichi del tipo marisca in terreno argilloso e aperto; gli africani, gli ercolanesi, i saguntini, gli invernali, i tellani neri dal peduncolo lungo in terreno grasso o ben concimato». Dunque, all’epoca, nel II secolo a. C., non si conoscevano molte varietà del nostro frutto, dal momento che Catone ne menziona soltanto sei.

 

Nel periodo cesariano, a parte un accenno di Cicerone ai fichi di Cauno (Divinazione II, 40, 84), a distanza di più di un secolo da quello di Catone, nuove informazioni ci giungono dal trattato De re rustica di Varrone, composto di tre libri (sull’agricoltura, sugli armenti e la pastorizia, sugli altri animali da podere e le api e i pesci). È nel primo libro che Varrone ci parla dei fichi, nominando in due occasioni i fichi marisca (I, 6 e 9) e in una i fichi sabini (I, 67), ma, soprattutto, spiegando quali sono i modi per piantare le ficaie: «È dunque meglio – scrive – formare un vivaio di fichi coi germogli di fico, che interrare i grani, a meno che non si possa fare diversamente, come quando c’è necessità di spedire oltremare le semenze o farle trasportare da lì. Allora si infilzano su una cordicella i fichi maturi, pronti da mangiare, e quando sono secchi si avvolgono e si spediscono dove si vuole: qui verranno poi interrati in un vivaio a che germoglino. In tal modo sono stati portati in Italia i fichi di Chio, della Calcide, della Lidia e dell’Africa, e tutte le altre qualità d’oltremare» (I, 41). In quest’ultimo  passo, come si può facilmente notare,  Varrone apre per così dire una finestra sul commercio delle numerose varietà di fichi importati per essere poi messi a dimora in Italia.

 

In età augustea, Ovidio accenna ai fichi di Caria secchi (rugosa carica), affermano che sono considerati doni augurali – così come i datteri e il miele – per la loro dolcezza (Fasti I, 2, v. 185); ma, come del resto appare ovvio, le informazioni sulle varietà di fichi conosciute dai Romani, così come sulla coltivazione delle piante, le pratiche di innesto, l’utilizzo dei loro frutti, la loro conservazione ecc., ci vengono nuovamente fornite da un trattato sull’agricoltura, o meglio dal più importante trattato di agricoltura trasmessoci dal mondo romano, ovvero dal Il De re rustica di Columella.

Parlando dei fichi, Columella consiglia di coltivare soprattutto «le qualità liviana, africana, calcidica, le sulcae (sul termine c’è un lungo dibattito filologico e c’è chi sostiene che vada corretto in faliscae o in mariscae), i fichi della Lidia, i callistruti, le topiae (termine forse da emendare in chiae), i fichi di Rodi e della Libia, e i fichi invernali, come pure tutti quelli che fruttificano due o tre volte all’anno» (V, 10). Ancora, in X, 1, ai vv. 414-418, parlando dei tempi di maturazione dei fichi, nomina il fico liviano, che gareggia con quelli della Calcide e di Cauno e di Chio ; e poi ancora «i porporini chelidoni, i pingui marisca, il callistrutio che sogghigna col roseo seme; il bianco, a cui dà tuttora il nome la bionda cera (l’albicerato); e il fico spaccato della Libia, e quello lidio dalla superficie dipinta».

 

Risalgono alla prima età imperiale i riferimenti alle diverse specie presenti in Seneca il Vecchio, Seneca, Petronio, Stazio, Marziale, Giovenale, Frontone, e naturalmente il già citato Plinio il Vecchio

Seneca il Vecchio (Suasorie, II, 17), parlando di un tale che voleva avere tutto grande, scrive che, per lui, i fichi dovevano essere solo della varietà marisca.

Nell’Epistola a Lucilio 87, sul superfluo e sulla facilità di rinunciarvi, Seneca scrive: «Quanto al pranzo, tutto è ridotto al minimo indispensabile; è pronto in un'ora, non mancano mai i fichi di Caria (caricis), mai le tavolette per scrivere; questi fichi, se ho il pane, fanno da companatico, se non ce l'ho, fanno da pane» (3).

Petronio colloca dei fichi d’Africa (ficum Africanam) nell’originale trionfo servito alla cena di Trimalchione (35). Si tratta di un trionfo rotondo, che presenta, in cerchio, i dodici segni zodiacali, e sopra ciascuno di essi è posto il particolare cibo corrispondente al segno stesso. I fichi africani si trovano sopra al segno del Leone: e, se pure è vero che le corrispondenze fra segno zodiacale e cibo sono piuttosto stravaganti, i fichi d’Africa sembrano sicuramente instaurare un parallelismo fra il frutto di un paese caldo come l’Africa e la costellazione del Leone, visibile nel periodo più caldo dell’anno. Al capitolo 44, scagliandosi contro un magistrato edile, incapace di far fronte alla siccità e alla carestia, il liberto Ganimede lo definisce trium cauniarum: ovvero del valore di tre fichi di Cauno. Al capitolo 69, infine, invitando Plocamo a raccontare qualcosa di divertente, Trimalchione fa riferimento ai fichi di Caria: «Non hai in serbo niente per farci divertire? Di solito eri più brillante, canterellavi i recitativi ch’era una bellezza e ci mettevi anche le arie. Ahi ahi, dolci fichi della Caria, non ci siete più (abistis dulces Caricae)!».

Di un globus cottanorum (dunque una sorta di “palla di fichi cottani”) parla Stazio, in relazione ai doni legati alla festa dei Saturnali (Selve IV, 9, 27-28); sempre nelle Selve, un riferimento ai fichi di Cauno potrebbe essere presente in un passo peraltro controverso (I, 6, 15).

Fichi di diverse varietà sono presenti in numerosi epigrammi di Marziale, che ai fichi di Chio ne dedica addirittura uno, intitolato appunto Ficus Chiae, asserendo che questo fico «è simile al vino invecchiato di Sezze: porta con sé il gusto del vino e il piccantino del sale» (XIII, 23). I fichi di Chio sono presenti anche negli Epigrammi VII, 25 e XII, 96, in cui vengono accostati ai fichi marisca: e da entrambi si evince come i marisca non fossero per il poeta particolarmente apprezzabili. Il primo dei due epigrammi recita infatti: «Dà ai bambini mele nane e insipidi fichi marisca; per me, ha sapore il fico di Chio, che sa pungere». Nel secondo, che invita le matrone a non essere gelose dei giovani servitori, capaci di dare ai mariti ciò che esse come mogli non vogliono loro dare, e a non sostenere di dare anch’esse, perché non si tratta della stessa cosa, Marziale si esprime metaforicamente così: «Voglio un fico di Chio, non voglio un fico marisca: a che tu sappia qual è il fico di Chio, il tuo è un fico marisca. Una matrona e una donna deve conoscere i propri limiti: concedi ai giovanetti la loro parte, godi della tua». I fichi marisca compaiono anche in XI, 18: descrivendo la piccolezza del podere che l’amico Lupo gli ha donato, Marziale annota infatti come in esso nemmeno quei fichi possano essere prodotti. «Fichi provenienti dalla Libia, in un vaso di terracotta tenuto al freddo (ficus Lybica gelata testa)» sono enumerati fra i doni modesti ricevuti per i Saturnali da tale Sabello, e di cui Sabello stesso si vanta, nell’epigramma 46 del libro IV; l’epigramma 88 del medesimo libro IV contiene invece una lamentela del poeta nei confronti di un tale che, in occasione dei Saturnali, e per ricambiare un suo dono, non si è degnato di regalargli niente di niente, nemmeno un vaso di terracotta (testa) contenente «minuscoli cottani (cottana parva)»; di miseri doni ricevuti si parla invece nell’epigramma 53 del libro VII, dove fra i doni compaiono anche «minuscoli fichi cottani con susine bianche e un vaso di terracotta (testa) pesante pieno di fichi Libici»; ad un contenitore di cottani (Vas cottanorum) è infine dedicato l’epigramma 28 del libro XIII, in cui si legge che «Se questi cottani, arrivati a te riposti in un cesto intrecciato a forma di cono (torta condita meta), fossero più grandi, sarebbero dei fichi».

Di cottani, oltre che di marisca, parla anche Giovenale nella sua terza Satira, ai vv. 81-83: nel lamentarsi per l’invasione di stranieri piovuti a Roma da tutte le terre dell’Oriente, l’amico del poeta, Umbricio, afferma di essere costretto a lasciare la città, per non essere costretto a vedersi scavalcato da «uno di costoro, portato a Roma dallo stesso vento con cui sono portati fichi cottani e prugne».

Di fichi pompeiani (ficus Pompeiana) parla Frontone, associandoli a legumi di Ariccia, rose di Taranto, boschetti ameni, boschi fitti e frondosi, platani ombrosi: cose assenti nel vasto podere di un agricoltore laborioso e accorto, dove tutto è rivolto all’utile piuttosto che al piacere, e dove si coltivano soltanto grano e viti, raccogliendone i frutti più belli e le messi più abbondanti (Epistole, II, 10 – M. Aurelius Caesar consuli suo et magistro salutem).

 

E concludiamo con Plinio, che dei fichi e delle loro varietà non parla solo nel lungo passo in cui ne tratta specificatamente, fornendo il lungo elenco di nomi che abbiamo già visto (XV, 19), ma anche altrove. Riferendosi agli alberi della Siria, nomina infatti i fichi di Caria e i cottani (XIII, 10); nel capitolo 19 del libro XIV, fra i numerosi vini ‘artificiali’, ricorda anche il vino di fichi chiamato sycites –  o pharnuprium o catorchites  –, che si faceva macerando in acqua i frutti maturi e procedendo poi alla spremitura, oppure, perché non fosse troppo dolce, macerando i fichi con vinacce al posto dell’acqua; contestualmente, aggiunge che con i fichi di Cipro si produceva un ottimo aceto, ancora migliore di quello fatto col fico di Alessandria); in XVI, 41, racconta della abbondante produzione di fichi in Tessaglia, Macedonia e soprattutto Egitto; in XVI, 49, a proposito dei fichi primaticci o precoci, ricorda i fichi laconici, chiamati ‘prodromi’ ad Atene. Il discorso organico sui fichi, iniziato al capitolo 19 del libro XV, prosegue infine al capitolo 21, la cui parte iniziale riguarda fondamentalmente il caprifico, che non porta mai i suoi frutti a maturazione, e il suo ruolo di ‘protezione’ per i fichi ‘veri’. «Esso – vi si legge – produce delle 'zanzare' che, private del nutrimento sull’albero genitore… migrano verso gli alberi affini»: mordicchiando i frutti e penetrando al loro interno, fanno sì che con essi entri anche il sole con la sua luce e il suo calore. Queste 'zanzare' aiutano inoltre a far sì che scompaia l’umore lattiginoso, segno dell’immaturità del frutto. È per questo motivo che nelle piantagioni di fichi si pianta anche un caprifico, tenendo conto della direzione del vento, in modo che il suo soffio conduca le 'zanzare' sui fichi; e si è escogitato anche il metodo di gettare sugli alberi di fichi dei rami di caprifico legati fra loro. Quanto ai fichi, vi si afferma che tutti sono morbidi al tatto e, quando sono maturi hanno al loro interno dei granelli; il loro succo è lattiginoso in corso di maturazione, ma simile al miele nei frutti maturi. I fichi pregiati sono fatti seccare e conservati in cassette: i migliori e più grandi sono quelli dell’isola di Ebusa (Ibiza); subito dopo vengono quelli della regione dei Marrucini (corrispondente ad una zona costiera dell’attuale Abruzzo). Quando c’è abbondanza di frutti, se ne riempiono giare in Asia, barili nella città africana di Ruspina (Monastir), e, seccati, possono al contempo fare le veci del pane e del companatico: non a caso Catone, fissando con una sorta di legge le razioni alimentari per i lavoratori agricoli, stabilisce che le razioni siano diminuite nel periodo della maturità dei fichi (il riferimento è al capitolo LVI del De agri cultura, in cui, riguardo alle razioni alimentari destinate ai vari lavoratori, si fissa quella degli schiavi in catene a quattro libbre di pane durante l’inverno, cinque libbre da quando cominciano a vangare il vigneto fino alla maturazione dei fichi, e poi di nuovo quattro). Recentemente ci si è inventati di mangiare il formaggio coi fichi freschi al posto del sale: si mangiano preferibilmente i cottani, e poi i fichi della Caria e quelli di Cauno, varietà che, provenienti dalla Siria, furono introdotte nel suo podere di Alba da Lucio Vitellio (governatore in Siria dal 34 al 37 d. C.), negli ultimi anni dell’impero di Tiberio. Al capitolo 34, infine, si annota come dei fichi di Caria si gusti anche la buccia, che, solitamente, viene tolta ai fichi freschi, mentre è molto apprezzata in quelli secchi.

 

Come si è già avuto modo di osservare, e come si può facilmente evincere dall’insieme delle fonti fino a qui esaminate, il maggior numero di informazioni sulle varietà di fichi conosciute dai Romani, così come, del resto, su tutto quanto attiene alla coltivazione e alla propagazione delle piante nonché all’utilizzo dei loro frutti, è reperibile – oltre che in opere a carattere enciclopedico come La storia naturale di Plinio o i Saturnalia di Macrobio – nella produzione letteraria dedicata all’agricoltura, ovvero nei trattati di Catone, Varrone, Columella.

L’ultimo agronomo romano è, nel IV secolo d. C., Rutilio Tauro Emiliano Palladio, con i suoi quattordici libri dell’Opus agriculturae, o De re rustica: composto di quattordici libri, il primo dei quali funge da introduzione generale, è organizzato per mesi (II-XIII), con un poemetto conclusivo intitolato De insitione e completamente dedicato agli innesti (XIV). Riservata al fico è fondamentalmente una parte del capitolo 10 del libro IV (dedicato ai lavori da svolgere nel mese di marzo). Parlando di luoghi, clima, piantagione, innesti, modi di propagazione, varietà, essiccazione, accorgimenti per migliorare la qualità dei frutti e la loro maturazione, caprificazione, rimedi contro insetti e malattie della pianta, Palladio offre una sintesi della precedente produzione agronomica, soffermandosi soprattutto sugli innesti e sulla conservazione dei frutti: nulla ci dice invece sulle varietà coltivate, la cui disamina non rientrava evidentemente nel piano della sua opera.

 

In ogni caso, le varietà di cui le fonti ci riferiscono sono innumerevoli: alcune compaiono una sola volta (come ad esempio il fico di canna, l’asinastro, il fico di palude, il calpurniano, il laconico, o come i fichi di Ebusa, quelli dei Marrucini, quelli di Ruspina, o le mamillane, o i tiburtini, o le onae tarantine); altre, ugualmente presenti una sola volta, sono denominate in maniera talmente generica da non essere nemmeno identificabili come varietà specifiche (come ad esempio il fico che matura due volte all’anno – riconducibile a diverse varietà bifere –, o il fico a forma di zucca, o il fico dalla buccia dura, o il fico invernale); più o meno ripetutamente ricordati sono invece, nell’ordine, i fichi di Chio, i fichi di Caria, i marisca, gli africani, i cottani, i fichi della Calcide, quelli di Cauno e della Lidia, i tellani, i liviani, i fichi di Ercolano e quelli della Libia, i pompeiani, gli alessandrini, i callistruti, gli albicerati, i chelidoni, i saguntini, i fichi di Rodi e quelli di Cipro.

 

E veniamo ad oggi.

Cercare di capire quante e quali siano le varietà di fichi attualmente coltivate è un’impresa ardua, perché – come spesso accade per gli alberi di coltura secolare – il loro numero è immenso. Nei paesi che producono fichi in abbondanza, non c’è territorio che non abbia delle sue varietà particolari, altrove sconosciute: basti dire che, agli inizi dell’Ottocento, il botanico francese F. P. de Suffren, nel suo censimento dei fichi, limitato alla sola Provenza, ne riscontrava diverse centinaia di specie (Principes de botanique extraits des ouvrages de Linné et suivis d'un catalogue des plantés du Frioul et de la Carnia avec le nom des lieux ou on les trouve, Venezia, A. Rosa, 1802); il Dizionario delle scienze naturali (trad. dal francese, Firenze, V. Batelli e figli, 1830-1851, vol. XI, 1840), trattando delle varietà esclusivamente italiane, unifere e bifere che siano, ne descriveva accuratamente più di due decine, con numerosissime sottovarietà prevalentemente geografiche e con diverse denominazioni locali.

Una naturale curiosità potrebbe spingere ad indagare a quali delle nostre varietà conosciute corrispondano quelle ricordate dagli antichi, ma, a prescindere dal fatto che si tratterebbe di una ricerca abbastanza superflua, sarebbe un lavoro arduo, e dai risultati sicuramente incerti. Al riguardo, basti citare un passo tratto dalla Relazione intorno alle condizioni dell’agricoltura in Italia, del Ministero di Agricoltura Industria e Commercio del 1876, che, riferendosi al passo pliniano di XV, 21, relativo alle varietà introdotte nel suo podere di Alba da Lucio Vitellio (fichi cottani, della Caria e di Cauno), recita: «Pare che il fico dottato dei toscani, ottato dei Napoletani, non differisca da quello che Plinio dice portato di Siria da Lucio Vitellio nella sua villa di Alba, e che corrisponda al fico grascello del Mattiòli, al binellone della Spezia e di Chiavari, al binello o fico di Napoli dei Genovesi, al gentile di Voltri, al napoletano di Finale, al datterese o di Calabria della rimanente Liguria occidentale e finalmente al fico della goccia o della goccia d’oro delle colline dell’Appennino lombardo da Voghera fino a Bologna» (Roma, Tip. G. Barbera, vol. I, p. 435).

 

Fondamentale è comunque avere la consapevolezza che tutte le innumerevoli varietà oggi coltivate in Italia  (o quantomeno la maggior parte) sono di fatto una eredità proveniente dal mondo romano, dai mutamenti della sua cultura e della relativa cultura agricola prodottisi nel tempo: in concomitanza con l’espansione militare e politica di Roma, a partire dal II secolo a. C., e con un incremento via via più consistente, alle piante autoctone si aggiunsero in continuazione specie provenienti dalla Spagna, dalla Grecia e dalle sue isole, dalla Turchia, dall’Africa, dall’Asia, dalle regioni del basso Danubio… e queste specie sono in gran parte tuttora presenti sul nostro territorio, a testimonianza del fatto che i tratti di sostanziale continuità della nostra cultura rispetto a quella classica, bene evidenziabili ed evidenziati in ambito letterario, filosofico, politico, legale, religioso, artistico e, più genericamente, in campo antropologico, non devono e non possono escludere un rapporto di derivazione anche per quanto concerne gli aspetti di una più materiale e concreta quotidianità. Oltre che per le varietà delle piante, la medesima osservazione vale per l’abitudine di conservare i fichi essiccandoli, nonché – come avremo modo di constatare in seguito – per le tecniche e i modi di essicazione e conservazione; e vale anche per la sopravvivenza di alcune tecniche quali la caprificazione.

 

In ambito antropologico, una ulteriore eredità è riscontrabile all’interno della odierna tradizione culturale, che vede i fichi secchi comparire abitualmente fra i cibi e i doni del periodo di Natale e Capodanno. Le feste dei Saturnali (dedicate al dio dell’agricoltura Saturno), con i ripetuti riferimenti ai fichi che ci si scambiavano in dono nell’occasione, si svolgevano infatti dal 17 al 23 di dicembre, e il 25 di dicembre era la data in cui, a partire dagli inizi del III secolo d. C., si celebrava il Natalis Solis Invicti (Giorno di nascita del Sole invitto), ovvero  il solstizio d’inverno: tradizioni pagane entrambe molto sentite dal popolo, che, a partire dal IV secolo, furono in qualche modo fatte proprie dal Cristianesimo, sovrapponendo ad esse la festa per il Natale. E, se pure è vero che le strenne natalizie richiamano i doni dei pastori e dei re magi, è altrettanto vero che rimandano ai Saturnali i conviti, la ‘rappresentazione’ e la ‘rinascita’ di un antico senso di uguaglianza e fratellanza, e, soprattutto, la consuetudine di celebrare i doni della terra e di scambiarsi regali augurali di ogni genere (in particolare, non a caso, i cibi offerti dalla terra stessa).

 

Infine, a partire da una frase di Plinio, e approfondendone contenuto e contesto, possiamo renderci conto della eredità che il pensiero antico ci ha lasciato per quanto concerne il rapporto dell’uomo con la natura.

Nella seconda metà del I secolo d. C.,  dopo avere stilato un lunghissimo elenco di varietà di fichi, Plinio ricordava Catone – che, a suo dire, ne menzionava soltanto cinque (in realtà sei) –, e  concludeva affermando che, dai suoi tempi in poi, si erano «aggiunti tanti nomi e specie» da far comprendere chiaramente quanto grandi fossero stati i cambiamenti di vita intercorsi (XV, 19). La frase finale («anche considerando solo ciò, appare chiaramente come la vita sia cambiata») rappresenta uno dei numerosi strali lanciati da Plinio contro il lusso e la ricchezza, fonti di quella degenerazione dei costumi ripetutamente oggetto della sua condanna morale. Ad una società in cui gli orti, con i loro alimenti salutari, erano fonte primaria di sussistenza, e in cui per tutto il necessario ci si riforniva in ambito domestico, Plinio contrappone a più riprese una sorta di mondo impazzito, in cui si rischiano naufragi per procurarsi varie specie di ostriche, si va a caccia di uccelli rari, si lotta con animali feroci per catturare qualche specie di animale strano da imbandire a tavola, si va in cerca oltremare di prodotti di ogni sorta. Inoltre, si disdegnano i cibi semplici e gradevoli, si usano procedimenti di coltivazione tesi ad ottenere frutti ricercati per sapore e dimensioni, si filtrano i vini e li si invecchia al punto che tutti possono bere vini nati addirittura prima di loro […], il pane non è più lo stesso per tutti ma ce n’è uno per i nobili e uno per la gente comune, e tutta l’alimentazione si differenzia a seconda dei gradi sociali. Per di più, se tutto questo potrebbe anche essere in qualche modo sopportato – afferma –, si è arrivati ad escogitare distinzioni persino negli ortaggi: cavoli così giganteschi da non poter stare su una mensa modesta, asparagi coltivati al posto di quelli di bosco che la natura metteva a disposizione di tutti, ecc. Anche le acque vengono distinte sulla base del denaro, e c’è chi beve neve e chi vuole il ghiaccio, e si fa in modo di avere neve e ghiaccio anche nei mesi caldi […] (vedi, in particolare, XIX, 51 ss.). Siamo di fronte ad una critica dei costumi che, di fatto, qui come in molti altri passi, relativi a contesti diversi da quello agro-alimentare, insiste sul rapporto fra la natura e l’uomo: uomo che non può entrare in concorrenza con la creatività della natura né deve aggredirla, ma deve limitarsi a seguirla e a non turbare l’ordine naturale delle cose. Il discorso è complesso, ma si può affermare che, in questo come in altri contesti, se l’obbiettivo diretto è il lusso – sicuramente il modo più immediato di reagire alle rapide mutazioni del sistema economico-produttivo –, di fatto, l’obbiettivo reale è il progresso tecnico: il moralismo stoicheggiante  di Plinio, unito al suo passatismo e alla sua visione antropomorfica della natura, rappresenta infatti una testimonianza significativa di quella sorta di avversione nei confronti della industriosità umana e  della tecnologia, largamente diffusa nel pensiero antico. Proprio il lusso era stato il primo grande movente di quel progresso tecnico, e Plinio, come altri prima e dopo di lui, non riesce di fatto a separare le istanze moralistiche contro il lusso da quella che intrinsecamente era l’esigenza umana di controllare il proprio destino e intervenire sulla natura per migliorare la propria esistenza.

A nessuno sfugge come, a livello diffuso, la moderna sensibilità faccia ancora i conti con un atteggiamento simile, oscillante cioè fra il riconosciuto bisogno umano di esercitare il proprio controllo sulla natura e piegarla alle proprie esigenze e la critica a stili di vita, comportamenti e azioni considerati non in armonia con la natura stessa: certo, i temi sono trattati e soprattutto affrontati in maniera diversa, sicuramente più radicale, ma le nostre teorizzazioni affondano comunque le loro radici nel pensiero antico, così come i nostri valori etico-morali evidenziano tratti di sostanziale continuità fra la nostra cultura e la cultura classica.  Sennonché, quando Plinio scriveva che gli uomini sbagliano ad incolpare la natura per quanto di nocivo essa produce, perché unici responsabili del suo nuocere sono gli uomini stessi, che della natura abusano, arrivando persino ad avvelenare i fiumi e l’aria che respiriamo, in lui rimaneva ben salda l’idea che la natura – provvidenziale e benigna –  fosse talmente grande e generosa da continuare, nonostante tutto, a sostenere le necessità umane (XVIII, 1): oggi, purtroppo, le risorse della natura appaiono invece così tragicamente compromesse,  da costringere forse ad abbandonare il suo fiducioso ottimismo.