Popolo di pastori e agricoltori, i Romani delle origini – poveri o ricchi che fossero – erano soliti nutrirsi di cibi semplici, come prodotti dell’orto, latticini, uova, pane di farro, olive, miele, raramente carne; e poi mele, pere, sorbe, uva, noci, fichi, ecc.  

Col tempo, con le sempre maggiori conquiste per terra e per mare, con l’enorme espansione dei traffici commerciali, gli incontri con culture diverse, gli inevitabili mutamenti sociali e l’emergere di nuovi e ricchi ceti, Roma modificò i propri costumi, e, prime fra essi, le proprie abitudini alimentari.

In età imperiale, sono molti gli autori che non risparmiano critiche ad uno stile di vita caratterizzato dal lusso e dalla ostentazione (sul giudizio di Plinio – Storia naturale, XIX, 51ss. – vedi ad esempio I fichi: dalle tavole degli antichi Romani alle nostre), ma è sicuramente l’episodio della Cena di Trimalchione nel Satyricon di Petronio ad identificarsi come fonte documentaria fondamentale per comprendere come il lusso e l’ostentazione si riflettessero sul cibo.  

Nella sua descrizione della cena offerta dal ricco liberto Trimalchione, Petronio «mette in scena uno spettacolo fastoso, sorprendente, a tratti volgare, dove tutto – dagli arredi alle pietanze, ai vini, ai servitori, alle attrazioni spettacolari, alle conversazioni pretenziose –   riflette la pulsione ossessiva dell’arricchito di turno ad ostentare potere e ricchezze […] Le vivande diventano, nella descrizione di Petronio, gli ingredienti di uno spettacolo teatrale-gastronomico in cui tutto si fa illusione, apparenza, camuffamento, riflettendo, contestualmente, in un intreccio di ironia e affascinamento, il pensiero dell’autore e gli usi di una società come quella imperiale, caratterizzata dall’opulenza e ormai molto lontana dal buon tempo antico: una società in cui il cibo – e più ancora il banchetto – viene enfatizzato e diventa simbolicamente un marcatore dell’identità di classe» (C. Pandolfi, Garum, Licosia, 2016, pp. 8-9). Ma, nel fare ciò, Petronio, con le sue meticolose rappresentazioni delle varie portate, ci fornisce anche informazioni preziose in relazione alla materialità del cibo: sicché sappiamo che, a Roma, in età imperiale, nelle case dei ricchi,  oltre a bersi in abbondanza ottimi vini, si mangiavano carni di ogni genere, pesci, crostacei, molluschi, uova di vari volatili, pane, focacce, olive, legumi, frutti tipici o di origine esotica; che si utilizzavano spezie e condimenti preziosi. Né, fra i frutti tipici, mancavano i fichi: «Seguì una portata – si legge infatti al capitolo 35 – non così grande quanto ci si aspettava, ma la cui originalità attrasse gli sguardi di tutti. Si trattava di un trionfo rotondo, che presentava, in cerchio, i dodici segni zodiacali, e sopra ciascuno di essi il maestro di cucina aveva posto il particolare cibo corrispondente al segno stesso: sopra l’Ariete i ceci, sopra il Toro carne di mucca, sopra i Gemelli testicoli e rognoni, sopra il Cancro una corona, sopra il Leone fichi d’Africa, sopra la Vergine una vulva di scrofa da latte, sopra la Bilancia una stadera che portava su un piatto una focaccia salata e sull’altro una dolce».

Oltre a questa di Petronio, sono numerose le testimonianze già altrove ricordate (vedi La presenza del fico in miti, leggende, credenze, superstizioni e aneddoti e I fichi: dalle tavole degli antichi Romani alle nostre), che ci confermano come i fichi fossero da sempre presenti sulle tavole dei Romani, poveri o ricchi che fossero: sia i fichi secchi che i fichi freschi, serviti questi ultimi come frutta, oppure mangiati per saziare la fame con o senza pane (Seneca, Epistola a Lucilio 87), oppure gustati col sale o col formaggio (Plinio, XV, 21); e numerose sono anche le testimonianze che ci attestano la conoscenza delle loro proprietà nutritive. Fra i molti passi citati (vedi ancora I fichi: dalle tavole degli antichi Romani alle nostre), per quanto concerne le tavole dei ricchi, basti qui ricordare quello di Plinio di XV, 19, sui fichi fuori stagione, «frutto di artificio e non della natura», sicuramente non destinati alle tavole dei poveri. Quanto alle loro proprietà nutritive, è ancora Plinio ad affermare che i fichi accrescono le energie dei giovani, migliorano la salute dei vecchi e fanno diminuire le rughe; che sono dissetanti e danno refrigerio al calore, che giovano moltissimo ai convalescenti da lunga malattia; che fanno bene a chi soffre di malattie polmonari. Ed è sempre Plinio a  definire i fichi secchi «ricostituenti ed energetici», affermando che, per questa ragione, venivano un tempo usati nelle diete degli atleti, e che l’allenatore Pitagora era stato il primo a sostituire con essi la carne (XXIII, 63). Ma già ben prima di Plinio – come egli stesso ci attesta (XIII, 21) – il riconoscimento dell’alto valore nutrizionale dei fichi si trova indirettamente riconosciuto da Catone, che, nel capitolo LVI del De agricultura, relativo alle  razioni alimentari destinate ai vari lavoratori, prevede, per gli schiavi addetti al lavoro nei campi, una riduzione delle libbre di pane nel periodo della maturità dei fichi stessi.

Sempre Catone ricorda che, fra i compiti della moglie del fattore, c’era quello di preparare il cibo per tutta la famiglia: oltre a saper fare il pane e setacciare finemente il farro, essa doveva ogni anno avere in serbo «molte galline e molte uova, e poi pere secche, sorbe, fichi, uva passa, sorbe in sapa, pere e uve in barili, mele cotogne, uve in vinaccia conservate in orci sotto terra, noci prenestine fresche conservate in orci sotto terra, mele scanziane conservate in botti, e altre mele solite a conservarsi, anche selvatiche» (CXLIII).

Prima di lui, Plauto, nel Rudens (La fune), fa dire a dei fustigatori di schiavi che essi campano alla buona «di fichi secchi (ficis aridis)» (III, 4, v.764); e, nello Stichus (V, 4, v. 690), accingendosi a mangiare con altri schiavi come lui, Sagarino afferma che il banchetto non è certo disprezzabile per le loro possibilità: «noci, favette, minuscoli fichi (ficulis), olive […], lupini, briciole di dolci».

Nell’Epodo 16, che, coi suoi toni dolenti, ci parla di una generazione consumata dalle guerre civili, e di una città – Roma – che, senza alcuna speranza di rinascita, si sta distruggendo con le proprie mani, Orazio, dal canto suo, invita a salpare verso le isole felici rimaste all’età dell’oro, dove la vita è frugale, e «dove ogni anno il suolo produce le messi senza bisogno di essere arato, dove la vite fiorisce di continuo senza bisogno di essere potata, il ramo di ulivo germoglia mantenendo sempre la promessa di frutti, i fichi neri adornano la propria pianta, il miele sgorga dalle cavità dei lecci e acqua leggera scaturisce e scende gorgogliando dagli alti monti […], dove le caprette vengono spontaneamente a farsi mungere» (vv.1-49).

Nel libro VIII delle Metamorfosi di Ovidio è tramandata la leggenda di Filemone e Bauci, la vecchia coppia di sposi che, in un clima di grande accoglienza e cordialità, ospitano nella loro capanna e alla loro modesta tavola Zeus e Ermes, servendo ciò che hanno, ovvero un po’ di maiale affumicato e lessato, olive verdi e nere, verdure dell’orto, bacche, latte cagliato, uova, vino non molto invecchiato e infine la frutta: «noci, fichi mescolati a datteri rugosi, e prugne e mele profumate dentro ampie ceste e uva raccolta da rosse viti» (vv.660-678).

Indimenticabile è la descrizione del miserabile mangione Santra lasciataci da Marziale nell’epigramma 20 del libro VII: invitato ad una cena, alla quale ha fatto di tutto per poter andare, «chiede per tre volte le ghiandole della gola del porco affumicate ed essiccate, quattro volte il lombo, ed entrambe le cosce della lepre e le due spalle, né arrossisce nel giurare falsamente di non avere avuto i tordi e nell’arraffare le ostriche nerastre. Imbratta con bocconi di focaccia il suo sudicio tovagliolo, dove vengono messi anche chicchi d’uva conservata, e pochi grani di melograno, e pelle indecente di vulva di scrofa spolpata, e fichi lattiginosi, e boleti guasti. Ma, quando la salvietta si rompe per le migliaia di furti, nasconde nel tiepido seno spondili rosicchiati e un avanzo di tortora con la testa mangiata. Né, raccoglitore di rimasugli com’è, ritiene vergognoso raccattare con la sua lunga mano tutto ciò che anche i cani hanno lasciato. Alla sua gola non basta la preda mangereccia, ma riempie anche di avanzi di vini la brocca che tiene vicino ai piedi».

E infine Svetonio, nella sua Vita di Augusto (76), trattando l’aspetto dell’alimentazione, afferma che l’imperatore «mangiava pochissimo ed era di gusti quasi ordinari. Gli piacevano particolarmente il pane di seconda qualità, i pesciolini minuti, il formaggio di mucca lavorato a mano e i fichi verdi primaticci e settembrini dalla doppia maturazione».

 

I fichi erano anche usati per la preparazione di prodotti alimentari quali formaggio, vino, aceto, sciroppo.  

Che il loro succo lattiginoso venisse usato come caglio ci è attestato da Plinio (XXIII, 63) e più tardi, nel IV secolo d. C., da Rutilio Tauro Emiliano Palladio (Opus agriculturae, o De re rustica. VI, 9); nel I secolo a. C., di utilizzo del lattice della pianta parla più genericamente M. Terenzio Varrone (De re rustica, VII, 8), alludendo probabilmente al liquido che sgorga sia dai che dai germogli e dalle foglie.

Ancora Plinio (XIV, 19) ci parla del vino di fichi chiamato sycites, o palmiprimum (o pharnuprium?), o catorchites (o trochis?): vino che si faceva macerando in acqua i frutti maturi e procedendo poi alla spremitura, oppure – perché non fosse troppo dolce – macerando i fichi con vinacce al posto dell’acqua.

A parlarci dell’aceto di fichi è invece, nel I secolo d. C., L. Giunio Moderato Columella, asserendo che, nelle  terre in cui c’è penuria di vino, e dunque anche di aceto, per produrre quest’ultimo, si raccolgono fichi verdi, il più maturi possibile – anche quelli caduti a terra per le eventuali piogge –; li si fa fermentare dentro una botte o in anfore, e, quando sono inaciditi e hanno rilasciato la sostanza liquida, si filtra accuratamente l’aceto e lo si versa in vasi impeciati e ben odorosi; l’aceto così ottenuto è molto forte, di prima qualità, e non prende mai di stantio o di muffa, a meno che non venga tenuto in un luogo umido. Per ottenere quantità maggiori di aceto – aggiunge –, c’è chi mescola ai fichi dell’acqua, aggiunge poi via via fichi freschi molto maturi lasciandoli stemperare nel composto fluido, finché il sapore dell’aceto non diventa abbastanza forte, dopo di che filtra bene il tutto, fa bollire l’aceto così filtrato per eliminarne la schiuma e ogni tipo di residuo, e vi aggiunge infine un po’ di sale abbrustolito, procedimento che impedisce il nascervi dentro di vermetti o bestiole d’altro genere (De re rustica, XII, 17). Precedentemente (XII, 5), Columella ci attesta anche l’uso dei fichi secchi per produrre aceto di vino: in quarantotto sestari di vino guasto o svanito – spiega –, si mettono una libbra di fermento, tre once di fichi secchi e un sestario di sale tritati insieme, avendo cura, prima di gettare questi ingredienti nel vino, di mescolarli con un ‘quartino’ di miele diluito in aceto.

All’aceto di fichi fa cenno anche Seneca, affermando che quello prodotto coi fichi di Cipro fosse ottimo, ancora migliore di quello che si faceva coi fichi alessandrini (XIV, 19).

Da una ricetta di Apicio, il ricco e stravagante gastronomo vissuto sotto l’imperatore Tiberio, apprendiamo infine dell’esistenza di uno sciroppo ottenuto dai fichi. Nel II libro del suo Manuale di gastronomia, al capitolo 2, sono infatti descritte delle salse da accompagnare ad una sorta di polpette di carne, e una di queste recita: «Pesta del pepe messo in ammollo il giorno prima, bagnalo quindi con colatura di pesce, in modo da ottenere un impasto omogeneo dalla consistenza cremosa, uniscici dello sciroppo di mele cotogne ridotto alla densità del miele sotto il sole cocente: se non ne hai, mettici lo sciroppo di fichi della Caria che i Romani chiamano “colore”  (colorem); successivamente, aggiungi amido bagnato o acqua di riso e fai cuocere il tutto a fuoco lento» (51).

Oltre a questa, particolarmente interessanti appaiono le tre ricette per il prosciutto lessato che si trovano in VII, 9-10 (293-295): la prima prevede che, dopo essere stato lessato con molti fichi di Caria e tre foglie di alloro, il prosciutto sia scotennato, gli siano quindi praticati dei tasselli e li si riempia di miele; si impasterà quindi della farina con olio, ci si avvolgerà il prosciutto come con una nuova pelle e lo si metterà al forno, per portarlo in tavola una volta che la crosta sia cotta. Nella seconda, più semplice, si cuoce il prosciutto in acqua con fichi di Caria, e lo si serve accompagnato da bocconcini di pane, vino cotto o vino aromatizzato; a concludere la ricetta, segue quindi la frase «melius si cum musteis», in cui musteis   crea decisamente qualche problema di traduzione, trattandosi formalmente di un aggettivo dal significato di “dolce come il mosto”, o “fresco”, tanto che diversi interpreti hanno voluto sottintendere un sostantivo, traducendo conseguentemente «meglio se con mele in conserva», o «meglio se con formaggi freschi», ecc.  La terza ricetta, immediatamente successiva, in cui compare ugualmente il plurale dell’aggettivo musteus, e che crea dunque lo stesso problema interpretativo della precedente, riguarda il prosciutto di spalla, ed è la più complicata: «Lessa il prosciutto di spalla con due libbre di orzo (600 grammi abbondanti) e venticinque fichi di Caria. Quando sarà cotto – recita –, rimuovi la cotenna, con una paletta arroventata bruciane il lardo e cospargilo di miele, o, meglio ancora, cospargilo di miele dopo averlo messo al forno. Quando avrà preso colore, metti nella pentola vino passito, pepe, un mazzetto di ruta, vino puro, e fai stemperare: una volta che sia stemperata, versa una metà della peperata ottenuta sul prosciutto e, con l’altra metà, bagna buccellas – bocconcini – musteorum factas. Quando questi saranno bene imbevuti, spargi sul prosciutto la peperata in eccesso». Alla luce di entrambe le ricette, i “bocconcini” della seconda porterebbero ad attribuire a musteis e musteorum il valore di sostantivi, assimilando mustea a mustacei/mustacea, ovvero ai dolci di cui fornisce la ricetta Catone (CXXI), impastati col mosto, conditi col formaggio fresco, aromatizzati con anice e cumino, e cotti sopra foglie di alloro: le traduzioni sarebbero dunque, rispettivamente, «meglio se ˂accompagnato ˃ con mostaccioli», e «con l’altra metà, bagna dei bocconcini di mostaccioli».

Tornando ai fichi, è poi giusto ricordare anche le due ricette di Apicio (VII, 3, 263-264) per le salse da accompagnare al foie gras, o fegato d’oca: chiamato iecur ficatum – o semplicemente ficatum, come fa Apicio – perché le oche venivano ingrassate coi fichi finché il loro fegato (iecur) diventava grossissimo. Ed è anche giusto segnalare che, prima di Apicio, già Orazio aveva parlato di foie gras e di fichi nella Satira 8 del libro II. In questa satira, si racconta la cena sontuosa offerta da un arricchito di nome Nasidieno: una cena che, per svolgersi nella più sobria età augustea, poco ha da invidiare alla più famosa cena di Trimalchione, e la cui descrizione rientra all’interno della ripetuta polemica oraziana contro il lusso e i piaceri della tavola, nell’ottica di una restaurazione degli antichi costumi e di una moralizzazione della vita pubblica e privata. Fra le numerose vivande fatte portare in tavola da Nasidieno, al v. 88 compare infatti «il fegato d’un’oca bianca nutrita di fichi succulenti». La citazione oraziana è significativa perché permette di inquadrare nella giusta maniera l’affermazione di Plinio, laddove scrive (VIII, 77) che era d’uso ingrassare il fegato delle scrofe così come si ingrassava quello delle oche, aggiungendo che era stata una invenzione di Apicio quella di ingrassarle coi fichi secchi (fico arida) e ucciderle una volta sazie, dopo aver dato loro da bere del vino mielato: ché, se già ne parla Orazio, non si può asserire che fosse di Apicio l’idea di ingrassare le oche con i fichi, a meno che la sua innovazione non consistesse nell’uso dei fichi secchi e nell’aggiunta del vino mielato.

Da ultimo, Apicio parla dei fichi anche nel libro I, suggerendo un modo per conservarli diverso dalla usuale essiccazione: «Per conservare fichi novelli, mele, prugne, pere e ciliegie – scrive infatti–: raccogli con cura tutti i frutti col loro picciolo e mettili nel miele, in modo che non si tocchino l’uno con l’altro» (I, 12, 20).