Per quanto concerne la pianta del fico, finora abbiamo parlato quasi esclusivamente della sua presenza nel mito di fondazione di Roma (v. La pianta del fico nel mito di fondazione di Roma), nonché in altri miti e leggende (v. La presenza del fico in miti, leggende, credenze, superstizioni e aneddoti): sennonché, nella trattatistica agronomica, sono ovviamente ben più presenti e numerose le annotazioni relative alla ‘materialità’ della pianta stessa, ai terreni e al clima che ne favoriscono la coltivazione, alle malattie e agli insetti che possono colpirla, ai rimedi per preservarla, alla propagazione e agli innesti, nonché alla pratica della caprificazione. E, se parlando del riconoscimento nei secoli dell’efficacia terapeutica dei fichi, abbiamo constatato come essa non riguardi soltanto il frutto, ma si estenda a tutte le parti della pianta (v. Curarsi coi fichi: dai trattati dell’antichità all’odierna medicina naturale), pare ovvio che non possano essere trascurati i riferimenti all’utilizzo delle foglie, del legname, del lattice, ecc., nella vita quotidiana di un podere. Va da sé che questi argomenti sono per così dire troppo tecnici, troppo riservati agli addetti, per poterne qui parlare con piena cognizione di causa: ci limiteremo dunque a pochi accenni, fornendo però nel contempo i riferimenti testuali necessari ad approfondire eventualmente ognuno di essi.

 

Onde agevolare la lettura delle pagine seguenti, giova forse ripetere che il trattato sull’Agricoltura di Marco Porcio Catone (De agri cultura), il più antico a noi pervenuto (II secolo a. C.), consta di centosessantadue capitoli, per la maggior parte molto brevi, e costituisce una sorta di precettistica del comportamento di un proprietario terriero. Il tipo di proprietà che emerge dal testo è indicativo dell’affermarsi di un nuovo assetto agricolo, con la crisi della piccola proprietà contadina e il passaggio a più vaste tenute, destinate a produrre profitto. Vi si parla ripetutamente del fico, esaminando quali debbano essere le caratteristiche del terreno (VIII), e riferendo sulla piantagione e i tipi di innesto e la propagazione (XXVIII, XLI, XLII, XLIII, LII, CXXXIV), i modi per accrescerne la produttività (XCV), i sistemi di conservazione dei frutti (C e CII), l’utilizzo delle foglie (XXX e LV) e del legname (XXX).

 

Ricordiamo che il De re rustica di Marco Terenzio Varrone (I secolo a. C.) si compone di tre libri, dedicati rispettivamente alla moglie Fundania che ha comprato un podere, all’allevatore di bestiame Turranio Nigro, e al vicino di campagna Quintino Pinnio; il primo libro è dedicato all’agricoltura e all’amministrazione delle proprietà terriere (De agri cultura), ed è soprattutto in questo che sono presenti le osservazioni relative al fico; il secondo riguarda gli armenti e la pastorizia (De re pecuaria); il terzo (De villaticis pastionibus) è centrato sugli allevamenti di animali da podere. La concezione della produzione agricola che sottende il trattato accentua di fatto le tendenze già presenti in Catone.   Per quanto concerne il fico, gli argomenti trattati riguardano ancora una volta le caratteristiche del terreno e il clima (I, 6 – 9 – 41),  la messa a dimora delle piante, la propagazione e l’innesto (I, 39 – 41 – 47); non manca un accenno all’uso delle piante di fico nei vigneti (I, 8), e un riferimento al momento migliore per la raccolta dei fichi sabini (I, 67). In I, 7 c’è un riferimento alle piante di fico che crescono sull’isola Elefantina, al centro del Nilo, che, contrariamente a quanto accade da noi, non perderebbero mai le foglie (la stessa cosa accadrebbe alle viti). In I, 48, in un passo dedicato ai nomi con cui si indicano le varie parti dei cereali (spiga, grani, barba, lolla, involucro, ecc.), il fico è infine nominato in relazione al termine folliculus, usato anche per indicare la sua buccia.

 

Ricordiamo ancora che risale al I secolo d. C. il De re rustica di Lucio Giunio Moderato Columella, sicuramente il più importante fra i trattati agronomici trasmessici dal mondo romano. Il trattato ebbe due redazioni, della prima delle quali ci rimane solo il libro De arboribus (Gli alberi), mentre ci è pervenuta per intero la seconda, organizzata in dodici libri: fra questi, il X, dedicato alla coltivazione degli orti, contiene un lungo inserto in esametri, come omaggio di Columella alla tradizione delle Georgiche virgiliane. Di fronte alla crisi dell’agricoltura, il trattato si propone di ovviare al disinteresse dei proprietari, all’inadeguato sfruttamento delle risorse e alla mancanza di preparazione scientifica, che della crisi rappresentano le cause. Come già Catone e Varrone, anche Columella non riserva ai fichi alcuna trattazione specifica, ma ne parla estesamente in luoghi diversi, fornendo indicazioni su dove, come e quando piantarli, e soffermandosi sui tempi della raccolta, nonché sui modi per accrescerne la produttività e migliorarne la qualità (V, 10 – De arboribus, 20-21). Molta attenzione è dedicata da Columella alla pratica degli innesti (V, 11 – XI, 2, 25 – De arboribus, 26-27).

 

Quanto alla Storia naturale di Plinio (I secolo d. C.), con i suoi XXXVII libri, essa è notoriamente lo specchio di quello sforzo di sistemazione del sapere che caratterizza tutta la cultura romana della prima età imperiale, e che si esprime soprattutto in opere di carattere manualistico: testi che intendono raccogliere il meglio delle conoscenze in un certo settore dello scibile o delle attività pratiche, e fornire al lettore un orientamento complessivo ed accessibile. Plinio è però il primo a concepire un progetto di conservazione integrale del sapere, e la sua enciclopedia, con la condensazione e l’organizzazione di materiali che costituiscono il bilancio della scienza di un’epoca, rappresenta una scommessa del tutto originale per dimensioni e ambizioni. Le parti che riguardano la pianta del fico si trovano soprattutto nei capitoli 19-21 del libro XV, che tratta degli alberi da frutta, e nel libro XVII, dedicato agli alberi piantati, anche se molti sono i riferimenti sparsi nei restanti libri. Nel libro XV, in modo abbastanza disomogeneo, si parla – come abbiamo avuto modo di ricordare – delle numerose varietà di fichi, dei loro nomi e delle zone di produzione, e si riprendono le indicazioni di Catone in merito alle caratteristiche del terreno (19); si ricordano inoltre aneddoti storici (20); non mancano accenni alla conservazione dei frutti e alle loro proprietà nutritive (21); in esso abbiamo anche, infine, un del tutto nuovo riferimento alla cosiddetta caprificazione (caprificatio), ovvero all’abitudine di piantare un caprifico nei campi di fichi, o, altrimenti, di gettare sugli alberi dei fichi rami di caprifico legati fra loro, cosicché le zanzare (culices) migrino dai caprifichi ai fichi, aprendo i pori delle infruttescenze e agevolandone così la maturazione (21). Nel libro XVII, i temi trattati sono quelli usuali, riguardanti la propagazione (13, 21), la piantagione (16-17), i tipi di innesto (23-24, 26-35), i rimedi per le malattie della pianta (37, 39, 43, 47) e i modi per accrescerne e migliorarne la produzione (44). Oltre alle pagine in cui Plinio annota le proprietà nutrizionali dei fichi e i loro innumerevoli usi medicinali (v. Curarsi coi fichi: dai trattati dell’antichità all’odierna medicina naturale), interessanti appaiono infine anche alcune notizie relative  all’uso del lattice, del legno e delle foglie (libri XI, XVI, XXI).

 

Ripetiamo infine che, dopo Plinio, autore peraltro di un’opera enciclopedica e non  di un trattato sull’agricoltura, l’ultimo agronomo romano è, nel IV secolo d. C., Rutilio Tauro Emiliano Palladio, con il suo Opus agriculturae, o De re rustica. Composto di quattordici libri, il primo dei quali funge da introduzione generale, è organizzato per mesi (II-XIII), con un poemetto conclusivo intitolato De insitione, completamente dedicato agli innesti (XIV). Riservata al fico è fondamentalmente una lunga parte del capitolo 10 del libro IV, dedicato ai lavori da svolgere nel mese di marzo: parte che, in alcune vecchie edizioni, corrisponde al capitolo 21. Parlando di luoghi, clima, piantagione, innesti, modi di propagazione, varietà, essiccazione, accorgimenti per migliorare la qualità dei frutti e la loro maturazione, caprificazione, rimedi contro insetti e malattie della pianta, Palladio offre una sintesi della precedente produzione agronomica, soffermandosi in particolare sugli innesti e sulla conservazione dei frutti. Che le tecniche di innesto gli interessassero particolarmente è dimostrato ampiamente dal poemetto finale, in cui sono riservati ai fichi i versi 119-127, oltre che dai richiami all’argomento presenti in altri libri, come ad esempio in III, 25 e V, 5.

 

Le parti riservate ai terreni e al clima non destano particolare interesse: soprattutto per chi non sia un esperto in materia. Come già ricordato (v. I fichi: dalle tavole degli antichi romani alle nostre), nel De agri cultura, Catone consiglia, ad esempio, di piantare «i fichi del tipo marisca in terreno argilloso e aperto; gli africani, gli ercolanesi, i saguntini, gli invernali, i tellani neri dal peduncolo lungo in terreno grasso o ben concimato» (VIII); e il medesimo consiglio è presente anche in Plinio, che, in XV, 19, si limita peraltro a citare direttamente il passo catoniano. Più generica è poi l’indicazione fornita sempre da Catone al capitolo XLI di piantare i fichi in luoghi grassi e umidi. Abbastanza estese sono le indicazioni fornite da Varrone, che si dilunga a descrivere i vari tipi di terreno presenti in pianura, in collina e in montagna, annotando che un tipo di fico alligna bene in pianura (I, 6); descrive poi i vari componenti dei terreni, le rispettive qualità, le differenze fra una terra grassa, una magra e una ‘di mezzo’, limitandosi ad affermare che in una terra magra le piante producono fichi più piccoli (I, 9); sconsiglia infine di creare piantagioni di fichi in luoghi freddi (I, 41). Molto simili fra loro sono le indicazioni presenti rispettivamente nei trattati di Columella (V, 10 e De arboribus 20-21) e Palladio (IV, 10), che, nell’affermare come i fichi possano crescere più o meno dappertutto, pur se producendo frutti di qualità diversa, istituiscono un rapporto fra luoghi di piantagione e periodi dell’anno rispettivamente più adatti alla piantagione stessa.

 

Riservate per così dire agli addetti sono anche le sezioni sulla propagazione. A puro titolo esemplificativo, annotiamo che Catone va dai generici consigli su come trapiantare l’albero (XXVIII) a quelli più specifici per i rampolli che nascono in terra dall’albero (LII e CXXXIV). Varrone (I, 41) consiglia di preparare vivai di fichi coi germogli piuttosto che coi grani, a meno che – aggiunge – non si possa fare diversamente, come quando si tratta di spedire le ‘semenze’ oltremare, perché, in quel caso, «si infilzano su una cordicella i fichi maturi, pronti da mangiare, e quando sono secchi si avvolgono e si spediscono dove si vuole: qui verranno poi interrati in un vivaio a che germoglino. In tal modo sono stati portati in Italia i fichi di Chio, della Calcide, della Lidia e dell’Africa, e tutte le altre qualità d’oltremare» (v. Essicazione e conservazione dei fichi nei trattati agronomici latini); indicazioni su come proteggere i vivai di germogli si trovano poi in I, 47. Plinio parla della propagazione attraverso polloni e propaggini in XVII, 13 e XVII, 21. Palladio (IV, 10) consiglia di usare il semenzaio finché la pianta non sia abbastanza robusta da essere trapiantata.

 

Qualche curiosità destano i metodi descritti per migliorare la produzione. Catone, ad esempio, consiglia gli stessi metodi usati per gli ulivi (XCIV) – paglia alle radici, e mistura di morchia e acqua in parti in uguali per annaffiatura – con l’accorgimento aggiuntivo di ammonticchiare molta terra ai piedi della pianta in primavera (XCV). Columella parla di potatura, terra rossa e morchia ed escrementi umani sulle radici (V, 10 e De arboribus, 21); similmente, Plinio consiglia di porre alle radici del fico – quando iniziano a spuntare le foglie – terra rossa, morchia e letame (XVII, 44). Palladio parla della potatura e accenna allo scuotimento della pianta quando i fichi cominciano a maturare (IV, 10).

 

Quanto alla caprificazione, già descritta tre secoli prima da Teofrasto nella sua Storia delle piante (II, 8, 8), il primo autore latino a trattarne è, come s’è detto, Plinio, che, al capitolo 21 del libro XV, scrive: «E’ chiamato caprifico il fico del genere selvatico che non matura mai, ma che dà agli altri quello che lui stesso non ha, poiché c’è una causalità naturale  e ripetutamente qualcosa si genera dalle cose putrefatte. Dunque, il caprifico produce zanzare: queste, private del nutrimento nella pianta madre, per la sua putrida decomposizione, volano verso il simile fico domestico e, col frequente morso dei fichi, ovvero aprendone i fori col loro pascersi ingordo e penetrando così all’interno, dapprima fanno entrare con sé il sole e immettono nei fori aperti l’aria che li matura; poi succhiano l’umore latteo, come a dire l’acerbità del frutto, il che avviene anche spontaneamente. Perciò nelle piantagioni di fico si mette un caprifico nella direzione del vento, affinché il soffio porti gli insetti verso i fichi. E per questo si è escogitato di prendere anche da altre parti i fichi selvatici e metterli sulla pianta di fichi commestibili legandoli fra loro, cosa che non serve se il terreno è magro e volto a tramontana […] Sia la polvere che la caprificazione, tramite l’assorbimento dell’umore molle e pesante che rende fragili i fichi, producono l’effetto di non farli cadere» (v. anche I fichi: dalle tavole degli antichi romani alle nostre). Lo stesso Plinio fa poi cenno alle zanzare che nascono nei fichi anche in XVII, 44. Il discorso è successivamente ripreso da Palladio: «Nel terreno piantato a fichi – si legge nel suo trattato –, alcuni piantano anche un caprifico, affinché non ci sia bisogno di appenderne i frutti ad ogni albero di fichi come protezione: è attorno al solstizio di giugno che si fa la cosiddetta caprificazione (caprificandae sunt arbores fici), vale a dire che si appendono agli alberi di fico i fichi selvatici, destinati a non maturare, infilati a forma di ghirlanda. Se non si hanno a disposizione fichi selvatici, si appenderà alla pianta un ramoscello di abrotano, oppure si interreranno attorno alle radici gli ispessimenti che si trovano sulle foglie degli olmi o delle corna di ariete; oppure, ancora, si inciderà leggermente il tronco della pianta là dove apparirà gonfio, affinché l’umore possa defluirne» (IV, 10). Un ulteriore richiamo al procedimento della caprificazione si trova infine in VII, 5. Da notare che la pratica è tuttora diffusa nel meridione d’Italia: l’insetto impollinatore non è però la zanzara, come sostenuto da Plinio, bensì la blastofaga, un imenottero della famiglia Agaonidae.

 

Sicuramente fantasiosi appaiono i rimedi contro le malattie e gli insetti.

Nel citato capitolo XCV, Catone afferma che gli accorgimenti suggeriti per incrementare la produzione dei fichi sono utili anche a preservare le piante dalla  scabbia. In V, 10, Columella consiglia di piantare nella buca del fico un ramo di lentisco a testa in giù, come rimedio contro la tigna che può colpire la pianta (rimedio che ricomparirà poi anche in Plinio e in Palladio). Dal canto suo, Plinio afferma che i vermi colpiscono particolarmente fichi, peri e meli; che la scabbia è comune a tutti gli alberi; che le croste sulla corteccia  e le lumache danneggiano i fichi; che le piante di fico si rovinano per le piogge abbondanti e per la troppa acqua nelle radici; che dannosi sono pure certi tipi di zanzare (XVII, 37). Alcuni dei rimedi da lui suggeriti valgono per tutti gli alberi (ad esempio, scalzare o accumulare terra alla loro base, scoprire o coprire le radici, annaffiarli, concimarli col letame, potarli); ai fichi si deve incidere la corteccia per farne uscire l’acqua in eccesso; se sono troppo rigogliosi se ne devono tagliare in parte le radici e coprirle di cenere (XVII, 43); il lentisco interrato a testa in giù assieme al fico lo preserva dalle tignole (XVII, 44); contro i parassiti giova la morchia; contro i vermi vale bene mettere della cenere alla base della pianta onde evitare anche che le radici marciscano; le formiche si debellano con terra rossa e pece, oppure appendendo un pesce nelle vicinanze così da attirarle, oppure ancora ungendo le radici con olio e lupini tritati (XVII, 47). Contro i vermi, Palladio (IV, 10) consiglia di piantare assieme al fico il terebinto o un ramo di lentisco a testa in giù, di togliere i vermi con un uncino di ferro e di chiudere i buchi con bitume o calce viva; parla poi delle formiche, asserendo che, se il fico ne è infestato, occorre «spalmare il tronco con un miscuglio di argilla rossa, morchia e pece liquida»; aggiunge poi che, a dire di alcuni, contro le formiche, sia utile «appendere ai suoi rami un pesce coracino», ovvero il pesce nero conosciuto anche col nome di castagnola (in napoletano, il guarracino); se per una qualche malattia cadono i frutti – continua  – alcuni appendono ai rami un granchio di fiume o un ramo di ruta o fasci di lupini o alghe di mare.

 

Molto interessanti, soprattutto in considerazione del considerevole spazio che occupano nei trattati agronomici e in Plinio, appaiono invece le informazioni relative ai vari tipi di innesto e alle relative sperimentazioni, che, troppo tecniche per parlarne con cognizione di causa e poterle accuratamente descrivere, sollecitano comunque una serie di riflessioni. Premesso che la pianta di fico ha una importanza marginale all’interno del sistema agrario, l’attenzione ad essa rivolta va ricondotta all’interesse più generale per gli alberi da frutto e per la loro produttività: interesse strettamente legato ai profondi cambiamenti dell’assetto socio-economico che si registrano nel II secolo a. C., a causa della progressiva trasformazione di Roma in potenza egemone dell’Italia e poi del Mediterraneo. A causa delle guerre di conquista e dell’abbandono forzato dei loro poderi da parte dei piccoli proprietari, si assiste alla concentrazione delle terre in poche mani, con la diffusione di strutture produttive medio-grandi e un loro conseguente sfruttamento intensivo, ed è ovvio che, in questa ottica, acquistino particolare rilevanza le pratiche di propagazione e di innesto: non è un caso che, per quanto concerne gli innesti, Catone ne descriva accuratamente due tipi, adatti a diverse piante da frutto, fra cui il fico, nonché all’ulivo (XLI-XLIII); e non è un caso che Cicerone, nel De senectute / La vecchiaia, mettendo in bocca a Catone un lungo elogio dell’agricoltura, gli faccia definire la pratica dell’innestare come «la più ingegnosa delle trovate dell’agricoltura» stessa (54). La tendenza si consolida nel secolo successivo, come testimonia anche il trattato di Varrone, che, non destinato a fornire precetti pratici, ma volto piuttosto a compiacere l’ideologia del proprietario terriero, ci lascia intravvedere sullo sfondo latifondi di ancor più grandi dimensioni rispetto a Catone, con forme di produzione e di allevamento su vasta scala. Decisamente fautore di una agricoltura intensiva e redditizia, indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda, è, nel I secolo d. C., Columella, che riserva un posto di rilievo alle piante, fra cui il fico, e diversi sono i tipi di innesto per la cui esecuzione si forniscono istruzioni dettagliate: di tre tipi tradizionali di innesto si tratta ad esempio in V, 11, dove peraltro è indicato quello migliore per il fico, e l’argomento è poi ripreso in XI, 2 dove si parla anche della propagazione del fico per talea; ampio è poi il discorso nel De arboribus  (26 e 27), con la descrizione di ben cinque tipi di innesto, fra cui, al capitolo 27, quello di un fico su un ulivo. Dal canto suo, anche Plinio ne descrive con precisione più di uno in XVII, 23-24, e il discorso sugli innesti va avanti a lungo, fino al capitolo 35, lasciando trasparire – a volte più a volte meno – un atteggiamento polemico nei confronti degli esiti spesso precari delle innovazioni. Fra le stranezze dovute ai tentativi di nuovi connubi, Plinio (XVII, 26) racconta ad esempio di avere visto, vicino a Tivoli, un albero innestato in diversi modi, che in un ramo aveva noci, in un altro olive, in un altro uva, e poi fichi, pere, melograni, e diverse qualità di mele; ma, soprattutto, in XVII, 30, è descritto con abbastanza scetticismo l’esperimento riferito da Columella relativo all’innesto del fico sull’ulivo, rispetto al quale Plinio afferma di parlarne solo per amore di completezza, per non trascurare nessun genere di innesto, concludendo col dire che, a suo sapere, esso non avrebbe avuto diffusione alcuna: il che, se pure indirettamente, ci porta a citare Seneca, che contemporaneo di Columella, parrebbe in qualche modo essere stato a conoscenza dell’esperimento e, nel caso, averlo considerato inverosimile, se è vero che, nell’Epistola 87 (a Lucilio), scrive: «Da un male non nasce un bene, come un fico non nasce da un ulivo: ogni seme dà i suoi frutti» (25). Come giustamente scrive Angela Lanconelli, l’interesse degli agronomi romani per gli innesti e le relative sperimentazioni è rivolto principalmente alla vite, ma – e l’abbiamo già sottolineato – coinvolge di fatto tutti gli alberi da frutto, «ai quali sappiamo che a partire dal secolo II a. C. i proprietari fondiari cominciarono a prestare un’attenzione sempre crescente. Conseguenza di questa attenzione fu non solo l’espansione della frutticoltura, ma altresì l’introduzione di nuovi tipi di albero, fatto, questo, annoverato dagli storici del mondo antico tra i segni di progresso dell’economia agricola romana» (I fichi nella letteratura agronomica: da Catone ad Agostino Gallo, in Fichi - storia, economia, tradizioni, a cura di A. Carassale, C. Littardi, I. Naso, Philobiblon, 2016, pp. 149-167, p. 157-158). Grande interesse per l’argomento mostra anche il trattato del Palladio, che, come s’è detto più volte, oltre ai numerosi accenni presenti in tutto il testo, si conclude con un poemetto intitolato appunto De insitione / Sull’innesto (XIV). A testimonianza indiretta della diffusione e conoscenza della pratica degli innesti nel I secolo d. C., mi piace infine ricordare un passo di Quintiliano: nella sua Institutio oratoria / Istituzione oratoria (VI, 3, 88) si racconta infatti che «un uomo si lamentava che sua moglie si era impiccata ad un fico. “Datemi per favore un pollone di quell’albero – disse uno – così che io possa innestarlo”».

 

A prescindere dall’ambito fitoterapico, di cui abbiamo trattato nello specifico (v. Curarsi coi fichi: dai trattati dell’antichità all’odierna medicina naturale), non ci resta ora che parlare dei molteplici utilizzi quotidiani del lattice, delle foglie e del legname del fico. Come si è già avuto occasione di segnalare (v. in particolare I fichi nell’antica Roma: dall’umile desco degli schiavi alla ricca tavola dell’imperatore, ma anche La pianta del fico nel mito di fondazione di Roma), Varrone, parlando dei formaggi, scriveva che alcuni, come coagulo, erano soliti usare «il latte che esce dai rami del fico» (II, 11). Allo stesso modo, Columella, in un capitolo dedicato al formaggio (VII, 8), indica, da usare come caglio, il lattice estratto dalle parti più verdi della corteccia del fico, praticandovi una incisione; e,  per rapprendere il latte, parla anche di rametti di fico. Che il succo lattiginoso della pianta venisse abitualmente usato come caglio per far coagulare il latte ci è attestato anche da Plinio (XVI, 72 e XXIII, 63) e più tardi, nel IV secolo d. C., da Palladio (VI, 9).

Catone afferma che le foglie di fico vanno bene per nutrire i buoi (XXX e LV). Varrone scrive che le foglie di fico possono essere date da mangiare alle pecore (II, 2). Columella ci conferma l’utilizzo delle fronde fresche e delle foglie di fico come  nutrimento per i buoi, specificando che questo si può fare a ottobre e ai primi di novembre (XI, 2); e questa abitudine è attestata anche da Plinio (XVI, 38). Columella (XII, 16) ricorda infine l’uso di avvolgere l’uva appassita in foglie di fico ai fini di una sua migliore conservazione.

Tralasciando l’uso del legno di fico usato per intagliare simboli fallici o immagini del dio Priapo (v. La presenza del fico in miti, leggende, credenze, superstizioni e aneddoti e Il fico fra religione e oscenità), interessante appare l’indicazione di Catone (XXXI) relativa ai rami secchi di fico, messi in acqua o sterco ed utilizzati per le fibulae necessarie alla costruzione di un torchio: fibulae di cui si parla anche ai capitoli III, XII, XXVI e LXIX, e che parrebbero essere delle fibbie di aggancio. Singolare è anche l’utilizzo del legno di fico suggerito da Palladio  in XI, 18, dove si legge che la sapa, ovvero il mosto ridotto a 1/3, è migliore se il mosto è cotto assieme a mele cotogne su un fuoco di legno di fico: e, se nei vari contesti agricoli sono molteplici gli usi della cenere, è proprio alla cenere di fico che Palladio consiglia di ricorrere per combattere i bruchi, le locuste e gli scorpioni che possono infestare gli orti (I, 35).

 

Della cenere della pianta, ma anche dei fichi, parlano pure Varrone e Plinio in relazione all’apicoltura.

Nel III libro, al capitolo 16, interamente dedicato alle api, Varrone afferma che le api «traggono dall’ulivo la cera e dal fico il miele, che però non è buono», ribadendo poco dopo che il miele tratto dal fico è insipido; aggiunge poi che, qualora il maltempo non consenta loro di allontanarsi troppo, costringendo le api a nutrirsi del proprio stesso miele, si devono collocare vicino agli alveari dei bocconi ottenuti facendo bollire «in sei congi di acqua circa dieci libbre di fichi grassi», o, in alternativa, dei bocconi ottenuti impastando uva passa, fichi secchi e sapa. Da ultimo, consiglia come comportarsi a fronte di api sorprese dal maltempo e gettate a terra da una forte pioggia: una volta raccolte, le api andranno collocate in un vaso e coperte con cenere di legno di fico, più calda che tiepida; dopo averlo scosso delicatamente, il vaso andrà esposto al sole, e le api, così riscaldate, riprenderanno vita.

Similmente a Varrone, Plinio ci parla di fichi secchi e uva passa da porre davanti agli alveari per le api, quando si pensi che manchi loro il necessario nutrimento (XXI, 48); e, se Varrone affermava che, per riscaldarle e farle rinvenire, fosse un buon rimedio gettarvi sopra della cenere di legno di fico,  Plinio riferisce la leggenda secondo cui, conservando al coperto le api morte durante l’inverno, facendole quindi essiccare al sole di primavera e tenendole poi al caldo tutto il giorno con cenere di fico, esse resuscitassero (XI, 22).

Sull’uso dei fichi nell’apicoltura va infine segnalato un passo di Columella, che, come alimento per le api nella stagione invernale, parla di fichi secchi pestati e stemperati in acqua o in mosto cotto (IX, 14).

 

Quanto alla zoocultura in generale, Varrone insegna che, per ingrassare i tordi,  si devono dar loro bocconi preparati impastando fichi e farro (III, 5); e una ‘ricetta’ simile è fornita da Columella che parla di fichi secchi tritati con cura e mescolati a fiore di farina (VIII, 10). Curioso è infine che i fichi verdi spaccati in due facciano parte dei numerosi tipi di nutrimento consigliati da Columella per i pesci nei vivai (VIII, 17).

 

 

A chiusura del discorso sui fichi, vale la pena di spendere qualche parola sul caprifico, sulle sue proprietà e sul suo utilizzo, a prescindere dalla pratica della caprificazione, che lo vede come ‘attore’ principale.

Il caprifico – ci dice Plinio (XXIII, 64) – ha molte proprietà curative, dimostrandosi talora più efficace dello stesso fico domestico. Ha poco latte, ma suoi ramoscelli sono ugualmente utili a far coagulare il latte, così come contrasta il veleno di certe punture. Frutti, foglie, germogli o cenere sono utilizzabili in molteplici rimedi per aprire le piaghe e stimolare le mestruazioni; per curare gotta, pleurite, polmonite, coliche, idropisia, tetano, dissenterie; per intervenire su scrofole, impetigine, alopecia, foruncoli, escrescenze ungueali, morsi di cane e di topo ragno e di scorpione, ulcere di varia natura e localizzazione, ustioni, infezioni dentarie, ecc. Inoltre, il latte del caprifico, raccolto e reso solido, strofinato sulla carne le dona un gusto gradevole; i germogli giovani e le foglie, mescolati con leguminose, sono efficaci contro i veleni; aggiungendo alla carne bovina dei rametti di caprifico, la carne cuoce molto bene con grande risparmio di legno; i ‘grossi’ (fichi che non giungono a maturazione) del caprifico possono essere usati a scopi diversi per suffumigi e pozioni. Quanto ai rimedi magici, anche al caprifico si attribuisce una proprietà prodigiosa: se un bambino impubere ne spezza un ramo e ne strappa coi denti la corteccia rigonfia di linfa, il midollo della corteccia stessa, legato come amuleto prima del sorgere del sole, tiene lontane le scrofole; messo attorno al collo dei tori, il caprifico li doma prodigiosamente a tal punto da immobilizzare anche i più feroci.

Sul caprifico – come scrive Palladio (IV, 10)  – si può facilmente innestare il fico commestibile: pratica forse non utilizzata anticamente, quando si credeva che la trasformazione di un caprifico in fico fosse di cattivo auspicio (Plinio XVII, 38).

 

Al di fuori di Plinio e dei trattati di agricoltura, infine, il caprifico compare in Marziale, nel già citato epigramma 52 del IV libro, col suo gioco di parole sul cinedo Edilo, che, se non smetterà di «farsi trainare da capri aggiogati», da fico che era diventerà «presto un caprifico»  (v. Il fico fra religione e oscenità);  e ritorna nell’epigramma 2 del libro X, in cui Roma parla così al poeta:  «[…] tu eviterai le acque pigre dell’odioso Lete e la parte migliore di te sopravvivrà alla morte. Il caprifico spacca il monumento marmoreo di Messalla, e il  mulattiere insolente deride i cavalli di Crispo consumati dal tempo; ma alle opere letterarie non nuocciono i furti, si avvantaggiano col tempo, e sono i soli monumenti che non conoscono la morte».

Lo troviamo anche nell’Epodo 5 di Orazio, che descrive un orribile assassinio rituale praticato dalla maga napoletana Canidia su un fanciullo imberbe, per fabbricarsi un filtro magico d’amore col suo fegato disseccato e con le sue midolla: il fanciullo, seppellito in una fossa col volto scoperto, all’inizio supplica; alla fine, dopo un insieme di macabre azioni compiute da Canidia, aiutata da Sagana e Veia, maledice imprecando le tre streghe. All’inizio del rito, Canidia ordina che, oltre ad altri legni e uova ed erbe e piume e ossa, si brucino dei «caprifichi divelti dai sepolcri».

E mi piace concludere con la prima Satira di Persio, che, riflettendo da un lato la visione della vita e del mondo dell’autore, e dall’altro il suo giudizio sulle mode letterarie dell’epoca, rappresenta di fatto il vero proemio dell’opera. È una satira di non facile lettura, in cui si mescolano vari interlocutori senza passaggi chiari; alcuni reputano che il dialogo si svolga sempre fra Persio e un suo amico, che l’ha sorpreso mentre recitava un verso sulla vanità dei problemi e delle preoccupazioni umane, ma l’ipotesi è controversa, e almeno un verso (44) sembrerebbe contraddire la presenza di un solo interlocutore. In ogni caso, i versi che ci interessano (24-25), messi in bocca ad un interlocutore – chiunque esso sia –,  recitano: «Perché aver studiato, se il fermento e il caprifico che ci nacquero dentro, lacerato il fegato, non possono uscire fuori?». Questi versi contengono una bella e vivida immagine di un malcostume poetico identificabile come mania di esibizione: come il fico selvatico – che non dà frutti – alligna tra i ruderi e si fa strada sgretolandoli, così questo desiderio irrefrenabile di esibirsi del poeta alla moda getta vanamente le sue radici nel fegato e lo rompe per poter uscire.