In ambito religioso, la pianta del fico è, nel paganesimo, strettamente collegata ai culti di Demetra, di Dioniso e di Priapo, una divinità di origini relativamente tarde e popolaresche, che, secondo una consolidata tradizione,  era figlio di Dioniso e Afrodite. Nell’iconografia tradizionale, Priapo ha un aspetto grottesco, con enormi organi genitali: simbolo delle forze generatrici della natura, venerato come custode degli orti e dei giardini, le sue immagini – il più delle volte semplici e rozze – erano poste a protezione di orti e giardini, ma decoravano anche sepolcri e porti di mare.

 

Nella Satira ottava del I libro, Orazio fa parlare una statua lignea di Priapo: la statua descrive i sortilegi delle maghe Canidia e Sagana, e, alla fine, racconta di aver messo in fuga le due maghe con una rumorosa ‘emissione d’aria’. La statua è intagliata in un troco di fico (vv. 1-3 Un tempo ero un tronco di fico, un inutile legno, finché l’artigiano, incerto se fare di me uno sgabello o un Priapo, preferì che io fossi il dio), e, in chiusura, rivendica la propria natura di fico (vv. 46-47 …io fico, dischiusa la natica, emisi un peto).

Mirata a combattere la superstizione, è questa una satira di tipo epigrammatico, riconducibile ai Carmina Priapea, ovvero alla raccolta dei novantacinque epigrammi dedicati a Priapo, di datazione incerta, ma probabilmente risalenti ad un'epoca non meglio collocabile tra l’età augustea e la fine del I secolo d. C.. La pianta del fico compare negli epigrammi 51 e 69, che promettono entrambi punizioni per chi vada a rubare nell’orto di Priapo: in particolare, il 69 è dedicato ad un ladro di fichi, con la minaccia esplicita di sodomizzazione. Nel 41, si augura, a chi non sappia improvvisarsi poeta e dedicare versi giocosi a Priapo, di passeggiare ficosissimus fra i poeti eruditi, dove l’aggettivo ficosus ha la connotazione sessuale con cui – non è dato sapere se in data anteriore o posteriore – viene usato anche da Marziale nell’Epigramma 71 del libro VII.

 

Compreso quello appena ricordato, Marziale connota oscenamente il fico in cinque epigrammi.

L’Epigramma 65 del primo libro recita infatti: «Tu ridi, o Ceciliano, quando dico ficus al femminile, come se avessi pronunciato delle parole barbare, e pretendi che si dica ficus al maschile. Noi chiameremo al femminile i frutti che sappiamo nascere su una pianta, chiameremo al maschile i tuoi». C’è dunque un gioco di parole fra l’albero o il frutto (femminile di II o IV declinazione) e il condiloma – ovvero un rigonfiamento anale provocato da penetrazione, o emorroide che dir si voglia (maschile di II declinazione).

Un doppio senso simile si trova in IV, 52: « O Edilo, se non smetti di farti trainare da capri (capris) aggiogati, tu che poco fa eri un fico sarai presto un caprifico». In questo caso, il gioco di parole è esteso ovviamente alla voce composta caprificus (capri ficus). Edilo è un cinedo, un giovane omosessuale (già presente nell’epigramma 46 del libro I), destinato soltanto a peggiorare la propria situazione: come bene sarà chiarito nell’epigramma IX, 57, ancora dedicato a lui, che, iniziato col verso «Non c’è nulla di più logoro del mantello di Edilo (Nil est tritius Hadyli lacernis)», si conclude con la battuta culus tritior Hedyli lacernis, dove bene si capisce quale sia quell’unica cosa (res una) ad essere ancora più logora del suo mantello.

Nell’epigramma VI, 49, abbiamo invece una statua di Priapo che parla di sé: «Io non sono stato scolpito da un fragile olmo, né il mio membro colossale, che se ne sta rigido rivolto in su , è stato ricavato da un legno qualsiasi, ma generato da un cipresso ancora vivo… Chiunque tu sia, o perfido, abbine timore: se infatti danneggerai con mano rapace anche solo i più piccoli ramoscelli di questa vite, per quanto tu non voglia, ti nascerà un fico».

Alla luce del significato osceno attribuibile alla parola ficus, bene si spiega il senso dell’aggettivo ficosus, che compare, come s’è detto, nell’epigramma 71 del VII libro: «Ficosa è la moglie, ficoso anche il marito, e ficosi sono la figlia e il genero e il nipote. E né l’amministratore né il fattore né il rude zappatore ma nemmeno l’aratore sono sprovvisti della turpe ulcera. Essendo tutti, giovani e vecchi, parimenti ficosi, la cosa strabiliante è che unico a non avere fichi sia il podere».

L’epigramma XIV, 86, infine, è intitolato alla sella, e recita: «O cacciatore, prendi le gualdrappe con cui succingere il tuo cavallo: dal nudo cavallo suole infatti crescere un fico» (ovvero, “cavalcare a pelo nudo provoca le emorroidi”).

 

Più tardi, in Giovenale (Satire, II, vv. 11-13), l’accostamento fra il frutto e l’oscena escrescenza carnosa renderà possibile l’estensione del significato anche al termine marisca, varietà di fico molto voluminoso e non tanto appetibile.

Riferendosi ad un cinedo, Giovenale parla infatti di tumidae mariscae (nel chiaro senso di condilomi rettali, o emorroidi): «Tu, per esempio, che sei la più nota cloaca tra i cinedi socratici, come osi prendertela con le nefandezze altrui? Il tuo corpo ispido e quella selva di peli sulle braccia lasciano supporre un animo fiero; ma poi il medico, ridacchiando, ti taglia ‘tumidi fichi’(escrescenze grosse come fichi)».

 

Come si può notare, non è presente nella letteratura latina l’associazione simbolica del frutto con l’organo sessuale femminile: associazione che, secondo molti studiosi, risulterebbe invece presente nella parola greca sykon (fico), di genere neutro, impiegata con significato ambiguo già da Aristofane, nella scena finale della commedia La pace. In realtà, nella letteratura greca conservata, la parola sykon sembrerebbe essere usata ad indicare l’organo femminile solo nel passo ricordato de La pace, che peraltro desta non pochi problemi interpretativi. Vero è che nella commedia greca l’ambito semantico relativo al fico è spesso usato in relazione al sesso, ma il gioco metaforico riguarda non tanto l’organo femminile quanto, semmai, l’insieme dei piaceri legati al sesso.

Nel latino classico, sia l’albero che il frutto erano indicati indifferentemente dal sostantivo femminile ficus, sostantivo considerato prevalentemente della II declinazione, ma declinato talora come della IV: declinazione – quest’ultima – rappresentata peraltro da un numero esiguo di vocaboli, minacciata nella sua esistenza fin dagli inizi della tradizione letteraria, destinata infine ad essere assorbita dalla II. Per quanto concerne la parola ficus, la ‘doppia declinazione’ è attestata a chiare lettere da Varrone, attorno alla metà del I secolo a.C.: Varrone segnala infatti come la maggior parte dei nomi di piante (fra cui appunto il fico) presenti il nominativo singolare in -us, e alterni al plurale -us (IV declinazione) e -i (II declinazione). Sostenitore dell’analogia, Varrone sostiene che si tratti di un errore e che la forma corretta di nominativo plurale sia quella in -i (fici), così come alla II declinazione appartengono il genitivo ficorum, l’accusativo ficos, il dativo e l’ablativo ficis; allo stesso modo, al singolare, sono per lui da considerarsi erronei il genitivo ficus al posto di fici, l’ablativo ficu al posto di fico (De lingua latina, IX,80). Tutt’altro significato assume invece ficus usato al maschile, come si evince dal citato epigramma I, 65 di Marziale: epigramma che però ci fa anche capire come il genere della parola tendesse a passare al maschile anche quando indicava l’albero o il frutto («Tu ridi, o Ceciliano, quando dico ficus al femminile, come se avessi pronunciato delle parole barbare, e pretendi che si dica ficus al maschile»). Del resto, nella storia della morfologia si registrano numerose ‘confusioni’ di genere – tra neutro e femminile, fra maschile e neutro, o, come nel nostro caso, fra femminile e maschile –: nei nomi di alberi in -us, che erano originariamente femminili (alnus , fagus, fraxinus, pirus, pomus, populus…ontano, faggio, frassino, pero, albero fruttifero, pioppo…), si nota infatti una costante tendenza di passaggio al maschile, e il fico non fa eccezione.

La parola ficus è dunque connotata da una duplice confusione: innanzi tutto di declinazione, ma anche di genere.

Per quanto concerne il genere, nel latino tardo fu introdotta – ben testimoniata a partire dal X secolo – la differenziazione fra l’albero (ficus maschile della II declinazione) e il frutto (fica, femminile della I declinazione): e i due termini furono a lungo conservati anche nella lingua italiana, sia in testi di natura per così dire tecnica, sia, soprattutto, nel parlato, come dimostra ampiamente la persistenza del femminile “fica” (o “figa”) in numerosi dialetti, soprattutto al sud (mi limito a ricordare la “Festa della fica” che si tiene in agosto nel Basso Salento).

Sennonché, nel tempo, quella “fica”, frutto di una pianta da sempre legata alla sfera  della fecondità e delle forze generatrici della natura, finisce per essere ricondotta alla sfera sessuale femminile, ed ‘identificata’, per la sua somiglianza – da sezionata –, con gli organi genitali esterni della donna. Non è dato sapere a quando precisamente risalga, in Italia, questa assunzione di senso, diventato poi primario: certo è che l’affermarsi del maschile “fico” sia per il nome dell’albero che per quello del frutto, contrariamente alla consuetudine linguistica che vorrebbe l’albero al maschile e il frutto al femminile, non può non avere a che fare con la ‘risemantizzazione’ del femminile “fica”, come dimostra indirettamente il fatto che il nome del frutto sia rimasto al femminile nelle lingue romanze in cui “fica” non ha assunto alcun significato metaforico (così avviene ad esempio nel francese, dove l’albero è il maschile “le figuier” e il frutto il femminile “la figue”).

Quanto all’ingresso della parola “fica” nel lessico sessuale, esso dovette essere abbastanza precoce, conformemente a quella costante necessità umana di autocensurare il linguaggio, e di ricorrere all’allusione per ‘rimuovere’ ciò che viene avvertito come immediatamente ‘osceno’, per non nominare direttamente un oggetto indicibile. In ogni caso, a prescindere dal controverso gesto delle “fiche” di cui parla già Dante nel canto XXV dell’Inferno, la novella 72 del Trecentonovelle di Franco Sacchetti attesta come nel XIV secolo il significato metaforico fosse ben conosciuto. Nella novella in questione, troviamo infatti un frate, capace di attirare le folle alle sue prediche per il modo ridicolo di esprimersi, che, trovandosi al mercato davanti ad una venditrice di «fichi», la apostrofa dicendo «O donna, quante fiche date vui per un danaro?»: il che, se dimostra che nel parlato il nome del frutto poteva essere al femminile, dimostra pure, nel contesto, che il termine “fica” si prestava ad una ben diversa interpretazione; e dimostra anche che quel termine – quella metafora – era ormai così diffusamente intesa da avere assunto anch’essa una connotazione oscena, tale da farla considerare sconcia, volgare…e nuovamente censurabile.