Una delle prime attestazioni del sostantivo rancor si trova nel trattato sull’agricoltura di Rutilio Tauro Emiliano Palladio, l’Opus agriculturae o De re rustica, ed è usato in relazione alla conservazione dell’olio. I recipienti dell’olio – scrive infatti Palladio – dovranno essere sempre puliti, «ne novos sapores infecta veteri rancore corrumpant – a che, contaminati dalla vecchia rancidezza non corrompano il sapore dell’olio novello» (I, 20); e ancora, «Canales sane et omnia receptacula olei calida aqua prius lavabis, ut nihil de anni praeteriti rancore custodiant – Dovrai innanzi tutto lavare con acqua calda i canali attraverso cui l’olio colerà e tutti i ricettacoli, affinché non conservino nulla della rancidezza dell’olio dell’anno precedente» (XI, 10). Palesemente, il sostantivo è usato nel suo significato etimologico: rancor ha infatti la stessa radice di rancere (essere rancido, putrido, fetido): verbo usato al participio da Lucrezio ([…] cadavera rancenti iam viscere vermis exspirant – i cadaveri fanno brulicare vermi dalle viscere che imputridiscono (La natura delle cose, III, 719-20), che dà origine anche al più comune aggettivo rancidus.

Col significato ben più noto di “rancore” è attestato invece in due epistole di San Girolamo (347-420)  (la 13 alla zia materna Castorina, che appartiene ad un gruppo di lettere scritte tutte tra il 374 e il 377; e la 81 a Rufino di Aquileia, collocabile attorno al 399/402). E lo troviamo anche in Sant’Agostino, forse non casualmente in una sua epistola – la 73 del 404 – indirizzata proprio a San Girolamo, e relativa proprio alla sua più recente inimicizia con Rufino: Agostino ha infatti ricevuto l’Apologia contro Rufino di Girolamo, si mostra addolorato per la discordia fra quelli che erano due grandi amici, e si augura la loro riconciliazione.

Nell’Epistola 13, Girolamo si rivolge alla zia, con la quale non era palesemente nelle migliori relazioni, esortandola a superare i reciproci dissidi e a riappacificarsi. Citando Giovanni evangelista, Girolamo afferma che spesso l’omicidio nasce dall’odio (ex odio), e dunque chi prova odio è un omicida nell’anima; scrive questo – continua – a che entrambi, veteri rancore deposito («deposto il vecchio rancore»), preparino a Dio un anima pacificata e pura. «Irascimini, inquit David, et nolite peccare – prosegue –. Hoc quid velit intellegi, apostolus plenius interpretatur: sol non occidat super iracundiam vestram / Dice Davide “Adiratevi, ma non peccate”. E ciò che vuole affermare è espresso più compiutamente dall’apostolo: “Non tramonti il sole sopra la vostra collera”». Conclude infine confessando di avere anch’egli, come lei, conservato l’ira (iram) per troppo tempo, e invitandola a recuperare il loro reciproco rapporto: se lei non volesse farlo, la propria lettera, con la richiesta di riappacificazione e l’ammissione delle proprie colpe, garantirà comunque a lui l’assoluzione di fronte al tribunale divino.

 L’Epistola 81 riconduce al rapporto di Girolamo con Rufino, al diverso giudizio e all’annosa polemica dei due sull’ortodossia della dottrina di Origene. L’occasione immediata è la traduzione fatta da Rufino del trattato di Origene Peri Archon / Sui princìpi, di cui Girolamo ha avuto modo di leggere una copia: nella prefazione, si è sentito «oblique, immo aperte / indirettamente, o piuttosto direttamente» attaccato, e, in nome della loro amicizia e dell’avvenuta riconciliazione, invita l’amico e i suoi alla moderazione: «Quod quereris stomacho suo unumquemque servire – scrive – […] conscientiae nostrae testis est Dominus, post reconciliatas amicitias nullum intercessisse rancorem, quo quempiam laederemus. Sed quid possumus facere, si unusquisque iuste putat se facere quod facit, et videtur sibi remorderi potius quam mordere? / Dal momento che ti lamenti del fatto che ognuno è schiavo della propria bile […], Dio è testimone della mia coscienza che, una volta riconciliato coi miei amici, non interviene più nessun rancore che possa indurmi a fare torto ad alcuno. Ma cosa posso fare se ogni uomo pensa di avere ragione nel fare ciò che fa, e immagina di essere morso (di respingere un’ingiuria) invece di essere lui a mordere (ad ingiuriare)?»

Dal canto suo, Agostino, nell’ Epistola 73, così si rivolge a Girolamo, in risposta ad una lettera di quest’ultimo, che – afferma – lo ha in parte ferito: dopo avere messo in dubbio l’autenticità della copia di una lettera a lui pervenuta a nome di Agostino, Girolamo chiede infatti a quest’ultimo di scrivergli schiettamente se quella lettera è sua, o, in alternativa, di inviargliene un’altra copia con maggior garanzia d'autenticità, in modo da potere intrattenersi a discutere con lui sulla sacra Scrittura absque ullo rancore stomachi («senza alcun rancore prodotto da travasi di bile). «Quo pacto enim possumus in hac disputatione sine rancore versari, si me laedere paras? […] quis locus nobis relinquitur in disputatione Scripturarum sine ullo rancore versandi? […] Ibi rursus acerrimis dolorum stimulis fodior, dum cogito inter vos, quibus Deus hoc ipsum quod uterque nostrum optavit, largum prolixumque concesserat, ut coniunctissimi et familiarissimi mella Scripturarum sanctarum pariter lamberetis, tantae amaritudinis irrepsisse perniciem, quando non, ubi non, cui non homini formidandam / In che modo potremmo infatti intrattenerci senza rancore in tali discussioni se sei pronto ad offendermi? […] Che luogo ci resta per intrattenerci senza alcun rancore nella discussione sulle Scritture? […] D'altra parte però mi sento trafitto da un dolore acutissimo nel pensare che tra voi due, ai quali Dio aveva concesso, in larga misura e per sì lungo tempo, il desiderio nutrito da entrambi noi, di assaporare nel più stretto rapporto di familiarità le dolcezze della sacra Scrittura, si sia infiltrato il flagello di un così amaro fiele, sempre, dovunque e per chiunque rovinoso».

Come si può facilmente notare, sono individuabili notevoli analogie fra i vari passi: al veteri rancore di Palladio corrisponde infatti il veteri rancore dell’Epistola 13 di Girolamo; collegato al rancore, lo stomacho dell’Epistola 81 di Girolamo ha una ripresa nel rancore stomachi dell’epistola 73 di Agostino, e, sempre in quest’ultima epistola, anche tantae amaritudinis perniciem riconduce a quel sapore amaro che, causato dalla bile, prorompe dall’interiorità, contaminando l’anima.

Due sono, fondamentalmente, gli interrogativi che questi passi nel loro insieme sollevano: uno, più concreto, collegato per così dire alla ‘nascita’ della parola rancor nel significato a noi più familiare; l’altro, più astratto, e sicuramente più complesso, relativo al significato più profondo della parola “rancore” suggerito dalla sua etimologia.

Per quanto concerne le occorrenze di rancor nel linguaggio agricolo, col suo significato etimologico di “rancidezza”, “sapore di rancido”, almeno per quanto concerne la tarda latinità e il Medioevo, ne parrebbe accertata la presenza solo nei due passi citati del trattato del Palladio, mentre la prima attestazione del suo significato astratto – quello che nei secoli diventerà l’unico significato – si trova sicuramente nell’Epistola 13 di Girolamo.

Moreno Campetella, a quanto mi risulta studioso di lessicologia diacronica e particolarmente interessato ai linguaggi tecnici e ai loro neologismi, scrive al riguardo: «Il semantema “rancidezza” è attestato solo in questi due passi dell’Opus agriculturae, ed è da considerarsi una specializzazione tecnica creata a partire dall’accezione astratta di “rancore, risentimento”, molto diffusa fin dalla seconda metà del IV sec. (Hier. Ep. 81, 1; 134, 1). Come nel caso di excodicare, menzionato sopra (§ 2.1), rancor è da considerarsi, in questo contesto, come un esempio tipico di influsso diretto del linguaggio dei cristiani sul lessico agricolo. L’impronta sul tecnoletto sarebbe qui ancora più marcata se è vero che questo vocabolo è ‘esclusivo dei cristiani’, a partire da Agostino» (I neologismi tecnici dell’Opus Agriculturae di Palladio: l’influenza della terminologia agronomica latina sui derivati romanzi, https://lingue-antiche-e-moderne.it/article/view/1031, pp. 84-118, p. 108). Ora, io non sono un’esperta né di lessicologia diacronica né di linguaggio agricolo, ma, da sempre, la metafora verbale – e rancor nel significato di rancore è necessariamente da considerarsi una metafora – sottintende il rinvio a realtà ed esperienze materiali; inoltre, fra queste realtà ed esperienze materiali, l’agricoltura è alla base non solo della civiltà ma anche della lingua dei Romani, se è vero che proprio dal mondo agricolo derivano tutta una serie di parole capaci anche di caricarsi di significati traslati. Pare dunque logico supporre che sia stato il cristianesimo – meglio ancora, Girolamo – ad impadronirsi di un termine agricolo, tecnico, sicuramente di immediata comprensione, come appunto rancor – meglio ancora, vetus rancor – trasformandone metaforicamente il significato: e tale premessa consente a mio avviso di ipotizzare legittimamente che rancor, riferito al “sapore di rancido” assunto dall’olio, appartenesse al linguaggio agricolo, e che da lì il Palladio lo abbia ripreso, escludendo che il suo uso rientri nel discorso su quei «fenomeni neologici di varia natura, slittamenti semantici o vere e proprie neoformazioni lessicali, che toccano quasi tutti gli aspetti dell’agricoltura e della botanica», che, secondo Campetella, interessano il linguaggio palladiano (p. 85). Perplessità simili, con motivazioni identiche, riguardano peraltro anche il caso di excodicare, trattato in precedenza.   Se poi, a sostegno dell’ipotesi di Campetella, ci si volesse appoggiare sul rapporto temporale fra le varie ricorrenze della parola rancor, aggiungerei che la cronologia del Palladio è talmente incerta da rendere impossibile stabilire la posteriorità del suo trattato rispetto a Girolamo e ad Agostino: le datazioni relative a lui e alla sua opera sono infatti estremamente oscillanti, e ne riconducono la vita ad un arco temporale imprecisato fra la seconda metà del IV e la prima metà del V secolo.

Venendo ora al significato di “rancore”, oserei affermare che tanto Girolamo quanto Agostino, nell’usare la parola rancor, sembrano avere ben presente il suo significato etimologico, dal momento che entrambi, collegandolo in qualche modo allo ‘stomaco’, gli attribuiscono il ‘sapore’ della bile, usando una metafora verbale che rinvia direttamente ad una ben nota esperienza sensoriale di gusto: e questo rancore, che porta a nutrire inimicizia, ad attaccare e ferire e offendere l’altro, contamina l’anima, così come i residui non completamente eliminati dell’olio vecchio corrompono il sapore dell’olio novello. L’Epistola 13 di Girolamo istituisce poi apertamente un legame molto stretto del rancore (rancor) con l’odio (odium), nel senso che proprio all’odio – e alla terribile violenza che dall’odio può derivare – conduce il rancore troppo a lungo covato; e, contestualmente, stabilisce un innegabile rapporto logico fra rancor, iracundia e ira.

È ben noto come l’ira sia, per il cristianesimo, uno dei sette vizi capitali: meno noto è forse il fatto che «i sette vizi capitali hanno, come ogni cosa, una storia», e che questa storia inizia di fatto alla fine del VI secolo, col Papa Gregorio Magno. Ciò significa che Girolamo è per così dire ‘fuori’ da questa storia, e che le sue parole sull’ira vanno viste ed interpretate alla luce delle riflessioni che su questa passione hanno attraversato i secoli a lui precedenti e gli anni a lui contemporanei: «pesa infatti sull’ira un dibattito plurisecolare che attraversa la patristica greca e latina per affondare le radici nel mondo classico», e, in questo dibattito, ha un certo peso anche «la strutturale ambivalenza con cui il tema dell’ira viene affrontato nella tradizione ebraico-cristiana. Non c’è dubbio che il Nuovo Testamento proponga nel Cristo un modello di mitezza e mansuetudine […]; ma è altrettanto vero che nella Bibbia e nello stesso Vangelo sono rintracciabili spunti di segno completamente diverso» (C. Casagrande e S. Vecchio, I sette vizi capitali, Einaudi 2000, pp. XI, 54-56): fra questi “spunti”, è innegabile che il versetto del Salmo 4,5 «Adiratevi, ma non peccate», citato da Girolamo, fornisca all’ira una certa giustificazione, ma quest’ira dev’essere qualcosa di momentaneo, una collera da cancellare prima che la giornata finisca, prima che su di essa «tramonti il sole» (Efesini, 4, 26). Insomma, se lo scatto di collera può essere naturale, Dio proibisce che quello stato di iracundia perduri: Dio proibisce – potremmo dire – che si trasformi in rancor, sfociando poi nell’odio. La pericolosità del rancore è ribadita anche nell’Epistola 81 di Girolamo e nell’Epistola 73 di Agostino, in entrambe le quali rancor è strettamente associato al verbo laedere (danneggiare, fare torto, oltraggiare): e, riferendosi palesemente al rancore, Agostino parla addirittura del «flagello di un così amaro fiele, sempre, dovunque e per chiunque rovinoso».

Abbiamo detto che la storia dei sette vizi capitali inizia col Papa Gregorio Magno: più precisamente, inizia nelle pagine dei suoi Moralia in Job, un corposo commento al Libro di Giobbe, che segnò profondamente tutta la cultura medievale. Nel libro (XXXI 45, 87-88), Gregorio Magno elenca i vizi, affermando che la Superbia è la radice di tutti i mali e che da essa derivano sette vizi principali, ovvero la Vanagloria, l’Invidia, l’Ira, la Tristezza e l’Avarizia, qualificati come vizi spirituali, nonché la Gola e la Lussuria, considerati vizi carnali. Ognuno di questi vizi ha un suo esercito: dalla Vanagloria derivano, ad esempio, disobbedienza, iattanza, ipocrisia, contese, caparbietà, discordie e aspettative di novità; dall’Invidia, l’odio, le chiacchiere, la diffamazione, l’esultanza per le disgrazie del prossimo e l’afflizione per la sua prosperità; dall’Ira, le risse, la sovraeccitazione, le offese, le urla, le invettive, le bestemmie. Vi compare anche il rancore (rancor), che però, diversamente da quanto ci si potrebbe aspettare, non è associato all’ira, ma figura fra i ‘soldati’ della Tristezza (quella che poi, ben più tardi, diventerà l’Accidia), assieme alla malvagità, alla pusillanimità, alla disperazione, all’indolenza nell’adempimento dei precetti e alle divagazioni mentali sul proibito (malitia, rancor, pusillanimitas, desperatio, torpor circa praecepta, vagatio mentis erga illicita). La presenza nel testo di Gregorio, con la sua immensa diffusione nei secoli posteriori, può spiegare anche la fortuna del termine rancor nel suo significato ‘cristiano’: una fortuna che, soprattutto a partire dal XIII secolo, ha scavalcato l’ambito più strettamente cristiano, estendendosi a tutti i campi della letteratura, sia latina che volgare, e giungendo fino a noi, con tutte le complesse sfumature di significato sedimentatesi nel tempo.

 

Fatte queste considerazioni, resta da chiedersi in che modo si potesse indicare il rancore, quando la parola rancor non esisteva ancora: in che modo potessero indicare e definire questa multiforme emozione gli autori latini anteriori all’avvento del Cristianesimo.

I vocabolari dall’italiano al latino forniscono diverse opzioni per tradurre “rancore”, ovvero ira, iracundia, odium, dolor, simultas, inimicitia; e, in effetti, in diversi testi latini, queste parole, a seconda dei contesti, possono essere rese proprio con l’italiano “rancore”: sennonché, almeno in alcuni casi, l’uso di “rancore” può risultare fuorviante, o far perdere, quantomeno, delle sfumature significative.

Nel De ira di Seneca, ad esempio, la parola “rancore” compare in alcune traduzioni a fronte dei termini latini dolor/dolere o simultates: mi riferisco, in particolare, a I, 2, 5 – I, 12, 2 e III, 37,5. Nel primo passo, Seneca parla della reazione dei bambini che, quando cadono, si adirano e se la prendono con la terra contro cui hanno sbattuto; e allora, per calmarli, si finge di picchiare quella terra, si finge che la terra porga loro le sue scuse, et falsa ultione falsus dolor tollitur: frase in cui dolor viene appunto reso con “rancore” («una vendetta inconsistente pone fine ad un ‘rancore’ inconsistente»). In I, 22, 2, si legge: «Vogliono percuotere mio padre? Lo difenderò. Lo hanno già percosso? Lo vendicherò, perché è mio dovere, non per ‘rancore’ (quia oportet, non quia dolet)». Dopo dolor e dolere, in III, 37,5 troviamo infine simultates: «Non aequis quendam oculis vidisti, quia de ingenio tuo male locutus est: recipis hanc legem? Ergo Ennius, quo non delectaris – scrive Seneca – odisset, et Hortensius simultates tibi indiceret et Cicero, si derides carmina eius, inimicus esset / Hai guardato di malocchio un tale che ha parlato male del tuo talento: accetti questa legge? Dunque, Ennio, che non ti piace, ti dovrebbe odiare, e Ortensio dovrebbe rendere manifesto il proprio ‘rancore’, e Cicerone, se deridessi i suoi versi, dovrebbe esserti nemico». A mio modesto avviso, nel primo dei tre passi il dolor provato dai bambini non sembra riferirsi al “rancore”, quanto piuttosto ad una reazione emozionale di frustrazione, direi dunque alla “rabbia”; e lo stesso vale per il secondo passo, dove dolet riconduce ugualmente ad una emozione incontrollata, alla “collera”, o forse meglio allo “sdegno”. Quanto a simultates, il significato etimologico di simultas  (disaccordo fra simili, da insimul) nonché il contesto, riconducibile ad inimicizie letterarie, suggerisce che non si tratti proprio di “rancore”, ma piuttosto di “rivalità”: certo, non una legittima rivalità, ma un sentimento che, collegato all’invidia tramite l’espressione non aequis oculis videre – e invidia è in-videre, ovvero proprio “guardare di malocchio” –, se non controllato potrebbe tramutarsi in rancore, ma non lo è automaticamente.

Se è vero che, nel tradurre dal latino all’italiano dolor, o simultas, o inimicitia, ecc., l’uso di “rancore”  può dare adito talora a qualche dubbio, altrettanto vero è il contrario: si verificano cioè casi in cui “rancore” parrebbe essere la traduzione preferibile, mentre se ne propongono altre. Mi riferisco nello specifico a sette passi, per la gran parte tratti da Cicerone, in cui si parla di “odium occultum” (nesso, quest’ultimo, usato anche da Tacito), “odium compressum”, “odium tacitum”,  “odium inclusum”: queste espressioni possono certo essere tradotte letteralmente (“odio nascosto”, “odio compresso”, “odio silenzioso”, “odio accumulato dentro”), ma, sulla base dell’espresso richiamo alla interiorità, ad un sentire nascosto nel profondo, alla non-azione, e ricordando anche la contiguità fra rancor e odium stabilita da Girolamo nell’Epistola 13, credo che il loro significato riconduca espressamente al sentimento del “rancore”.

Nella Orazione in difesa di Murena, accusato di corruzione e brogli elettorali dal rivale Servio Rufo, rivolgendosi proprio a lui, Cicerone elenca una serie di ‘errori’ commessi da Servio, e, in particolare, l’abuso delle denunce, nonché le richieste di inasprimento delle pene che non potevano non causargli pregiudizio nel suo concorrere al consolato: lui stesso – afferma – aveva persino voluto che i giurati fossero scelti dagli accusatori, «ut odia occulta civium quae tacitis nunc discordiis continentur in fortunas optimi cuiusque erumperent / così che i rancori dei cittadini, ora limitati a tacite discordie, venissero allo scoperto e avessero sfogo, ricadendo sulle sorti di ogni ottimo cittadino» (XXIII, 47). Qualche anno dopo, nell’Orazione sulla propria casa (De domo sua), pronunciata nel 57 e diretta ad ottenere l'area e i fondi per ricostruire la casa confiscatagli durante l'esilio, Cicerone ricorda la congiura di Catilina, rivendica il proprio ruolo di difesa dei buoni cittadini e afferma di avere ricevuto su di sé, sul proprio corpo, «omnem impetum discordiarum, omnem diu conlectam vim improborum, quae inveterata compresso odio atque tacito iam erumpebat nancta tam audaces duces / tutto l’impeto delle discordie, tutta la violenza dei malvagi accumulatasi da tempo, che, radicatasi in profondità per un rancore compresso e silenzioso, veniva allo scoperto e trovava sfogo, avendo trovato capi così temerari» (62-63).

Nella Orazione contro Pisone (In Pisonem oratio), del 55 a. C., pronunciata in risposta agli attacchi subiti dal console, Cicerone lo accusa di avere scaricato su di lui «omne odium inclusum nefariis sensibus impiorum  / ogni forma di rancore rinchiuso nel sentire distorto di uomini scellerati».

In una lettera all’amico Lentulo del 54, in relazione a Crasso, che lo aveva indebitamente attaccato afferma di aver ‘preso fuoco’ non solo per uno scoppio d’ira del momento (non solum praesenti iracundia) «sed, cum inclusum illud odium multarum eius in me iniuriarum, quod ego effudisse me omne arbitrabar, residuum tamen insciente me fuisset, omne repente apparuit / ma perché ad un tratto venne fuori tutto il rancore accumulatosi dentro di me a seguito delle sue molte scorrettezze nei miei confronti, che io ritenevo di avere interamente scacciato, ma di cui evidentemente mi ero tenuto in corpo un avanzo senza rendermene conto» (Epistulae ad familiares, I, 9, 20). Nella medesima epistola, ritorna anche l’espressione odia occulta , laddove Cicerone, riferendosi al proprio rientro a Roma dopo l’esilio – rientro reso possibile soprattutto grazie a Lentulo –, racconta di come, già nei primi momenti, molte cose ferissero la propria sensibilità, quando, a fronte dell’impegno di Lentulo per restituirgli appieno la sua dignità, percepiva, nei propri confronti, «aut occulta nonnullorum odia aut obscura […] studia / o i rancori o il sostegno ambiguo di alcuni» (Epistulae ad familiares, I, IX, 5).

Quanto a Tacito,   nel capitolo XXXIII del libro I degli Annali, ci parla delle preoccupazioni nutrite da Germanico alla morte di Augusto, e dovute ai rancori (occultis odiis) nutriti nei suoi confronti dallo zio Tiberio e dalla nonna Livia Drusilla: rancori che sembrano ricondurre palesemente all’invidia, perché le loro motivazioni sono definite da Tacito ingiuste (iniquae), e proprio per questo più forti (acriores). Germanico – continua Tacito – era infatti affabile, ricco di umanità, amato dal popolo, e ben diverso nell’aspetto e nell’atteggiamento da Tiberio con la sua arroganza e la sua indole chiusa. Sempre negli Annali, oggetto del capitolo 64 del libro III è poi il ritorno a Roma dell’imperatore Tiberio, dovuto alle gravi condizioni di salute della madre: ritorno – commenta Tacito – causato o da sincerità di rapporti fra madre e figlio, o «occultis odiis / da rancori». Nonostante vengano forniti due motivi alternativi, il prosieguo rende chiara la propensione per il secondo: si racconta infatti che, in occasione della consacrazione di una statua, la madre aveva scritto il proprio nome prima di quello di Tiberio, e si credeva che Tiberio avesse considerato il fatto come lesivo della propria maestà, si fosse sentito offeso e avesse nascosto nel profondo il suo grave e dissimulato disappunto.

 

Ritornando infine alla nascita del neologismo semantico rancor = rancore, particolarmente interessante mi sembra una riflessione di Seneca, presente nel già citato dialogo su L’ira: «Tutte le altre suddivisioni, con cui i Greci designano le sottospecie dell’ira, con ricca terminologia, le lascio cadere perché – vi si legge –, in latino, non esistono vocaboli appropriati, anche se noi usiamo gli aggettivi amarum (irritabile), acerbum (scostante), ed anche stomachosum (collerico), rabiosum (rabbioso) clamosum (scorbutico) difficilem (suscettibile)  asperum (intrattabile), che esprimono altrettante sottospecie dell’ira; a questi puoi infine aggiungere morosum (lunatico), una varietà raffinata di ira. Ci sono delle ire che si limitano al gridare, altre sono tanto ostinate quanto frequenti, altre sono pronte alle vie di fatto ed avare di parole, altre si sfogano nell’amarezza dell’ingiuria, altre ancora non vanno oltre la lagna ed il brontolio, altre sono profonde, opprimenti, introrsus versae (introverse), e ci sono mille altri aspetti di questo male dai tanti volti» (De ira, I, 4, 2-3). Queste considerazioni sono interessanti per due ragioni: la prima è il riconoscimento della limitatezza del vocabolario latino, dell’inesistenza in latino di «vocaboli appropriati» per definire le varie facce e sottospecie di “ira”; la seconda consiste nella locuzione “ira introrsus versa”, un’ira profonda e opprimente, un risentimento non manifestato apertamente, ovvero qualcosa di molto simile al neologismo cristiano rancor.

 

Poche parole di conclusione.

Tutti noi sappiamo più o meno cosa significhi “provare rancore”, ma, trattandosi di una emozione complessa, non è facile dare di “rancore” una definizione inequivocabile. Alcuni dizionari lo definiscono come un «risentimento nascosto», o un «forte risentimento», o «malanimo», o un «sentimento di odio represso (o nascosto)», o una «rabbia inespressa ovvero non esternata», oppure, più dettagliatamente, un «sentimento di odio, sdegno, risentimento profondo, non manifestato apertamente, ma tenuto nascosto e quasi covato nell’animo», o un  «sentimento di avversione profonda, di risentimento verso una persona, un ambiente, una situazione, specialmente maturato in seguito a un’offesa o a un torto e non manifestato apertamente». Le diverse citazioni riportate ci dicono che, fin dalla nascita della parola, il rancore è tutto questo, ma è anche di più: è qualcosa che avvelena l’anima, che attiene all’ira e alla tristezza – o accidia che dir si voglia –, ma anche all’invidia e, in qualche modo, alla superbia. Il rancore è un tarlo dell’anima, è la putrefazione dei pensieri, è un qualcosa di ben nascosto nell’interiorità: molto vicino in questo al vizio dell’invidia, che si rivela doloroso per chi ne è schiavo. E il vizio dell’invidia si lega a sua volta alla superbia, tanto che spesso proprio nella superbia è stata indicata l’origine dell’invidia: perché solo chi si ritiene superbamente superiore agli altri vede nel ‘successo’ altrui – ricchezze, felicità, salute, potere, bellezza, ecc. – una minaccia per la propria superiorità. Il rancore può essere individuale, ma anche collettivo; può diventare una malattia sociale, ed assumere un ruolo di destabilizzazione: come l’ira, l’accidia, l’invidia e la superbia, è estremamente pericoloso, perché, provocando malevolenza, diffidenza, sospetti, odio, contribuisce a disgregare la collettività e ad innescare temibili focolai sociali.