La metafora della vita o del mondo come spettacolo teatrale o palcoscenico, e degli uomini come attori ha origini antiche: è infatti Platone che, nel dialogo Filebo (IV secolo), fa dire a Socrate: «nei lutti, e nelle tragedie, e nelle commedie, e non soltanto nelle rappresentazioni drammatiche, ma anche in tutta quanta la tragedia e la commedia della vita, come in altri casi infiniti, dolori e piaceri sono mescolati insieme» (29, 50b).

Ed è lo stesso Platone che poi, nel dialogo Le leggi, per bocca di un anonimo Ateniese, paragona gli uomini a marionette azionate da una divinità (I, 13, 644e-645d).

 

Sarebbe impossibile cercare di offrire una panoramica completa di tutti gli autori, di tutte le personalità, che, attraverso i secoli, hanno fatto uso di metafore simili sulla vita, paragonando ad una maschera teatrale il ruolo che ognuno riveste sul palcoscenico del vivere.

Per quanto concerne l’età moderna, basti ricordare che, in ambito filosofico, il problema della maschera rappresenta di fatto il problema del rapporto tra essere e apparenza, e conseguentemente il concetto di maschera è presente, ad esempio, in Schopenhauer, in Kierkegaard, in Nietzsche; così come lo ritroviamo in ambito psicanalitico, con Freud e Jung. Nella letteratura italiana, la maschera è la tematica forse più importante di Pirandello. In forme diverse, a partire dal XVI secolo, la metafora compare in scrittori – più o meno noti – di tutte le epoche e di tutte le nazionalità, come ad esempio William Shakespeare, François de La Rochefoucauld, William Hazlitt, Victor Hugo, Nathaniel Hawthorne, Robert Michael Ballantyne, Oscar Wilde, Anton Cechov, William Somerset Maugham, Seán O’Casey, Fernando Pessoa, Jean Rostand, Marguerite Yourcenar, Elias Canetti, Emil Cioran, Charles Bukowski, Gesualdo Bufalino, Milan Kundera…

 

Nel 1959, il sociologo canadese (naturalizzato statunitense) Erving Goffman pubblicava il suo saggio The Presentation of Self in Everyday Life, tradotto in Italia nel 1969 col titolo La vita quotidiana come rappresentazione. In questo saggio, a un certo punto si legge: «non è un caso che la parola ‘persona’, nel suo significato originale, volesse dire maschera […] Noi impersoniamo vari ruoli e in questi ruoli conosciamo noi stessi» (Il Mulino, Bologna 1997, p. 31).

E, in effetti, l’uso comune a molte lingue ‘europee’ di parole derivate dal  latino persona (persona, personne, person, persuna, persoană) per indicare l’individuo umano – uso peraltro già evidenziato da altri ben prima di Goffman – è sicuramente significativo, proprio per il fatto che il primo significato di persona, in latino, era appunto “maschera”. Più esattamente, la parola indicava la maschera dell’attore, che copriva tutta la testa, e che si presentava diversa a seconda dei caratteri rappresentati: di qui il suo significato secondario – ma pur sempre relativo alla scena – di “carattere”, “parte”, “ruolo”, “personaggio”. In un secondo momento la parola assunse poi un significato traslato, passando ad indicare anche il “ruolo” che ogni individuo interpreta nel mondo, e giungendo infine ad assumere il significato di “persona”, inteso per lo più astrattamente   come “personalità”, “individualità”, “carattere”.

 

Lo slittamento di significato è ben testimoniato da alcuni passi del trattato Sui doveri  (De officiis) di Cicerone, in cui l’autore, cercando di spiegare cosa sia il decorum, ovvero quale debba essere per ognuno il comportamento giusto da assumere, usa proprio la metafora della persona – della maschera – che diventa “carattere”, “individualità”.

Leggiamo i passi del libro I in questione. 

Dopo avere asserito che del decorum si possono dare due definizioni, Cicerone chiarisce come una, più generale, lo identifichi con una sorta di virtù suprema, che esprime la parte più nobile dell’essere umano, che distingue l’uomo dagli animali e lo rende migliore; d’altro canto, l’altra, di senso più ristretto e subordinato al precedente, riconduce il decorum stesso al comportamento dei singoli, ed indica ciò «che è conforme alla natura di ciascuno» (96), ciò che risulta appropriato per ciascuno. Per chiarire meglio il concetto, Cicerone continua poi parlando del decorum «al quale tendono i poeti»: decorum che si considera  rispettato solo quando i singoli personaggi agiscono e parlano in modo conforme alla loro propria “maschera” (persona). Nessuno infatti applaudirebbe – commenta – se, sulla scena, il personaggio di un uomo giusto si esprimesse con parole a lui sconvenienti, mentre scoppierebbero applausi qualora quelle stesse parole fossero pronunciate da un altro: qualora, cioè, il linguaggio di quest’ultimo fosse «conforme al suo carattere (persona)». Sennonché  – conclude –, i poeti possono capire  «dal carattere (ex persona) dei singoli personaggi» quali tratti convengano a ciascuno di essi; gli uomini devono invece conservare il carattere (persona) che la natura ha loro imposto e che li innalza sopra tutti gli altri esseri viventi (97). Se dunque i poeti, nella grande varietà dei caratteri (magna varietate personarum), devono scegliere quale condotta e quale linguaggio si addicano ai vari personaggi, compresi i viziosi, gli uomini devono osservare la legge della natura, che assegna loro le parti della coerenza, della moderazione, della temperanza e della discrezione (98). 

La metafora della persona – della maschera – si fa ancora più chiara al capitolo 107:

«La natura ci ha come dotati di due personae – di due maschere –: l’una è comune a tutti, e fa sì che tutti siamo partecipi della ragione, ovvero di quella eccellenza che ci rende superiori alle bestie […] L’altra è quella che la natura ha assegnato ai singoli: e come ci sono grandi dissomiglianze nei corpi – vediamo alcuni che per l’agilità sono idonei  alla corsa, altri che per la robustezza lo sono alla lotta, e similmente, nelle sembianze, in alcuni c’è bellezza, in altri leggiadria –, così esistono differenze anche maggiori per ciò che riguarda gli animi». 

E non basta: perché, in realtà, ognuno di noi ‘indossa’ altre due maschere. «Alle due personae di cui ho parlato in precedenza – scrive infatti Cicerone al capitolo 115 – se ne aggiunge una terza, che ci è imposta dal caso o dalle circostanze, e anche una quarta, che siamo noi stessi a scegliere. I regni, i ruoli di comando, la nobiltà, gli onori, le ricchezze, i fasti, come pure i loro opposti sono affidati al caso e governati dalle circostanze, ma dipende dalla nostra volontà scegliere quale persona – quale ruolo – vogliamo rappresentare nella vita. E così alcuni si dedicano alla filosofia, altri al diritto civile, altri all’eloquenza […]». 

Come si può constatare, in questi passi del trattato di Cicerone, il cui titolo, forse, meglio che Sui doveri, andrebbe reso in italiano con Quel che è giusto fare (come traducono G. Picone e R.R. Marchese), il termine persona finisce con l’indicare l’individuo umano e sociale: la persona che vive nella società, e che, per essere un buon cittadino, deve comportarsi responsabilmente in modo tale da non tradire nessuno dei quattro ruoli che è chiamato a rappresentare.

Una responsabilità ulteriore – aggiunge inoltre Cicerone – devono assumersi i magistrati, coloro che hanno incarichi pubblici: essi devono infatti comprendere che rappresentano lo Stato, lo incarnano, ne sostengono per così dire il ruolo (se gerere personam civitatis). Devono quindi conservarne la dignità e il decoro, rispettarne le leggi, amministrare la giustizia e ricordare che tutto ciò è stato affidato alla loro lealtà (124). 

Al capitolo successivo, il passaggio del significato di persona da maschera a individuo può dirsi per così dire compiuto: in riferimento agli obblighi morali messi precedentemente in evidenza, Cicerone parla infatti di ciò che è decoroso e adatto personis, temporibus, aetatibus, dove personis può essere tradotto con «i singoli caratteri», ma può anche essere agevolmente reso con «persone».  «Questi sono approssimativamente – recita infatti il passo – gli obblighi morali che si ritrovano indagando quale sia l’essenza del decoro in rapporto alle persone, alle circostanze e all’età di ciascuno» (125). 

 

Oltre che nel De officiis, Cicerone usa la metafora della vita come rappresentazione teatrale e dell’uomo come attore anche in due passi del coevo dialogo Sulla vecchiaia (De senectute), dove rispettivamente si legge:

«L’attore, se vuol piacere, non deve rappresentare la commedia fino in fondo: gli basta essere applaudito in tutte le scene nelle quali è comparso; e così neppure i saggi hanno bisogno di giungere all’applaudite finale» (70).

 

«La vecchiaia segna la fine della vita come la fine di una rappresentazione: una rappresentazione della quale dobbiamo evitare lo spossamento, specie quando allo spossamento si aggiunga il tedio» (85).

 

Prima di lui, un’immagine molto bella ‘della maschera e del volto’ è presente nel III libro del poema di Lucrezio La natura delle cose. In questo libro, Lucrezio affronta il tema della mortalità dell’anima: ché, se è vero che l’anima è mortale, diventa vana la paura che gli uomini hanno dell’oltretomba, una paura insita anche in coloro che pure millantano di non crederci. Queste stesse persone – scrive –, se si trovano ad essere

«profughe dalla loro patria ed esiliate lontano dal cospetto degli uomini, infamate da una turpe accusa, afflitte in una parola da ogni genere di tribolazione, ciononostante continuano a vivere, e, dovunque, misere, siano capitate, fanno sacrifici funebri, e scannano agnelle nere e offrono doni votivi agli dei Mani, e, nelle loro dolorose condizioni, con una ostinazione ancora più forte volgono i loro animi alla superstizione. Conviene dunque osservare l’uomo nella difficoltà delle prove a cui viene sottoposto, e conoscere di quale tempra egli sia nelle avversità: è allora, infatti, che, dal profondo del suo cuore, prorompono le voci più vere, e, caduta la maschera, rimane la realtà» (vv. 48-58).

 

Andando avanti nel tempo, la metafora ha goduto di una grande fortuna letteraria, impossibile da documentare compiutamente.

Basti dire, a mo’ di esempio, che essa torna ripetutamente in Seneca:

«Anche questo può impedirti di vivere un lutto eccessivo, ovvero il riflettere sul fatto che nulla di ciò che fai può passare inosservato. Il consenso generale ti ha imposto un ruolo – una maschera – importante: e, questo ruolo – questa maschera – , tu lo devi sostenere – la devi proteggere –» (Consolazione a Polibio, 6). 

«Questo sarebbe stato difficile, se tu non possedessi questa bontà per natura, e non fatta tua a seconda delle circostanze. Nessuno infatti può sopportare a lungo una maschera: le finzioni si rivelano ben presto per quel che sono» (La clemenza, I, 1, 6). 

«Mi piacerebbe proprio chiedere perché queste persone assumano un fare così altezzoso, perché trasformino l’aspetto e l’espressione del loro volto al punto da preferire avere una maschera piuttosto che la loro faccia» (Sui benefici, II, 13). 

«Nessuno fra quelli che vedi vestiti di porpora è felice: non più degli attori ai quali lo spettacolo fa portare in scena lo scettro e il manto. Dopo essersi mostrati al pubblico tutti fieri sui loro coturni dalla suola spessa, appena escono di scena si tolgono le calzature e tornano alla loro vera statura» (Epistole a Lucilio, 76). 

«Come una rappresentazione teatrale, così è la vita: non importa che duri a lungo, ma che sia messa bene in scena. Non importa in quale momento la concludi. Concludila quando e dove vuoi, ma assicurati che abbia un bel finale» (Epistole a Lucilio, 77). 

«Considera una gran cosa recitare sempre la parte di un unico uomo: ma, all’infuori del sapiente, nessuno mette sempre in scena se stesso; tutti noi altri siamo proteiformi… Da un momento all’altro cambiamo maschera e ne indossiamo una che rappresenta il contrario di quella che abbiamo tolto» (Epistole a Lucilio, 120).

 

E ancora, pur se in un passo non privo di problemi di tradizione, sicuramente la metafora della vita come finzione scenica è presente nel Satyricon  di Petronio, dove si legge:

«La compagnia mette in scena un mimo: quello fa la parte del padre, questo del figlio, quell’altro impersona il ricco. Poi, appena l’ultima pagina del copione si chiude su questi ruoli comici, torna il vero volto, e quello simulato sparisce» (80).

I quattro versi in questione (due distici) appartengono ad una serie di otto, non presente in tutta la tradizione manoscritta del testo; diversi critici segnalano inoltre la presenza di una possibile lacuna fra essi e i quattro precedenti, in quanto si riscontra una oggettiva difficoltà di collegamento fra il tema dei primi (l’amicizia tradita nel momento del bisogno) e quello dei secondi; frequenti e varie sono infine le ipotesi di trasposizione dei distici – in parte o in toto – ad altri contesti: l’ipotesi che ci sia una continuità fra i quattro distici, e che la collocazione al capitolo 80 sia quella giusta, parrebbe però suffragata dalla testimonianza del filosofo medievale Giovanni di Salisbury (1120-1180), che, nel suo Policratico (3, 7-8), si rifà appunto a Satyricon 80, e commenta:

«Impara dall’esempio dell’attore che il fasto esteriore è solo vana apparenza, e che, al termine della commedia, ognuno riprende di nuovo il suo vero aspetto».

 

Sempre a titolo esemplificativo, la stessa metafora è più volte fatta propria dall’imperatore romano Marco Aurelio Antonino, che, amante della filosofia, ci ha lasciato una breve opera, scritta in greco, dal titolo A se stesso (conosciuta anche coi titoli di Colloqui con se stesso, Il libro dei ricordi, I ricordi, e altri simili):

«Nella coscienza dell’uomo morigerato e puro, non potrai rinvenire nulla di marcio, di contaminato, di subdolo; né mai, se la morte lo sorprende, egli lascia la sua vita incompleta, come si potrebbe dire di un attore che si ritirasse dalla scena prima di aver finito di recitare la sua parte» (III, 8). 

«Finito è ormai per te il dramma della vita; la tua parte è ormai giunta al suo termine» (V, 31). 

«La sua azione (dell’anima razionale) non rimane incompleta e interrotta come nel ballo o sulla scena se interviene qualcosa, ma dappertutto e in qualsiasi parte del suo dramma venga sorpresa, essa conduce a termine e compie ciò che si era proposta» (XI, 1). 

«Uomo, sei stato cittadino di questa grande città; che t’importa se per cinque o solo per tre anni? Ciò che avviene secondo la legge è giusto per tutti. Che c’è di male se dalla città ti scaccia non un tiranno, non un giudice ingiusto, ma quella stessa natura che te ne aveva fatto cittadini, come un attore del dramma che viene licenziato dallo stesso direttore di scena che ce lo aveva invitato? “Ma io non ho recitato i cinque atti del dramma, ma solo tre!” Giusto, ma nella vita anche tre soli atti bastano a comporre il dramma: perché chi stabilisce la fine è quel medesimo che già fu autore della rappresentazione, come lo è ora del suo scioglimento, mentre tu non fosti autore né dell’una cosa né dell’altra. Vattene dunque sereno, come sereno è chi ti dà commiato» (XII, 35). 

 

Con Marco Aurelio, ultimo epigono dello stoicismo romano dopo Cicerone e Seneca, siamo nel II secolo d. C., quando l’epoca d’oro delle rappresentazioni teatrali è ormai finita da tempo, quando ad essere rappresentati sulla scena sono prevalentemente il mimo e il pantomimo, destinati a rimanere, alla caduta dell’impero, gli unici elementi teatrali superstiti. Con la nascita della grande letteratura cristiana del III secolo arriva inoltre una forte condanna morale e sociale di tutti gli spettacoli, teatro compreso (un atteggiamento di totale rifiuto che perdurerà almeno fino al V/VI secolo), e bisognerà aspettare fino al X/XI secolo per assistere alla comparsa di un qualche genere di scrittura teatrale.

Ciò lascia in qualche modo supporre una probabile caduta in disuso della metafora teatrale per definire la vita umana: quello che però è certo è che essa ricompare di sicuro a partire almeno dal XII secolo, come ci attesta il citato passo del Policratico di Giovanni di Salisbury («Impara dall’esempio dell’attore che il fasto esteriore è solo vana apparenza, e che, al termine della commedia, ognuno riprende di nuovo il suo vero aspetto»).

 

Quanto alla presenza della metafora in ambito umanistico, oltremodo esemplificativo è un bellissimo passo di Erasmo da Rotterdam:

«Se qualcuno cercasse di togliere la maschera agli attori mentre recitano sulla scena e di mostrare così agli spettatori le loro vere facce al naturale, non sconvolgerebbe tutto quanto lo spettacolo e non meriterebbe di essere scacciato a sassate dal teatro come un forsennato? Tutto infatti assumerebbe improvvisamente un nuovo aspetto: ecco che chi prima era donna ora è uomo, chi prima era giovane adesso è vecchio, chi poco fa era re all’improvviso è schiavo, chi prima era un dio ad un tratto appare essere un omuncolo. Sennonché togliere quell’illusione equivale a sconvolgere l’intera rappresentazione. Sono proprio quella finzione e quell’inganno ad incatenare gli sguardi degli spettatori. Ebbene, cos’altro è tutta la vita umana se non una rappresentazione teatrale, in cui ci si presenta mascherati, interpretando ciascuno la propria parte, fino a che il direttore fa uscire di scena? Il quale direttore, però, impone spesso ad un medesimo attore di comparire in un diverso travestimento, così che chi poc’anzi rappresentava un re avvolto nella porpora ora è uno schiavetto cencioso. Tutto è finzione, ma la commedia della vita non si può rappresentare in altro modo» (Elogio della follia, 29). 

 

 

Certo, ad indicare la vita, fin dall’antichità gli autori si sono serviti anche di metafore diverse da quella che assimila la vita stessa  ad un’opera teatrale, ma nessuna ha goduto di una pari fortuna.

 

Il commediografo Terenzio, sicuramente utilizzando modelli greci, paragonava ad esempio la vita ad una partita a dadi:

«“Ma insomma, Micione, questo fatto a te sta bene?” “Non mi starebbe bene, Demea, se potessi modificarlo; ma, siccome non posso, mi ci rassegno. La vita degli uomini è come una partita a dadi: quando, gettandoli, hai assoluta necessità di fare un certo punteggio e non lo fai, devi destreggiarti col punteggio che è saltato fuori”» (AdelphoeI fratelli –, vv,737ss.).

L’immagine proverbiale si trova già in Platone (Repubblica, 604c), dove però il lancio dei dadi è utilizzato metaforicamente per invitare al dominio delle passioni; si trova anche in un frammento del commediografo Alessi (IV-III secolo a. C.), che se ne serve per sottolineare la mutevolezza della fortuna umana… In Terenzio, la similitudine vuole ovviamente affermare la capacità umana di reagire agli eventi sfavorevoli, cercando di capovolgere le situazioni avverse con l’aiuto della volontà.

 

Cicerone usava una similitudine che riconduceva alle corse dei carri:

«Se un dio mi concedesse di tornare fanciullo e vagire nella culla, io mi opporrei energicamente, e mi rifiuterei, come chi avesse terminato il suo percorso, di essere riportato dal traguardo ai cancelli di partenza» (La vecchiaia, 83).

 

Seneca descriveva la vita come un viaggio:

«C’è forse qualche dubbio sul fatto che i giorni migliori fuggono per primi ai miseri mortali troppo indaffarati? La vecchiaia sorprende i loro animi ancora puerili, e li coglie impreparati e inermi: niente avevano previsto, e piombano in quella vecchiaia all’improvviso, senza aspettarselo. Non si erano accorti che si avvicinava giorno dopo giorno. Come la conversazione o la lettura o un qualche pensiero più profondo distraggono i viaggiatori, che si accorgono di essere arrivati prima ancora di rendersi conto che si stanno avvicinando alla meta, così pure questo viaggio della vita, velocissimo e ininterrotto, che percorriamo sempre col medesimo passo sia da svegli che nel sonno, non si manifesta che al suo termine a chi è sempre indaffarato» (La brevità della vitaDe brevitate vitae, 9).

 

Marco Aurelio, dal canto suo,  assimilava la vita ad un viaggio in nave:

«Sei salito sulla nave, hai navigato, sei giunto in porto: scendi! » (Il libro dei ricordi, III, 3).

 

Ancora Marco Aurelio affermava che il vivere fosse una lotta, e che l’uomo dovesse avere la solidità di uno scoglio in mezzo al mare in tempesta:

«La perizia del vivere assomiglia assai di più a quella della lotta che a quella della danza, giacché bisogna essere pronti e ben sicuri contro gli eventi che accadono imprevisti, al fine di non cadere» (Il libro dei ricordi, VII, 61).

E infatti, in precedenza scriveva:

«Sii come uno scoglio, contro il quale vengono incessantemente ad infrangersi le onde, ed esso sta fermo, e intorno a lui si acquieta il gorgoglio delle acque» (IV, 49).

 

 

Fra le varie citazioni riportate, è sicuramente quella tratta da La brevità della vita di Seneca a legare più strettamente il tema della vita a quello del tempo, ma è pur vero che implicazioni temporali sono presenti – e di certo non possono stupire – anche in altri passi.

È per questo che mi piace concludere con alcune similitudini e metafore poetiche che riguardano proprio il tempo: tre sono tratte da Ovidio; l’ultima – che da Ovidio parrebbe in qualche modo mutuata – appartiene a Marco Aurelio: 

«Scivola occultamente e inganna l’effimero tempo della vita (labitur…volatilis aetas), e rapidi scivolano via gli anni come cavalli a briglia sciolta» (Ovidio, Amori, I.8,50-51). 

«Anche il tempo scivola via (labuntur tempora) con moto incessante, come la corrente di un fiume. Come non può arrestarsi il fiume, così non lo può l’ora fugace (levis hora); come ogni onda è spinta da un’altra e, mentre è incalzata da quella che le sta alle spalle, incalza quella che la precede, così fuggono gli istanti del tempo ed altri ne seguono e ce ne sono sempre di nuovi: infatti ciò che è stato è stato lasciato alle spalle, ciò che non era ancora stato accade, e tutti i momenti mutano e si innovano» (Ovidio, Metamorfosi, XV.179ss.). 

«Ormai ho compiuto l’opera che né l’ira di Giove, né il fuoco, né la spada potranno distruggere, né la distruggerà il lungo andare del tempo che tutto divora – edax vetustas –» (Ovidio, Metamorfosi, XV, 871-72). 

«Il tempo è come un fiume o un impetuoso torrente di eventi: una cosa non fa in tempo ad apparire ed è già rapita via; e un’altra ancora verrà rapita ed un’altra ancora apparirà» (Marco Aurelio, Il libro dei ricordi, IV, 43).