La pianta del fico è significativamente presente nel mito di fondazione di Roma, e – come ci racconta Plinio il Vecchio (Storia naturale, XV,77ss.) –, oltre ad essere legata all’antico rituale religioso dell’interramento del fulmine, compare anche in relazione alla vicenda del leggendario Marco Curzio: «Nel Foro, e precisamente nel Comizio, si venera una pianta di fico nata a Roma, in quanto legata alla cerimonia sacra dell’interramento dei fulmini, e più ancora in ricordo della pianta che, nutrice di Romolo e Remo, fondatori dell’impero, offrì loro per prima riparo al Lupercale… Non si secca mai senza che ciò costituisca un presagio, e ogni volta i sacerdoti provvedono a piantarla di nuovo. Ce n’era una anche davanti al tempio di Saturno, che fu rimossa…perché stava per far crollare la statua del dio Silvano. Un fico, nato spontaneamente, vive in mezzo al Foro, nel luogo in cui Curzio aveva riempito con i sommi beni del valore e della pietà e della morte gloriosa la voragine che, con presagio funesto, minava le fondamenta dell’impero. Nel medesimo luogo si trovano, sempre accidentalmente, una vite e un ulivo, quest’ultimo piantato per fare ombra dalla premura popolare, quando fu rimosso un altare in occasione degli ultimi giochi gladiatori indetti nel Foro dal divo Giulio».

Il racconto relativo a Marco Curzio è in precedenza meglio narrato da Livio (VII, 6): la leggenda vuole che, nel 362 a. C., o per un terremoto o per altra ragione, si aprisse una voragine impossibile da colmare; gli indovini sostennero che, per far sì che la Repubblica durasse in eterno, occorreva gettare in quel baratro quello che era l’elemento principale della forza del popolo romano; il giovane e valoroso Marco Curzio, convinto che non esistesse nulla di più romano del valore militare, si offrì in voto agli dei, gettandosi a cavallo e armato nella voragine.

 

Non mancano poi aneddoti storici che vedono in qualche modo protagonisti non la pianta di fico, ma i suoi frutti. Sempre Plinio (XII, 2) racconta che un certo Elicone, abitante delle Alpi Elvezie, dopo avere a lungo esercitato a Roma il mestiere di fabbro, tornando in patria portò con sé dei fichi secchi, dell’uva, dell’olio e del vino; e si dice che questa fu la causa della discesa in Italia dei Galli, che attraversarono le aspre e insuperabili montagne delle Alpi per poter godere di tali prelibatezze. Lo stesso Plinio, nel libro XV, prima di soffermarsi sul fico Ruminale, prendendo spunto dalla varietà di fichi denominata, già da Catone, ‘africana’, riferisce la leggenda secondo cui Catone, infiammato dal suo odio contro Cartagine, e preoccupato per la sicurezza futura di Roma – è noto come egli proclamasse ad ogni riunione del senato che Cartagine doveva essere distrutta –, un giorno portò nella Curia un fico proveniente da quella provincia, e, mostrandolo ai senatori, chiese quando, a loro parere, quel frutto fosse stato raccolto dall’albero; avendo tutti constatato che era fresco, rivelò come esso fosse stato raccolto a Cartagine solo tre giorni prima, a dimostrazione di quanto il nemico fosse vicino alle loro mura: da lì, la decisione di intraprendere la terza guerra punica, che portò appunto alla distruzione di Cartagine. Dunque, una città così importante, che per più di cento anni aveva conteso a Roma il dominio sul mondo, dovette la sua fine ad un fico.

Sono invece fichi di Cauno quelli presenti in un episodio riferito da Cicerone nel suo trattato sulla Divinazione (II, 40, 84). Mentre Marco Crasso faceva imbarcare il proprio esercito a Brindisi, un tale che al porto vendeva fichi della Caria, provenienti dall’antica città di Cauno (nell’attuale Turchia), andava gridando “Cauneas” – “fichi di Cauno” –: sennonché, dal momento che cauneas può leggersi anche come caue ne eas – “non partire” –, ci fu chi interpretò il grido come presagio involontario, come ammonimento a Crasso di guardarsi dal partire, deducendo che, se Crasso non fosse partito, non sarebbe morto.

 

Cicerone inserisce la storiella nel secondo libro del trattato, quello in cui confuta ad una ad una tutte le argomentazioni a favore delle varie forme di divinazione avanzate dal fratello Quinto nel primo: nel caso specifico, gli strali sono rivolti contro i presagi tratti da frasi pronunciate senza intenzione, riconducibili, come tutte le forme di auspici, a quelle credenze superstiziose che, nella loro grossolanità, rischiano di screditare la religione. In Cicerone peraltro non viene mai meno la consapevolezza della funzione sociale dell’osservanza dei riti, delle regole, del diritto augurale, dell’aruspicina, che anzi è necessario conservare per il bene della religione professata da tutti, per il bene dello Stato e anche per non urtare le credenze popolari: credenze popolari che erano e continuarono per secoli ad essere molto diffuse.

 

Appartengono sicuramente alla sfera di queste credenze popolari sia l’interpretazione dei prodigi, sia la convinzione che alcune cose abbiano la capacità di allontanare o viceversa attirare disgrazie e influssi malefici: la pianta di fichi compare in entrambi i casi.

Plinio, ad esempio, racconta che dei caprifichi possono trasformarsi in fichi, e che questo prodigio è di cattivo auspicio; così come di cattivo auspicio è quando uva e fichi da bianchi diventano neri. Prodigiosamente, poi, può accadere che un albero nasca sopra ad un altro, come il fico che nacque sopra un alloro prima dell’assedio di Cizico. E ancora, a Roma, nella guerra contro Perseo di Macedonia, per ben due volte nacque sulla testa di Giove in Campidoglio una palma, che annunciava vittoria e trionfi: quando poi la palma fu divelta da una tempesta, durante la censura di M. Messala e C. Cassio (nel 154 a. C.), al suo posto nacque un fico, e, a partire da quel momento, la pudicizia fu distrutta (XVII, 38).

Dal canto suo, Macrobio, nei Saturnali (III, 20, 1-5), in relazione alla valenza positiva o negativa degli alberi, affermava che «secondo ciò che ci insegnano i pontefici, il fico bianco è fra gli alberi fausti mentre il nero è fra gli infausti», aggiungendo che Tarquinio Prisco, nel suo Opuscolo sui prodigi degli alberi, scriveva che «si chiamano infausti gli alberi che sono sotto la protezione degli dei inferi… il linterno, il sanguinello, la felce, il fico nero, tutti gli alberi che producono bacche nere e neri frutti, e parimenti l’agrifoglio, il pero selvatico, il pungitopo, gli arbusti spinosi»: alberi che andavano bruciati perché con loro bruciassero anche portenti e fenomeni di cattivo augurio.

 

Se possiamo asserire che la credenza irrazionale nell’influsso, positivo o negativo, di determinate cose o eventi sulle vicende umane appartiene alla sfera della superstizione, è altrettanto vero che il confine fra credenze popolari e religione, fra superstizione e religione, è intrinsecamente e storicamente labile: basti pensare a come la Chiesa da un lato e il potere politico dall’altro abbiano spesso e in più modi cercato di ricondurre nell’alveo della religione regolamentata forme di superstizione dilaganti, in grado di muovere spinte sociali pericolosamente disgregatrici. Nelle antiche religioni, le ‘superstizioni’ relative al mondo vegetale hanno peraltro un ruolo significativo, ché piante utili potevano solo essere state donate all’umanità dagli dei, così come dovevano essere stati gli dei a porre sulla terra piante nocive: in questo senso, il passo di Macrobio può essere considerata una testimonianza di quello che potremmo definire sincretismo fra religione ufficiale e religiosità popolare.

 

Per quanto riguarda la presenza del fico in ambito religioso e cultuale, essa è sicuramente legata all’importanza che questa pianta rivestiva nell’ambito dell’alimentazione. Il fico, come ci testimonia Plinio (XV, 72), fu infatti uno dei frutti più diffusi in area mediterranea durante l’antichità, talmente alla base della vita quotidiana da essere utilizzato anche per definire in termini dispregiativi un modo di intendere la lotta politica ad Atene, la sykofantia, ovvero la pratica della delazione e delle denunce prezzolate: etimologicamente, il sicofante era colui che denunciava i ladri di fichi, ed era chiamato così anche chi esportava i fichi dell’Attica, perché esportare questi frutti significava sottrarre l’alimento principale dei più poveri. Peraltro basti ricordare l’aneddoto che collega i fichi alla distruzione di Cartagine, raccontato, oltre che da Plinio, da Plutarco (Vita di Catone, 27) e, più tardi, da Tertulliano (Ai pagani, 2,16).

 

Non stupisce allora che, attorno al fico, fiorissero molte leggende e che esso, come del resto moltissime piante, avesse una provenienza divina e fosse dunque legato al mito.

In Grecia, il fico era considerato un dono di Demetra e anche di Dioniso.

La figura di Demetra – Cerere nella mitologia romana – era strettamente legata alla natura, alle messi e ai raccolti, e in essa si conservavano i tratti di una antichissima divinità materna della Terra. Un tempio di Demetra e della figlia Kore si trovava nell’antica Attica, vicino alla via che portava da Atene ad Eleusi: secondo una tradizione orale raccontata da Pausania il Periegeta (II secolo d. C.), in questo luogo, un certo Phytalos (“il Piantatore”) aveva accolto in casa sua Demetra alla ricerca della figlia scomparsa e la dea, in cambio dell’ospitalità, gli aveva donato la pianta del fico domestico: dunque, per gli Ateniesi, non una pianta qualsiasi, ma una pianta simbolica, un dono divino per il progresso verso la civiltà.

Quanto a Dioniso, se un mito racconta del Titano Siceo (Sykeus), che, mentre cercava di sfuggire ai dardi infiammati di Zeus, fu accolto nel suo grembo dalla terra, che lo trasformò nell’albero del fico, secondo un altro mito, il fico dovrebbe il proprio nome alla ninfa Sica (syke o sykea significa appunto “fico”), che, divenuta amante di Dioniso, fu da lui trasformata nella omonima pianta.

 

Il fico è inoltre presente nel mito di Prosimno – o Polimno –, il pastore che, con la sua barca a remi, condusse Dioniso all’ingresso dell’Ade, posto al centro del pericolosissimo lago di Lerna: una storia di cui si trovano cenni nei mitografi antichi, ma che si può di fatto ricostruire solo basandosi su non troppo attendibili fonti cristiane. Studiato dallo storico francese Bernard Sergent, il mito racconta che Prosimno chiese a Dioniso come ricompensa per il suo aiuto,di poterlo amare come una donna quando fosse risalito sulla terra; sennonché, quando il Dio tornò dall’Ade, Prosimno era morto, e allora, per rispettare comunque l’accordo fatto, Dioniso intagliò un legno di fico a forma di fallo e si autosodomizzò sulla tomba del pastore.

Quest’ultimo mito riconduce palesemente ai riti e ai misteri dionisiaci, col loro simbolismo fallico: basti pensare alle processioni delle falloforie, che, celebrate in onore di Dioniso per propiziare i raccolti, vedevano la presenza di grandi simulacri di legno di fico a forma appunto di falli.

Figlio di Dioniso – almeno secondo la tradizione più radicata – era peraltro  Priapo, simbolo dell’istinto sessuale e della forza generativa maschile, e quindi anche della fecondità della natura, la cui principale caratteristica consisteva – com’è abbastanza noto – nelle notevoli dimensioni dell’organo sessuale: ed è proprio a Priapo, dio della fecondazione, venerato come custode degli orti e dei giardini, che le fonti letterarie latine collegano la pianta del fico o del caprifico.