Nella lacerazione fra volontà razionale e irrazionale furore, è la sconfitta della volontà ad innescare la tragedia; e il grido di Fedra «Vi chiamo tutti a testimoni, o dei, del fatto che ciò che voglio io non lo voglio» altro non è che un grido di disperata solitudine e impotenza. Fedra non perde mai la consapevolezza, sa dove dovrebbe condurla la volontà: come ella stessa afferma nel dialogo con la nutrice, il suo animo è sciens, è appunto consapevole, ma tale consapevolezza non può aiutarla a deviare dalla colpa, perché contro il furor scatenato dal desiderio la ragione è destinata a soccombere, come pure è destinato a soccombere il pudor.    

Il pudore, che assieme alla volontà dovrebbe rappresentare un baluardo contro gli impulsi delle passioni, è infatti anch’esso perdente: e, a sottolineare come la sua sconfitta, unita a quella della volontà, conduca di fatto ad una pericolosa turpitudine, all’infrazione delle regole etiche e alla disgregazione morale, la riflessione su di esso sottende l’intera tragedia.

Il pudor, come dice a Fedra la nutrice, è una sorta di legge morale, che consiste nella conoscenza di una ‘giusta misura’ del peccare (v. 141), e Fedra lo sa talmente bene che più volte, nel corso della tragedia, vi fa riferimento: con la nutrice, rivendica infatti che non tutto il pudor è scomparso dal suo animo (v. 250); all’inizio del suo dialogo con Ippolito, dice a se stessa che la nefandezza è in qualche modo compiuta ed è ormai troppo tardi per il pudor, e più avanti, a fronte della minaccia di Ippolito di ucciderla, vede in quel gesto estremo la possibilità di conservare salvo il pudor medesimo (vv. 595 e 712); nella falsa confessione dello stupro a Teseo, afferma di voler lavare col proprio sangue l’orribile macchia del proprio pudor (v. 893); ed infine, prima di suicidarsi, invoca la morte come ultimo e più grande decoro di un pudor tradito.

Il pudor a cui fa riferimento Fedra – quella legge morale di cui parla la nutrice – rimanda alla pudicizia, alla prudenza, alla temperanza, al rispetto dei valori sociali, al decoro; ma, all’interno della riflessione senecana, pudor assume anche sfumature di significato diverse. Quando Fedra afferma che né il timor né il pudor hanno trattenuto Teseo dal seguire Piritoo nella sua impresa immorale (v. 97), parla chiaramente di una mancanza di timore e di vergogna, inaccettabile da parte di un marito e di un re; quando la nutrice, che si appresta a compiere la scelleratezza di parlare con Ippolito, afferma la necessità di liberarsi del pudor (v. 430), c’è ugualmente uno slittamento del termine verso il significato di “vergogna”; quando Fedra ricorda il volto di Teseo giovanetto, il pudor che lo colorava (v. 652) altro non è che il rubor soffuso, il delicato e pudico rossore giovanile indice di verecondia, di cui Seneca stesso parla nell’Epistola 11 a Lucilio; quando Teseo parla di un pudor  innato, che impedisce persino agli animali di compiere incesto (v. 914), il pudor assume quasi la valenza di ‘legge naturale’.

Sempre, in ogni caso, l’assenza di pudor, o sconfitta che dir si voglia, si salda strettamente al nefas, connotandolo ulteriormente come una nefandezza che unisce in sé la dimensione interiore del peccato e la dimensione sociale dell’infrazione di ogni regola di convivenza civile: una infrazione che, così come l’incesto, rimanda inevitabilmente alla dinastia Giulio-Claudia, con il suo esercizio di una tirannia sempre più fondata sulla libido – la «tremenda compagna di ogni grande fortuna» –, sulla mancanza di ogni timor e pudor – quella che fa dimenticare a Teseo ogni suo dovere –, sul delitto familiare e la rottura dei sacri vincoli di sangue fra moglie e marito, fra genitori e figli.

 

Teseo è di fatto caratterizzato da Seneca negativamente: è il re che ha abbandonato i suoi doveri di sovrano e di marito per seguire l’amico agli Inferi nella sua nefanda impresa ed è un pessimo padre; come ricorda inoltre la nutrice, è stato spietato nei confronti di Arianna ed ha ucciso Antiope, la madre di suo figlio.

Fedra è la regina che si innamora del figliastro, che fa esplodere la propria morbosa passione confessandola, che non riconosce l’autorità del marito, che spezza il modello di femminilità ideale, che tradisce e mente: eppure, di fatto, la sua caratterizzazione non è totalmente negativa.

Perché Fedra si fa anche simbolo della disperata solitudine e impotenza dell’uomo che, orfano degli dei, è lasciato solo a combattere contro le proprie passioni, avendo come scudi soltanto la propria volontà e il proprio pudore. E, se è vero che riconoscere la propria debolezza e ammettere la propria colpa rappresentano una forma di pudore, è vero di fatto che, positivamente, il pudore non abbandona mai Fedra del tutto; così come positivamente, la sua volontà tenta, se pure invano, di opporsi al nefas.

 

«Vi chiamo tutti a testimoni, o dei, del fatto che ciò che voglio io non lo voglio».

 

In questo grido di Fedra, Seneca sembra avere ben presenti le parole delle Metamorfosi di Ovidio, laddove Ippolito afferma che Fedra, dopo aver tentato invano di indurlo a violare il letto del padre, sovvertendo la colpa, lo accusò, «sciagurata, di essere stato lui a volere ciò che lei voleva».

Ebbene, quelle parole, Seneca le ribalta, trasformando la matrigna crudele e scellerata dello stereotipo ovidiano in una donna che cerca vanamente di opporsi ai propri desideri sbagliati, che rivendica il proprio pudor ma nel contempo sa che esso non potrà impedirle di commettere quel peccato di cui pure si vergogna, che è costretta a vivere nel più completo sovvertimento di un sano rapporto fra i sensi e la ragione: perché i sensi, piegati dal desiderio e fattisi per così dire autonomi, sfuggono al controllo della ragione.

 

A differenza della tragedia euripidea, in cui i personaggi di Fedra, Ippolito e Teseo – con le rispettive controparti divine Afrodite, Artemide e Poseidone – risultano di pari forza, Seneca fa di Fedra la protagonista assoluta della tragedia.

La sua Fedra è un personaggio complesso, che rispecchia apparentemente lo stereotipo della matrigna, ma che nel contempo sfugge alla definizione stessa di “cattiva matrigna”: un personaggio che non si fa esempio di male assoluto, ma protagonista di una vicenda esistenziale piena di zone d’ombra che la vede sempre consapevole. La sua lacerante crisi di coscienza, il conflitto profondo della sua anima, il suo bisogno di ritrovare in qualche modo se stessa e, infine, la completa assunzione di responsabilità finale le conferiscono una sorta di moderna eroicità.

 

 

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