Come s’è detto parlando delle due tragedie euripidee, secondo notizie tramandate dagli antichi il perduto Ippolito velato sarebbe stato considerato talmente «disdicevole» dal pubblico da costringere l’autore a riscriverlo, eliminando la scena in cui Fedra confessava direttamente al figliastro la propria passione ed attribuendo alla nutrice  la rivelazione della passione stessa ad Ippolito.

In realtà, questa ricostruzione dei fatti è fondamentalmente basata sul tentativo di far combaciare, in un ingegnoso puzzle, testimonianze risalenti a fonti diverse, e presenta larghi margini di incertezza: ma essa ha una certa rilevanza all’interno del discorso sulle fonti della tragedia Fedra di Seneca.

Infatti, nella tragedia latina, la protagonista ‘si dichiara’ esplicitamente al figliastro, suscitandone l’indignata reazione, e ciò, secondo alcuni studiosi, dimostrerebbe che il drammaturgo latino attinse direttamente al primo dei due drammi euripidei intitolati a Ippolito o che, comunque, operò una sorta di contaminazione fra le due tragedie.

L’ipotesi è suggestiva, benché i frammenti dell’Ippolito velato giunti fino a noi non contengano elementi atti a comprovare con certezza un rapporto intertestuale diretto fra le due opere: anche perché l’autore latino avrebbe potuto autonomamente sviluppare il motivo della confessione di Fedra, che sapeva presente nel perduto dramma greco, senza prendere diretta visione di quest’ultimo. E, in ogni caso, una versione simile del mito si trova nella IV delle Eroidi ovidiane, quella in cui l’infelice sposa di Teseo scrive appunto ad Ippolito rivelandogli la propria passione e supplicandolo di accondiscendere ad essa.

Del resto, Ovidio è uno degli autori a cui Seneca si rifà con particolare frequenza, e, nel caso specifico, ci sono riprese evidenti non solo dalla lettera, ma anche dal lungo passo delle Metamorfosi (XV, 497-546), in cui Ippolito racconta la propria vicenda.

Nelle Metamorfosi, il giovane afferma di essere morto per la credulità di suo padre e le menzogne della scellerata matrigna. Dopo di che, continua:

«Un giorno, dopo aver tentato invano di indurmi a violare il letto di mio padre, la figlia di Pasifae, sovvertendo la colpa, mi accusò, sciagurata, di essere stato io a volere ciò che lei voleva – non so se più per timore di un’accusa o per l’offesa del rifiuto –; mio padre mi cacciò dalla città senza che io fossi colpevole di nulla, e mentre me ne andavo scagliò sul mio capo una terribile maledizione».

Segue la descrizione della propria morte, causata da un mostro marino – un toro dalle grandi corna che vomitava acqua di mare dalla bocca e dalle narici – che fa imbizzarrire i cavalli e lo sbalza dal carro: una descrizione piena di dettagli orridi e raccapriccianti, con le viscere vive strappate dal corpo, il rumore delle ossa spezzate, le membra separate le une dalle altre, ecc.. E si tratta di una descrizione in cui si avverte indubbiamente l’influsso euripideo; così come totalmente desunto dall’Ippolito coronato di Euripide appare il lungo e tragico racconto senecano della morte di Ippolito.