Una delle favole di Fedro più conosciute è senza dubbio Lupus et agnus (I, 1), che vede un agnello e un lupo bere dallo stesso ruscello: in alto il lupo, in basso l’agnello. Il lupo accusa paradossalmente l’agnello di intorbidare l’acqua; questo si difende con la logica dei fatti, ma il lupo continua, accusandolo di aver sparlato di lui sei mesi prima, quando l’agnello – così si difende quest’ultimo – non era ancora nato; il lupo non demorde e attribuisce la colpa al padre dell’agnello stesso, dopo di che lo sbrana. Altrettanto famosa De vulpe et uva (La volpe e l’uva IV, 3), con la volpe che, affamata, non arriva a cogliere l’uva da una pergola troppo alta, e se ne va affermando che un’uva acerba non le interessa.

Ben note sono anche Ranae regem petierunt (Le rane vollero un re I, 2), Lupus et gruis (Il lupo e la gru I, 8), Vulpes et corvus (La volpe e il corvo I, 13), Rana rupta et bos (La rana scoppiata e il bue I, 24), Vulpes et ciconia (La volpe e la cicogna I, 26). La prima altro non è se non l’apologo del “re Travicello”, con le rane che chiedono a Giove un re capace di tenerle a freno e Giove che, ridendo, lancia nel loro stagno un bastoncino; il povero travicello di legno viene ricoperto di offese e, considerato inservibile, ne viene chiesta la sostituzione; Giove invia allora alle rane una biscia d’acqua, che immediatamente comincia a divorare le rane una ad una; le rane mandano un messaggio a Giove perché le soccorra, ma Giove risponde adirato che, non avendo voluto adattarsi a quello che per loro era un bene,  non hanno altra alternativa che subire il male. Il lupo e la gru racconta di un lupo al quale era rimasto un osso in gola: per il dolore, aveva cominciato a chiedere aiuto a tutti promettendo ricompense; la gru,dopo che il lupo aveva giurato, si era convinta ad aiutarlo e, calandogli il suo lungo collo dentro le fauci, aveva estratto l’osso; quando poi aveva chiesto il premio pattuito, si era sentita rispondere che, per lei, doveva già essere sufficiente aver tirato fuori la testa sana e salva. Ne La volpe e il corvo troviamo un corvo che sta mangiando del formaggio sulla cima di un albero e una volpe che da sotto lo lusinga, invitandolo anche a cantare: il corvo, convinto dalle sue parole, apre il becco per far sentire la propria voce e lascia così cadere il formaggio, prontamente mangiato dalla volpe ingannatrice. La protagonista di I, 24 è una rana che, invidiosa della grossezza di un bue, si gonfia fino a scoppiare davanti ai propri figli. In I, 26, una volpe e una cicogna si scambiano dispetti fra loro: la volpe, avendo invitato a pranzo la cicogna, le offre da mangiare, in un piatto, un guazzetto liquido, che l’altra non riesce in alcun modo a sorbire; ricambiando l’invito, la cicogna mette davanti alla volpe del cibo tritato dentro una fiasca, di cui la volpe può solo leccare il collo.  

Abbastanza famose sono anche Graculus superbus et pavo (La cornacchia superba e il pavone I, 3), con la cornacchia che si adorna delle piume di un pavone, se ne va in mezzo ai pavoni stessi, viene malamente scacciata, torna dalle sue simili e viene tristemente ripudiata;  Vacca, capella ovis et leo (La mucca, la capretta, la pecora e il leone I, 5), con mucca, capretta e pecora compagne di caccia del leone, che alla fine rivendica per sé tutte e quattro le parti; Leo senex, aper, taurus et asinus (Il vecchio leone, il cinghiale, il toro e l’asino I, 21), col vecchio e malandato leone aggredito impunemente non solo dal cinghiale e dal toro, ma persino da quella vergogna della natura che è l’asino (ed è questa un’offesa simile ad una seconda morte); Canis fidelis (Il cane fedele I, 23), col cane che non si lascia imbrogliare dal ladro, né distrarre dal boccone di pane che questi gli ha lanciato, e non rinuncia a difendere i beni e la casa del proprio padrone; Milvus et columbae (Il nibbio e le colombe I, 31), con le colombe che, più volte sfuggite al nibbio grazie al loro volo veloce, accettano la sua proposta di nominarlo loro sovrano affinché le protegga da ogni pericolo, decretando così il proprio massacro; Muli duo et raptores (Due muli e i ladroni II, 7), coi due muli carichi rispettivamente di denari e di orzo, il secondo dei quali viene completamente trascurato dai ladroni, impegnati soltanto a trafiggere il primo e a rubare il carico di monete; Lupus ad canem (Il lupo al cane III, 7), col confronto delle rispettive vite fra un lupo affamato e un cane ben pasciuto (confronto che si conclude col lupo che rivendica la propria libertà a fronte della catena al collo con cui il cane ‘paga’ il proprio benessere).

 

Tutte queste favole hanno una ‘morale’, una breve frase che, posta all’inizio (promizio) o alla fine (epimizio) del racconto, ne spiega il contenuto nascosto:

I, 1 «Questa favola è scritta a motivo di quegli uomini che opprimono gli innocenti con pretesti inventati» (Il lupo e l’agnello – epimizio).

IV, 3 «Chi a parole sminuisce ciò che non riesce a fare, applichi a se stesso questo raccontino esemplare» (epimizio de La volpe e l’uva – epimizio)..

 

I, 2 In questa favola, non c’è una ‘morale’ esplicitamente espressa, ma, a raccontarla è Esopo, che, nei due versi finali, invitando gli Ateniesi a non lamentarsi di Pisistrato e a sopportarne la tirannia, afferma: «E anche voi, cittadini, tenetevi questo danno onde evitare che ve ne capiti uno peggiore» (Le rane vollero un re).

I, 8 «Chi pretende dai disonesti una ricompensa per averli aiutati sbaglia due volte: perché porge aiuto a chi non lo merita, e perché non se la cava mai senza danno» (Il lupo e la gru – promizio) .

I, 13 «Chi gode ad essere lodato con parole ingannevoli sarà poi costretto a pentirsene» (La volpe e il corvo – promizio).

I, 24 «Quando vuole imitare un potente, un poveraccio va incontro alla propria fine» (La rana scoppiata e il bue – promizio).

I, 26 «Non bisogna nuocere a nessuno: se tuttavia qualcuno offende, la favoletta suggerisce che debba essere ripagato con la stessa moneta» (La volpe e la cicogna – promizio).

 

I, 3 «Affinché non piaccia farsi belli coi beni altrui e si conduca piuttosto un’esistenza conforme a se stessi, Esopo ci tramandò questo racconto esemplare» (La cornacchia superba e il pavone – promizio).

I, 5 «Non è mai fidata la società con un potente, e questa favoletta lo dimostra».(La mucca, la capretta, la pecora e il leone – promizio).

I, 21 «Chiunque abbia perduto l’antica dignità, nella sua grave disgrazia, è anche oggetto di scherno da parte dei vigliacchi» (Il vecchio leone, il cinghiale, il toro e l’asino – promizio).

I, 23 «Chi diventa improvvisamente generoso è bene accetto agli stolti, ma tende vanamente inganni alle persone accorte» (Il cane fedele – promizio).

I, 31 «Chi si affida alla protezione di un disonesto, mentre cerca aiuto, trova la propria rovina»  (Il nibbio e le colombe – promizio).

II, 7 «Con questo racconto si dimostra che la povera gente è sicura, mentre le grandi ricchezze mettono in pericolo» (Due muli e i ladroni – epimizio).

III, 7 «Spiegherò brevemente quanto dolce sia la libertà».(Il lupo al cane – promizio).

 

Il nome di Esopo, che troviamo in due delle favole qui ricordate (I, 2 e 3), e che compare molto spesso nella raccolta delle Favole, ci indica esplicitamente quale sia il modello letterario di Fedro, e cioè la cosiddetta “favola esopica”: una narrazione breve, caratterizzata da una preponderante presenza di animali come personaggi, che contiene sempre un ammaestramento morale; lontana dal mondo umano e passionale, la sua sfera d’azione abbraccia un campo che è marginale nei confronti dell’umanità, che è per così dire al di qua dell’uomo. In essa, sia il riferimento all’uomo che la sua presenza in qualità di personaggio sono ridotti ad una funzione statica e convenzionale (i personaggi umani sono cioè esemplificazioni paradigmatiche di vizi e difetti, non si sviluppano in caratteri, non svolgono una trama di interessi umani vivi e bene individuati). Ed è un genere letterario ‘umile’, che i letterati e gli uomini colti non prendevano molto sul serio, e a cui si rivolgevano tutt’al più come mezzo di intrattenimento: un genere che, a partire da Esopo, conobbe una diffusione vastissima, ma di cui ci restano solo testimonianze scritte molto tarde. È risaputo infatti che dell’opera originale di Esopo non rimane nulla, come pochissime sono le notizie su di lui: Giambattista Vico, ne negava addirittura l’esistenza, se è vero che nei suoi Principi di Scienza Nuova, del 1744, scriveva «si truoverà Esopo non essere stato un particolar uomo in natura, ma un genere fantastico […]» (G.Vico, Opere filosofiche, introd. di N.Badaloni, testi, versioni e note a cura di P. Cristofolini, p. 422).

Di fatto, nel mondo greco noi abbiamo soltanto redazioni molto tarde di favole, probabilmente risalenti alla più tarda età ellenistica, che derivano da raccolte più antiche: nel complesso, più di quattrocento favole, di valore molto diseguale fra loro. Ci è pervenuta inoltre, in greco, una parziale raccolta di favole esopiche in versi, che ha per autore Valerio Babrio, oriundo romano, ma vissuto in Asia nel II/III secolo d.C.: ma, dei dieci libri che Babrio aveva scritto, se ne sono salvati soltanto due.

 

Nel mondo romano, il genere favolistico fu noto fin dalle origini: fu Menenio Agrippa che, secondo Livio (II, 32), raccontò con successo alla plebe, in occasione della secessione sul Monte Sacro, nel 494 a.C., il famoso apologo dello stomaco e delle altre parti del corpo, presente nelle raccolte esopiche; sappiamo da Gellio che, nel II secolo a.C., Ennio traduceva in settenari trocaici, nelle sue Satire, la favola esopiana dell’allodola e del contadino; nell’Aulularia di Plauto c’è un ampio accenno alla favola del bue e dell’asino, e allusioni a favole divenute proverbiali si trovano in tutta la commedia latina; in Lucilio, come si desume da un frammento, c’è un’aperta allusione alla favola del leone e della volpe. Nelle Satire e nelle Epistole di Orazio, infine, riferimenti a favole sono presenti con una certa frequenza: e, se le reminiscenze favolistiche di Ennio e Lucilio possono apparire isolate e casuali, la consistente presenza di favole in Orazio (l’unico poeta satirico a noi interamente pervenuto) rivela quanto stretto fosse il legame fra i due generi letterari col comune  gusto mimico, la funzione dei personaggi stereotipati e la spinta moralistica.

In ogni caso, al di là di questa diffusione trasversale, è con Fedro che la tradizione esopica – mediata ovviamente da tutta la serie di raccolte posteriori ad Esopo, che di lui conservavano o no il nome – rivive in terra latina. E rivive per opera di un uomo particolarmente predisposto a fare proprio quel genere letterario e a fare propria la sua morale, per le sue condizioni di vita, il suo stato sociale, le amarezze e le ingiustizie subite: un uomo, dunque, predisposto ad usare la morale esopica come metro della propria esperienza quotidiana, a sentire in essa non tanto una interpretazione astratta del mondo, quanto una interpretazione della propria stessa vita.

In realtà, come già per Esopo, anche per Fedro sono ben poche le notizie biografiche di cui disponiamo: e, per di più, a differenza di Esopo, sia durante la vita che dopo la morte, egli fu quasi totalmente ignorato. La sua fama venne infatti risvegliata soltanto nel XVI secolo, grazie al ritrovamento di un manoscritto del IX secolo, da cui derivò la prima edizione delle Favole (a cura di Pierre Pithou, 1596 Phaedri Augusti liberti fabularum Aesopiarum libri quinque): peraltro, all’uscita dell’edizione, studiosi autorevoli pensarono che si trattasse di un falso umanistico, perché, tendenzialmente, si negava l’esistenza stessa di Fedro. Singolarmente, e potremmo dire profeticamente, la responsabilità del supposto falso venne attribuita all’umanista marchigiano di Sassoferrato Niccolò Perotti: lo stesso Perotti, di cui, nel 1727, presso la biblioteca Farnese di Parma, fu scoperto un autografo, che si sarebbe rivelato fondamentale per arricchire il patrimonio delle favole fedriane, oltre a quelle conservate per tradizione diretta. In quest’autografo, infatti, il Perotti, aveva trascritto alcune favole proprie e ad altre di Aviano, un autore del IV-V secolo; ma aveva trascritto anche sessantaquaqttro favole di Fedro, trentuno delle quali completamente sconosciute, note oggi come Appendix Perottina (Appendice Perottina).

D’altro canto, nonostante l’oblio in cui cadde, Fedro godette di un’immensa fortuna per tutto il Medioevo: anche senza che il suo nome compaia, è infatti il suo testo a costituire la base dell’intera tradizione della narrativa medievale di animali; sono, più o meno direttamente, di derivazione fedriana la maggior parte delle favole che nel Medioevo vanno sotto il nome di Esopo.  E, nel Medioevo, la favola esopica ha una grandissima diffusione, soprattutto per il ruolo che essa ha nell’educazione: la brevità delle narrazioni, il loro carattere di intrattenimento – unito però all’esemplarità della lezione morale – faceva infatti considerare le favole come testi particolarmente adatti per l’insegnamento a livello elementare; gli incolti, peraltro, potevano ascoltarle dai predicatori, visto che esse avevano la funzione di un repertorio al quale attingere, un condensato degli elementi fondamentali della quotidianità e della vita.

 

Tornando a Fedro e alla sua biografia, dal titolo del citato manoscritto delle Favole (Phaedri Augusti liberti liber fabularum) sappiamo che era un liberto di Augusto; che fosse originario della Tracia (nella penisola Balcanica) è desumibile, con buona probabilità, dal prologo del III libro; che fosse vissuto poi in epoca tiberiana, ci è attestato ampiamente dallo stesso prologo, nonché da riferimenti sparsi in diverse favole; che avesse conosciuto anche il principato di Caligola è soltanto ipotizzabile sulla base di altre favole; che si trovasse a Roma già da ragazzo, lo si arguisce dall’epilogo del III libro, dove cita un passo del Telefo di Ennio, asserendo di averlo letto da puer. Sempre dal prologo del III libro abbiamo notizia della sua calamitas, della disgrazia in cui cadde, in epoca tiberiana, ad opera di Seiano; infine, dall’epilogo del III libro, apprendiamo che, al momento in cui scriveva, era già avanti negli anni.

Quello che è certo è che la schiavitù, la calamitas, l’età avanzata in cui aveva cominciato a scrivere, nonché le amarezze e le frustrazioni accumulate sono chiavi di lettura delle sue favole da cui non si può prescindere.

 

Nel prologo del libro III, fra le altre cose, Fedro istituiva uno stretto legame fra la schiavitù di Esopo e la creazione del genere favolistico, asserendo fra le righe che, in una condizione di estrema debolezza sociale, si poteva esprimere la propria protesta contro l’ingiustizia, si poteva criticare il potere ed evitare accuse di calunnia, solo giocando sull’equivoco (vv. 33-37), solo mascherandosi: e, di fatto, nelle favole, al di là dell’espressione o meno di una protesta, al di là della satira più o meno esplicita, il mondo animale non esiste in quanto tale, ma è soltanto una rappresentazione del mondo umano attraverso la mediazione degli animali, assunti al ruolo di maschere. Ma quel ‘mascheramento’ non giovò a salvaguardarlo. Sempre dal prologo del III libro, abbiamo infatti notizia – come s’è detto – della disgrazia in cui cadde ad opera di Seiano: Seiano, avendo interpretato alcune favole come attacchi personali, sulla base di una falsa accusa, di cui si ignora la natura, avrebbe intentato a Fedro un processo, processo nel quale – dice ancora Fedro – Seiano stesso fu accusatore, teste e giudice (vv. 41-42). Su quali potessero essere le favole incriminate, quelle interpretate cioè da Seiano e dai suoi seguaci come attacchi personali, esiste una vasta letteratura, anche se, ovviamente, si tratta soltanto di ipotesi.

Si è parlato soprattutto delle favole Le rane al Sole (I, 6) e Il re delle scimmie (di cui ci è pervenuta solo una parafrasi medievale).

«Esopo – si legge in I, 6 – vide le grandi nozze di un ladro, suo vicino, e subito iniziò questo racconto. Quando il sole, tempo fa, ebbe l’idea di prendere moglie le grida delle rane si innalzarono fino alle stelle. Turbato per lo schiamazzo, Giove chiese quale fosse la causa di tutto quel vociare. Disse allora una abitatrice dello stagno: “Ora, da solo, dissecca già tutte quante le pozzanghere e costringe noi misere a morire di sete all’asciutto. Che accadrà mai se metterà pure al mondo dei figlioli?”». Se si identificano le rane con la povera gente, se si pensa che Helios in greco è il sole e Aelius è il nome di Seiano, se ci si riferisce al minacciato fidanzamento di Seiano (nel 23) con la nuora dell’imperatore Livia – sorella di Germanico, da poco vedova e, secondo Tacito, responsabile dell’assassinio di Druso –, se si leggono in questa ottica i primi due versi (Vicini furis celebres vidit nuptias Aesopus et continuo narrare incipit…), ecco che le nozze di questo Sole, ladro e vicino, destinate a distruggere le possibilità di vita della povera gente, ben possono apparire come un riferimento di certo poco gradito a Seiano.

Quanto al Re delle scimmie, vi si racconta di due uomini, uno bugiardo e l’altro sincero, che, viaggiando insieme, arrivarono al paese delle scimmie. Uno scimmione, che si era autonominato capobranco, imitando ciò che aveva visto fare ad un imperatore, si sedette su una sorta di trono con tutte le scimmie in piedi davanti a lui, e fece condurre i due al proprio cospetto. Chiese quindi al bugiardo di attribuire a tutti il giusto ruolo, e il bugiardo rispose che lo scimmione era senza dubbio l’imperatore e che le scimmie erano il suo seguito: la bugia suscitò il plauso generale, e il bugiardo fu ricoperto di doni. L’uomo sincero pensò che, se una menzogna valeva tanto, molto più valore avrebbe potuto avere la verità, e, rispondendo alla medesima domanda dello scimmione, affermò sinceramente – com’era solito fare – che altro egli non vedeva se non una scimmia in mezzo a tante altre scimmie: e fu così che venne dilaniato coi denti e con le unghie, perché i malvagi – questa la morale – fanno sempre in modo che la menzogna e la malvagità siano amate, mentre l’onestà e la verità sono fatte a pezzi. Si è sostenuto che la favola potrebbe alludere al ritiro di Tiberio a Capri: in quel quinquennio, Seiano poté infatti apparire come la ‘scimmia’ di Tiberio, senza la legittimità, le qualità, la grandezza militare e il nome stesso di Tiberio.

 

Al di là del fatto che, nelle due favole, Fedro si riferisca o meno a Seiano, le favole stesse sono interessanti perché ci mostrano un qualche ‘allontanamento’ di Fedro dal tipico modello esopico: nella prima, il dialogo fra i personaggi è più vivo e naturale di quanto ci si potrebbe attendere, e una comicità fine e misurata sottende il testo; la seconda ha una spiccata fisionomia di ‘racconto’, e i due personaggi umani – pur se rispettive esemplificazioni di un difetto e di un pregio – risultano per così dire figure vive che reggono i fili del racconto stesso.

Vero è che, essendo strettamente legata al modello esopico e alla moralitas, la favola era un genere statico, forse il genere meno suscettibile di originalità e di libera espansione delle qualità artistiche: ma, se, nell’arco di secoli, in autori e raccolte diverse, si possono comunque evidenziare taluni cambiamenti, le differenze più notevoli sono quelle riscontrabili in Fedro rispetto alla precedente e consolidata tradizione greca.

Innanzi tutto, quale che ne fosse stata la causa, è comunque certo che Fedro dovette subire un processo, e, proprio a partire da questa esperienza personale, si spiega il suo particolare interesse per l’ambito giuridico; ma, oltre alla massiccia presenza di una terminologia giuridica, nonché di favole con struttura giudiziaria, che necessariamente conduce alla ‘romanizzazione’ dei racconti, il suo atteggiamento innovativo è evidenziabile sia a livello di struttura, sia a livello dei personaggi, sia, soprattutto, nell’inserimento, all’interno della sua raccolta, di favole non propriamente classificabili come tali.

 

Lo schema esopico ha la struttura prevalente del conflitto fra due personaggi, uno dei quali viene sconfitto: il più forte sconfigge solitamente il più debole e gli fa riconoscere la legge della forza. Questo tipo di conflitto è rarissimo in Fedro, le cui favole hanno solitamente schemi molto più complessi: non solo diverse di esse presentano fino a quattro personaggi (o, a volte, anche un unico personaggio, facendo assumere un carattere ben diverso all’usuale struttura del conflitto, o inducendo ad una sorta di sdoppiamento fra il personaggio e la sua immagine, o configurando come personaggio un oggetto), ma in esse, oltre alla forza, entra sempre in gioco qualcosa di diverso (la stupidità, l’astuzia, l’ingenuità, la malvagità, la superiorità morale, la libertà di spirito, la rassegnazione, la prudenza, l’arroganza, la violenza che si organizza come diritto…). Innovative sono poi le favole eziologiche (che forniscono cioè una spiegazione sull’origine di determinati fatti o fenomeni, dal greco aitia = causa) – ad esempio, Il ladro e la lucerna IV, 11 –, difficilmente riconducibili ad una struttura ‘normale’, e quelle in cui – come Il tempo V, 8 – l’allegoria è molto più forte dell’usuale. Sicuramente audace la favola 5 dell’Appendice Perottina, che si configura come una sorta di dissertazione divulgativa, con svolgimento diatribico, sull’argomento dei miti. Insolita e innovativa è inoltre, nella descrizione degli animali, l’attenzione naturalistica ai dettagli, ai loro movimenti caratterizzanti, alla loro indole.

La novità assoluta consiste però nella rappresentazione realistica del mondo umano, che già troviamo notevolmente presente in favole come Il medico ciabattino (I, 14), Tiberio e lo schiavo atriense (II, 5), Il poeta – Sul credere e il non credere (III,10), Il poeta – In uno solo può esserci più senno che in una folla  (IV, 5), Il buffone e il villano (V,5), Principe, il suonatore di flauto (V, 7), Pompeo il Grande e un suo soldato (Appendix 8), La meretrice e il giovanotto (Appendix 27). In questi racconti, Fedro tenta ancora di adattare la materia al genere favolistico: tenta cioè di far rientrare l’azione nello schema del conflitto e ella sconfitta; impernia il movimento narrativo su due o tre personaggi, ecc., ma il risultato è qualcosa di ben diverso dalla tradizionale favola esopica, anche perché, pur se gli interessi morali sono presenti, gli riesce molto difficile ricavare da essi una vera e propria morale. Ed è attraverso questi componimenti che noi cogliamo pienamente il suo lento avvicinarsi ad un tipo di narrativa del tutto diverso e nuovo, basato esclusivamente sull’uomo, che tocca il suo culmine laddove la morale passa decisamente in secondo piano.

Componimenti quali La vedova e il soldato (Appendice 13), Due giovani fidanzati: il ricco e il povero (Appendice 14) non sono più definibili come “favole esopiche”, ma sono vere e proprie “novelle”: o, per meglio dire, trame narrative in cui elementi reali ed elementi fantastici si fondono, o possono fondersi, ma sempre con un’assoluta prevalenza di interessi umani, e con l’esclusione di tutto ciò che prescinde dall’umano; racconti in cui l’irreale, il meraviglioso, l’immaginario, persino il sovrumano possono entrare legittimamente solo quando siano trattati in funzione umana, e solo quando la natura umana non vi perda i suoi contorni e le sue caratteristiche.

 

Con questo, non si intende sostenere che Fedro crei un genere letterario nuovo: si intende piuttosto dire che, nel rapporto col canone stabilito, la sua attività letteraria si ribella alla rigidità.

Nel rapporto fra canone e attività letteraria di Fedro, intervengono diversi fattori, che attengono sia all’individuo che alla collettività: sicuramente c’era in Fedro la natura del narratore, una aspirazione alla narrativa che nasceva da una sua naturale inclinazione; altrettanto sicuramente, la società che lo circondava, i tempi in cui viveva, erano maturi perché si potesse concentrare l’interesse sull’uomo e sulla vita quotidiana.

Fedro non crea qualcosa di profondamente nuovo, ma, per usare una sua metafora, scopre, nella letteratura romana, un sentiero, che saranno poi altri a trasformare in una nuova grande via. Prima di lui, a Roma non esisteva la novella; con lui, la novella non ha ancora corpo e consistenza come genere, ma è per suo tramite che il genere stesso va maturando. Anche così, egli risulterebbe comunque uno scrittore di grande individualità: a ridurre per così dire il suo merito, sta forse il nutrimento creativo – ma questo vale di fatto per tutta la letteratura latina – che egli trae da antecedenti greci, e più precisamente dalle Fabulae Milesiae (Favole Milesie) di Aristide di Mileto (fine del II secolo a.C.), introdotte a Roma nella traduzione di Sisenna già dal I secolo a. C.: racconti prevalentemente di carattere licenzioso, destinati poi a diventare modello delle novelle contenute nel Satyricon di Petronio e nelle Metamorfosi di Apuleio.   

Tre elementi concorrono dunque fortemente nell’opera di Fedro, e cioè la personalità dell’autore, i tempi, la pre-esistenza di un modello: la creativa personalità di Fedro fa sì che egli colga la possibilità di trasferire nella Roma dei suoi tempi un modello greco preesistente e noto.

 

In Fedro, non si trova mai alcun riferimento diretto alle Fabulae Milesiae, né ad un qualunque modello letterario diverso dalla favola esopica: prologhi ed epiloghi ci testimoniano anzi chiaramente che egli si situava all’interno del genere della favola esopica stessa.

Contestualmente, negli stessi prologhi ed epiloghi, egli esprime però la progressiva consapevolezza del proprio apporto innovativo, sia a livello formale che a livello contenutistico, rivendicandone il merito.

Il prologo del I libro costituisce già una sorta di piccolo manifesto della diversità nella continuità: i contenuti su cui egli opera – afferma Fedro – sono esopiani, ma la forma metrica è del tutto nuova, e non può che abbellire i contenuti stessi; e se poi qualcuno vorrà criticarlo, perché nel suo libro non sono solo gli animali a parlare, ma anche le piante, questo qualcuno ricordi che sempre favole sono e dunque componimenti immaginari.

Nell’epilogo dello stesso libro I (considerato da alcuni il prologo del II), Fedro si impegna a conservare la maniera esopica, invitando il lettore ad accogliere comunque benevolmente quanto viene aggiunto alla materia originaria.

Nel II libro, troviamo, sulla via dell’innovazione, un passo avanti di grande audacia, qual è il racconto su Tiberio e lo schiavo atriense (II, 5), ovvero un aneddoto tratto direttamente dalla viva vita contemporanea. Non a caso, nell’epilogo di questo libro, Fedro non si presenta più come un rielaboratore di Esopo, ma come il suo emulo latino, in gara col modello.

Nel prologo del III libro, l’orgoglio sale ancora. Ai versi 33-38, Fedro scrive infatti: «Ora ti spiegherò brevemente perché fu inventato il genere della favola. Uno schiavo, non osando dire apertamente quello che avrebbe voluto dire, tradusse i propri sentimenti in apologhi, eludendo così, con fantasiose invenzioni, le accuse di calunnia. Io, in seguito, feci di quel suo viottolo un’ampia via».

Nel prologo del IV libro, ai vv. 11-13, il concetto è ulteriormente ribadito: «Io definisco le mie favole esopiche, e non di Esopo, dal momento che egli ne espose poche, mentre io ne reco a profusione, utilizzando un genere antico, ma con contenuti nuovi».

Nel prologo del V libro, infine, il distacco appare del tutto consumato, e Fedro proclama apertamente la propria originalità: «Se qua e là io inserirò il nome di Esopo, al quale peraltro ho restituito da lungo tempo ciò che dovevo, sappi che è per garanzia. Così come fanno in questo nostro secolo certi artisti, che ottengono un prezzo maggiore per le loro opere se mettono la firma di Prassitele sul marmo nuovo, o quella di Mirone sull’argento invecchiato, o quella di Zeusi sui dipinti». Il nome di Esopo, dunque, è solo un’etichetta, usata per conferire all’opera prestigio agli occhi del pubblico: nuovo è il contenuto, nuova è l’arte.

Ora, in questa sua ricerca di originalità, è senz’altro nella sua attenzione alla realtà e all’uomo che Fedro compie il passo più significativo: e, in questa rappresentazione, l’atmosfera delle Milesiae è sicuramente presente, al di là del fatto che sia o meno dimostrabile un contatto diretto tra Fedro e l’opera di Aristide/Sisenna.

 

Che la storia de La vedova e il soldato, oltre ad essere presente in Fedro, sia anche oggetto di una digressione narrativa nel Satyricon  di Petronio (la famosa Matrona di Efeso), pur lasciando ragionevolmente supporre che entrambi i racconti derivino da una fonte comune, non riconduce necessariamente alle fabulae Milesiae, ma il sospetto che sia così è quantomeno legittimo.

Il tema anedottico è quello che potremmo definire della ‘vedova infedele’, o della ‘vedova consolata’, un tema molto diffuso in tutte le epoche e in diversi generi letterari, al cui interno la storia di Fedro e Petronio costituisce però un filone particolare: un filone che avrà grande fortuna nelle epoche successive, nella favolistica e nella novellistica delle culture più diverse, a partire dalle raccolte favolistiche medievali in latino.

Lo schema narrativo, in Fedro, Petronio e nelle raccolte medievali che riportano questa favola è semplice.

C’è una giovane vedova inconsolabile, che ha accompagnato il marito morto sin dentro al sepolcro, e piange e si dispera, né si riesce a staccarla da lì. In prossimità della tomba, vengono crocefissi dei ladri: di notte, un soldato, posto di guardia alle croci, si avvicina alla tomba, dove la vedova è assistita da un’ancella, e, senza troppe difficoltà, di notte in notte, la vedova si lascia consolare dal soldato. Sennonché, in assenza del soldato, da una croce scompare il cadavere: ad evitare conseguenze spiacevoli all’amante, la donna fa togliere il marito dal catafalco e lo fa inchiodare alla croce rimasta vuota.

Se il racconto petroniano è un testo novellistico esemplare, per estensione, tecnica narratologica, tematiche, intreccio, rapporti fra i personaggi; per l’assenza di giudizi morali apertamente espressi; per il riso che segna il trionfo della vita sulla morte, Fedro, in questo come in altri racconti (Il medico ciabattino, Tiberio e lo schiavo atriense, Il poeta – Sul credere e il non credere, Il poeta – In uno solo può esserci più senno che in una folla, Il buffone e il villano, Principe, il suonatore di flauto, Pompeo il Grande e un suo soldato, La meretrice e il giovanotto), si sforza di rimanere dentro i confini del genere favolistico, ma – come s’è detto – lo schema non funziona compiutamente e, soprattutto, la morale diventa troppo debole.

Che le donne siano incostanti e si lascino muovere dalla loro fisicità (Quanta sit incostantia et libido mulierum), ovvero la morale della favola trasformata in titolo dal Perotti, è infatti una riflessione sui vizi femminili, necessaria conseguenza del quadro di miseria morale a cui si lega: ma finisce col giustificare di fatto l’infrazione del codice di comportamento da parte dell’altro protagonista e, soprattutto, ha una scarsissima valenza ‘educativa’, non offrendo alcuna indicazione comportamentale.

Quanto alla presenza del racconto nelle raccolte favolistiche medievali, esso si presenta con una intelaiatura strutturale molto simile a quella fedriana, con l’unica eccezione della scomparsa del personaggio dell’ancella – del resto di scarsissima rilevanza già in Fedro –; vi si riscontrano inoltre variazioni di poco conto in merito alla caratterizzazione della vedova, ai particolari aggiunti o tralasciati (come ad esempio la scomparsa, in alcune versioni, del rapporto erotico), alla sequenza delle azioni (in una versione, ad esempio, il rapporto fisico fra la vedova e il soldato segue il furto del crocefisso e l’aiuto fornito al soldato dalla vedova): variazioni di cui è difficile stabilire l’origine, anche se si può presumere che ogni singolo estensore, oltre che a Fedro, abbia attinto anche alla tradizione orale. In alcune versioni non si può poi escludere una sorta di contaminazione con il più ampio racconto petroniano della matrona di Efeso, sicuramente conosciuto e diffuso a partire dal XII secolo, ma Fedro resta comunque il modello dominante.

 

Un’ultima annotazione si rende necessaria in merito agli interessi giuridici di Fedro.

Gabriella Moretti, nel suo saggio Lessico giuridico e modello giudiziario nella favola Fedriana (“Maia”, 34, 1982, pp. 227-240), parlando del nucleo tipico della favola, ovvero il conflitto, notava giustamente che questo «assume spesso in Fedro le movenze di uno scontro giudiziario, talvolta davanti ad un vero e proprio tribunale, favorendo così l’ingresso nel lessico fedriano di termini giuridici, talvolta generici e usati in senso lato, talvolta, invece, con caratteristiche di grande precisione e tecnicismo». E aggiungeva: «Per nessuna delle favole a impianto espressamente giuridico ci è pervenuto un analogo mythos greco; solo per tre delle favole che contengono semplicemente alcuni termini giuridici possediamo favole di argomento corrispondente». Le favole sono quelle de Il lupo e l’agnello, La mucca, la capretta, la pecora e il leone, Il lupo e la gru: e anche in questi casi si notano «introduzioni o accentuazioni significative di lessico giuridico».

Notava inoltre come un lessico di natura retorica sia impiegato da Fedro, con relativa frequenza, nei promythia e negli epimythia, ovvero in quei versi iniziali o finali in cui, unitamente alla morale, viene di fatto suggerita l’interpretazione e la funzione della favola; e come una terminologia di origine giuridica sia da lui impiegata anche nella presentazione delle favole, che sembrano spesso inserirsi in una sorta di processo, in cui il lettore assume di fatto la funzione di giudice. Concludeva che, se certamente, nelle scelte di Fedro, hanno il loro peso le vicende autobiografiche, il fatto che la presenza di lessico giuridico percorra tutta la raccolta testimonia comunque una «specificità fedriana», un suo «intervento riconoscibile e stilisticamente connotante» sul «materiale offertogli dalla tradizione».

Le favole con struttura giudiziaria prese in esame dalla Moretti sono otto; in altre otto, è invece evidenziata una terminologia mediata dal campo giuridico. Fra queste ultime, oltre a Il lupo e l’agnello, La mucca, la capretta, la pecora e il leone, Il lupo e la gru, c’è anche Il nibbio e le colombe: complessivamente,  si tratta dunque di quattro fra le favole più note di cui abbiamo parlato all’inizio, e vale forse la pena di accennare alla terminologia stessa in esse presente.

Il lupo e l’agnello verte di fatto su una questione di proprietà: termini tecnici sono iurgii causa (pretesto di contestazione v. 4) e fictae causae che compare nell’epimizio («Questa favola è scritta a motivo di quegli uomini che opprimono gli innocenti con pretesti inventati»), col riferimento implicito alla possibilità di un uso distorto della legge. La mucca, la capretta, la pecora e il leone «presenta l’istituto giuridico della societas» (societas v.1); così come  Il lupo e la gru «accenna alla stipulazione di un pactum», col termine improbi nel promizio, che rimanda alla disonestà di chi non fa fede ad un giuramento (ius iurandum v. 7) e rifiuta di pagare il premio pattuito (pactum praemium v. 10); ne Il nibbio e le colombe è presentata «l’istituzione di un foedus», ovvero di una alleanza (v.8), che non può non essere rovinosa qualora sia stipulata con un disonesto (improbo v. 1).

Rimando al libro della Moretti per le favole a impianto espressamente giuridico e per gli approfondimenti sul lessico; un esame approfondito dei cambiamenti intervenuti nella favolistica medievale, quando il modello giuridico romano non era più comprensibile a livello di cultura diffusa, e certo non risultavano funzionali agli scopi le favole incentrate su di esso, è invece presente nel mio articolo Il tribunale degli animali. Favole "giuridiche" da Fedro al Medioevo latino (“Annali dell’Università di Ferrara – Sezione Lettere” II, 1, 2007, pp. 80-105 http://annali.unife.it/lettere/article/view/113).

 

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