«Mai come oggi si è forse prestata così attenzione al cibo: basti pensare al diffondersi generalizzato di interesse per le diete, l’alimentazione e i suoi riflessi sulla salute. Una serie di circostanze ha inoltre fatto sì che gli studi sulle pratiche culinarie acquistassero sempre più rilevanza, evidenziando e sottolineando anche in questo campo il tema delle diversità: perché, di fatto, ogni gruppo etnico tende a definire il proprio sistema alimentare come prodotto di una tradizione caratterizzante, come tratto di identità, rivendicando così la propria peculiarità a fronte di abitudini anonime e massificate. La cucina diventa così un indicatore culturale, che definisce il senso di appartenenza: se è vero infatti che l’universo dei sapori e degli odori, sedimentato nella memoria di ognuno, fa parte della storia personale, anche la memoria collettiva conserva odori e sapori – e dunque cibi e cucina – servendosene come strumento di recupero della propria storia identitaria.

Ovviamente, il discorso è molto complesso, perché l’identità non può assolutamente identificarsi col ‘chiuso’, ma nasce dal confronto e dallo scambio con altre diverse identità; perché l’identità non va ricercata nel luogo inesistente in cui affonderebbero le nostre radici; perché l’identità è qualcosa di dinamico, e le radici non la definiscono; perché le radici sono sempre molteplici e intrecciate fra loro in modo spesso contorto. Eppure, a livello diffuso, è proprio in questo bisogno di identità e nel frainteso concetto di “radici” che vanno ricercate – credo – le motivazioni inconsce dell’interesse sempre più vasto per la cucina dei nostri antichi progenitori Romani.

Proliferano così manifestazioni, mostre, libri, ricettari, ecc., in cui l’alimentazione dell’antica Roma è strettamente connessa alla nostra identità, e che in quell’antichità collocano le origini del nostro gusto; allo stesso modo, vengono riesumate parole latine come convivium o symposium, o taberna, o caupona per conferire ‘tono’ a locali di ristorazione; sono innumerevoli i ristoranti chiamati Apicius; si pubblicizzano “menù antichi”; chef più o meno famosi si cimentano con ricette di Apicio; piatti dell’antica Roma sono stati presenti all’Expo, e potremmo andare oltre».

Così scrivo nel mio libro sul Garum (pp. 121-122): perché l’attuale ‘successo’ di questa antica salsa rientra pienamente nel contesto.

 

Sennonché,  dagli alimenti più semplici come il pane o la pasta a quelli più rari e raffinati, come possono essere il garum o la colatura di alici, dal sale allo zucchero alle spezie al caffè al tè, dagli ortaggi ai legumi alla frutta, dai formaggi all’olio all’aceto, dal vino alla birra alle bevande alcoliche… ogni nostro cibo o bevanda ha una storia antichissima, sopravvissuta ai secoli, che trova nell’antica Roma i suoi più diretti antenati. Conoscere questa storia – spesso molto più ricca e articolata di quanto potremmo attenderci – è sicuramente importante: perché non solo ci pone nella condizione di ‘assaporare’ a pieno la nostra quotidianità, ma ci permette di cogliere la permanenza del passato nel nostro presente, ci consente di valorizzare le nostre tradizioni e la nostra cultura alimentare, e contribuisce così alla formazione della nostra coscienza storica.

 

 

Per quanto riguarda, ad esempio, i fichi, un frutto da sempre alla base dell’alimentazione quotidiana, attraverso la ricerca e l’indagine delle fonti latine è possibile realizzare quella che potremmo chiamare una voce enciclopedica: una sorta di narrazione – di storia – del fico nei secoli della latinità.

Questa storia abbraccia le leggende, le pratiche religiose e gli aneddoti che vedono la presenza della pianta di fico e dei suoi frutti; illustra le antiche convinzioni sulle caratteristiche della pianta, sui terreni e il clima che ne favoriscono la coltivazione, sulle malattie e gli insetti che possono colpirla; comprende le antiche e varie tecniche di propagazione, i metodi per aumentare e migliorare la produzione dei frutti nonché la pratica della caprificazione; descrive le diverse specie di fichi, le rispettive zone di origine, l’importazione, le consuetudini di innesto; e ci parla dell’utilizzo delle foglie e del legname, del rapporto della pianta e dei frutti con l’allevamento di animali e in particolare con l’apicoltura, dei vari usi alimentari – dal latte della pianta e del frutto usato come caglio, fino al vino e all’aceto e allo sciroppo di fichi – ,  delle proprietà nutrizionali e curative dei frutti, del loro uso nell’arte culinaria; e ci fa infine conoscere i diversi modi dell’essiccazione e della conservazione dei fichi, spesso identici a quelli tuttora in uso. In essa, infine, non mancano riferimenti alle connotazioni sessuali e oscene del frutto, ed anche alla valenza dei fichi secchi nell’ambito di quelle relazioni sociali complesse legate alla pratica del dono.