«Sotto il consolato di Cornelio Cosso e Asinio Agrippa, Cremuzio Cordo fu accusato di un crimine nuovo ed inaudito, per il fatto che nei suoi Annali allora pubblicati, in cui aveva lodato M. Bruto, aveva definito C. Cassio l’ultimo dei Romani. Gli accusatori erano Satrio Secondo e Pinario Natta, clienti di Seiano. Tale circostanza si rivelò funesta per l’accusato, come funesta era la presenza dell’imperatore Tiberio, il quale, col volto truce, ascoltava l’orazione di difesa che Cremuzio, ormai certo di dover morire, iniziò così: “O padri coscritti, a tal segno io sono innocente nelle mie azioni che si mettono sotto accusa le mie parole. Ma esse non sono rivolte contro l’Imperatore o contro la madre dell’Imperatore, le sole persone a ricadere sotto la legge di lesa maestà: mi si contesta di avere lodato Bruto e Cassio, le cui imprese, narrate da molti, sono state da tutti ricordate con espressioni di lode ed onore. Tito Livio, il più famoso fra tutti per lo stile e la fedeltà storica, celebrò Gneo Pompeo con così grandi lodi che Augusto lo chiamò il Pompeiano, senza che ciò offuscasse la loro amicizia. Nominò spesso come uomini insigni Scipione, Afranio, questo stesso Cassio e questo Bruto, senza mai chiamarli banditi e parricidi, termini che oggi si impongono per qualificarli. Gli scritti di Asinio Pollione tramandano di loro una splendida memoria, Messala Corvino elogiava Cassio come suo comandante: ed entrambi godettero ampiamente di ricchezze ed onori. Al libro di Marco Cicerone, in cui si innalzava alle stelle Catone, in che altro modo se non con una orazione di risposta replicò – come se fossero davanti a dei giudici – il dittatore Cesare? Le epistole di Antonio, i discorsi di Bruto contengono ingiurie, in verità calunniose, contro Augusto; si leggono poesie di Bibaculo e di Catullo piene di offese ai Cesari: ma lo stesso divo Cesare e lo stesso divo Augusto le tollerarono senza censurarle, non saprei se più per indulgenza o per saggezza. Infatti, non raccolte, le calunnie si spengono, se invece ci si adira finiscono col sembrare riconosciute per vere. Non voglio toccare i Greci, di cui non solo la libertà ma anche l’arbitrio restavano impuniti; oppure, se qualcuno volle in qualche modo castigarli, si vendicò delle parole con le parole. Ma soprattutto non incontrò mai alcun impedimento né diffamazione il raccontare di coloro che la morte aveva ormai sottratto all’odio o al favore. Forse che coi miei discorsi  infiammo il popolo alla guerra civile, mentre racconto di Cassio e Bruto che, armati, occupano la piana di Filippi? Forse che essi, morti ormai da settant’anni, così come sono da noi riconosciuti nelle statue che neppure il vincitore osò abbattere, non possono avere la loro parte di memoria nelle opere degli scrittori?  La posterità riconosce ad ognuno l’onore che merita, e, se mi cade addosso la vostra condanna, non mancherà chi si ricorderà non soltanto i Cassio e di Bruto, ma anche di me”. Uscito quindi dal Senato, si lasciò morire di fame. Il Senato decretò che i suoi libri fossero messi al rogo per mano degli edili, ma essi sopravvissero, prima nascosti e poi divulgati. Quanto più si deve dunque sorridere della stupidità di coloro che, forti della loro potenza nel presente, credono che si possa spegnere la memoria anche nelle età future: perché, al contrario, una volta che siano stati puniti, l’autorità degli uomini d’ingegno cresce sempre più, e i re stranieri, o quelli che si sono serviti della medesima forma di persecuzione, non hanno prodotto nient’altro se non il disonore per sé e la gloria per le loro vittime» (Tacito, Annali, IV, 34-35). 

Siamo nel 25 d. C.. L’accusa rivolta a Cremuzio Cordo poggia sul reato di lesa maestà: un evidente puntello giuridico utile a perseguitare il dissenso intellettuale. In realtà, l’accusa rivolta allo storico può essere definita a pieno titolo come reato di opinione: ché lodare Bruto e Cassio, promotori della congiura che aveva portato alla morte di Cesare, dal punto di vista dell’imperatore equivaleva in qualche modo all’espressione di un giudizio di condanna contro Cesare stesso e contro il regime imperiale sorto dalle sue ceneri.

Il tema affrontato nel passo, dunque, è quello del dissenso politico, e, per bocca di Cremuzio, che ricorda all’imperatore l’atteggiamento adottato dai suoi predecessori nei confronti dei letterati dissidenti, ben diverso e politicamente assai più efficace, Tacito esprime la propria critica ai metodi per fronteggiarlo basati sulla repressione, la persecuzione e la censura: metodi che raggiungono lo scopo contrario a quello prefisso, finendo con l’accrescere il prestigio degli intellettuali colpiti, far nascere la solidarietà nei loro confronti, dare visibilità alle loro opinioni, e screditare il potere che vi fa ricorso. 

La fine di Cremuzio dimostra quanto poco la sua lezione di arte del governo avesse fatto presa sull’imperatore Tiberio: del resto, sotto il suo regno, che copre gli anni dal 14 al 37, dopo quello contro Cremuzio, si registrano almeno altri due processi legati per così dire al reato del dissenso, quello del favolista Fedro e quello dell’oratore e tragediografo Mamerco Scauro.

Di Mamerco ci parla ancora una volta Tacito, riferendo che la denuncia riguardava, fra altre accuse, anche l’argomento di una tragedia, scritta da lui, in cui erano citati versi che sembrarono rivolti contro l’imperatore: sia Mamerco che la moglie si suicidarono prima di quella che sarebbe stata una sicura condanna (Annali, VI, 29). La tragedia, oggi completamente perduta, era intitolata Atreus (Cassio Dione, Storia Romana, 58, 24).

A Mamerco e Cremuzio, pur non nominandoli esplicitamente, accenna anche Svetonio nelle sue Vite dei Cesari, e precisamente nella Vita di Tiberio, laddove scrive:

«Fu accusato un poeta per aver coperto di ingiurie Agamennone in una tragedia, e uno storico per aver chiamato Bruto e Cassio”gli ultimi dei Romani”. Condannati immediatamente gli autori, i loro scritti vennero distrutti, benché fossero stati approvati e letti parecchi anni prima, anche alla presenza di Augusto» (61).

Estremamente elogiativo il ricordo di Cremuzio che apre la Consolazione a Marcia di Seneca: quella Marcia che, dopo il suicidio del padre, aveva assicurato la circolazione e la conservazione dei suoi libri salvatisi dal rogo.

Quanto a Fedro, su cui abbiamo pochissime notizie biografiche, è lui stesso, nel prologo del III libro delle sue Favole (prologo che rappresenta per così dire il centro dell’intera opera), a parlarci della sua calamitas: della disgrazia in cui cadde, in epoca tiberiana, ad opera di Seiano. Il poeta accenna ai fatti con allusioni volutamente oscure, che difficilmente potranno mai essere del tutto chiarite. L’interpretazione tradizionale, che appare essere la più convincente, vuole che alcune favole dei libri precedenti (I e/o II) fossero state interpretate dal potente politico Seiano e dai suoi seguaci come  attacchi personali, e che, sulla base di una falsa accusa di cui si ignora la natura, Seiano avesse intentato a Fedro un processo: il processo fu, secondo Fedro, una farsa, in cui Seiano stesso rivestì i ruoli di accusatore, di teste e di giudice (vv. 41-42). Non sappiamo come il processo si concluse, ma dal tono delle favole del III libro e delle successive si evince che dalla condanna, qualunque essa fosse stata, Fedro, peraltro già vecchio, non si riprese mai, nemmeno dopo che Seiano venne giustiziato. 

Definito da Tacito «insigne per nobiltà ed eloquenza», Mamerco Emilio Scauro era personaggio di spicco, così come di estrazione senatoria era Aulo Cremuzio Cordo; Fedro – a quanto ci è dato sapere – era invece un liberto, che, portato prigioniero a Roma dalla Tracia quando era ancora un bambino, era stato poi affrancato. Parliamo dunque di personaggi con estrazione sociale assai diversa fra loro, di condanne diverse, nonché di diverse reazioni alle rispettive condanne: il che solleva curiosità in merito alle caratteristiche generali della figura dell’intellettuale nell’antica Roma – “intellettuale” inteso come colui che opera attraverso la scrittura –, nonché alla sua appartenenza sociale. D’altro canto, il tema del dissenso politico degli intellettuali affrontato da Tacito, con la sua critica ai metodi repressivi adottati dal potere imperiale per contrastarlo e il confronto con la tolleranza delle epoche precedenti, induce ad interrogarsi sul rapporto fra intellettuali e potere e sui mutamenti in esso intervenuti nel corso dei secoli. 

 

I principali autori dell’età arcaica sono, com’è noto, Livio Andronico, Nevio, Plauto, Cecilio Stazio, Ennio, Catone il Censore, Terenzio, Accio e Lucilio: Livio Andronico, Cecilio Stazio e Terenzio erano sicuramente dei liberti, il primo giunto a Roma da Taranto, il secondo probabilmente da Milano, il terzo da Cartagine;  il campano Nevio pare fosse di origine plebea e non si hanno indizi certi su un suo eventuale protettore; nativo di Sarsina, Plauto era quasi certamente un cittadino libero; originario della Puglia, Ennio,  era un protetto della nobile famiglia di M. Fulvio Nobiliore e degli Scipioni; nato a Tuscolo da agricoltori benestanti, Catone intraprese la sua carriera politica grazie all’appoggio del nobile L. Valerio Flacco; era figlio di liberti il pesarese Accio; Lucilio proveniva da una ricca famiglia della Campania.

Tragedia, commedia, epica, poesia satirica, poesia didascalica, poesia epigrammatica furono i generi letterari trattati dai vari autori, con eccezione di Catone, che, oltre ad un trattato sull’agricoltura e ad altre operette, si dedicò all’oratoria e diede inizio alla storiografia in lingua latina: la cosa non stupisce vista la sua appartenenza alla classe dirigente, dal momento che, fin dalle origini, l’élite politica riservò a sé la cultura giuridica e la cultura storica, fondamentali per il funzionamento dell’organismo statale, disdegnando di dedicarsi a qualsiasi tipo di produzione poetica. Un caso a sé è rappresentato dal poeta satirico Lucilio: di fatto, il primo letterato che, proveniente da una ricca famiglia, scelse di tenersi lontano dalle cariche pubbliche e si occupò esclusivamente di poesia, mantenendo a lungo legami col cosiddetto circolo degli Scipioni.

Nel panorama della letteratura arcaica, troviamo dunque autori significativi, sicuramente con una piena consapevolezza del proprio ruolo letterario e culturale, ma – tutti tranne Catone – dediti a generi letterari in qualche modo disdegnati dalla classe dirigente, e tutti rigorosamente lontani, anche per motivi di provenienza sociale, dalla vita politica; a prescindere da Lucilio, poi, quasi sempre troviamo alle loro spalle protettori importanti, pronti ad offrire loro il proprio sostegno: difficile dunque che, in tale situazione, potesse crearsi  un qualche loro conflitto col potere, del quale erano semmai propensi a celebrare i valori.

L’unico vero e proprio conflitto, non a caso seguito da provvedimenti repressivi, è, nel II secolo a. C., quello nato dalla diffidenza romana nei confronti del modello culturale greco, visto dai tradizionalisti come fattore scatenante della corruzione dei costumi e come minaccia ai valori su cui si fondava lo Stato: in particolare, ad essere considerata sovversiva, e dunque pericolosa, fu la filosofia greca.

È del 173 l’espulsione da Roma dei filosofi epicurei Alcio e Filisco (Ateneo, Deipnosofisti, XII, 547a); secondo quanto riportato da Svetonio (Grammatici e retori, 25, 1 = Gellio, Notti Attiche, XV 11, 1), nel 161 a.C., una deliberazione del Senato autorizzò il pretore Marco Pomponio a bandire dalla città, se lo riteneva utile, i filosofi e i retori. Un altro bando fu promulgato – per opera di Catone – nel 155 a.C., quando giunsero a Roma come ambasciatori tre fra i filosofi greci più celebri del tempo, ovvero l’accademico Carneade, lo stoico Diogene e il peripatetico Critolao (Cicerone, Epistole ad Attico, XII, 23 e Gellio, Notti Attiche, VI, 14, 8), che ebbero tutti, e soprattutto Carneade, grande successo di pubblico: Catone, presente ad una sua lezione, temette che le teorie esposte potessero distogliere i giovani dall'azione e dalla guerra e sollecitò il Senato ad ascoltare al più presto i tre filosofi e a rispedirli quanto prima in patria.

I provvedimenti contro i filosofi non ebbero comunque una lunga efficacia, non coinvolgendo la parte dell'aristocrazia romana più aperta alla cultura greca; e la filosofia greca – con particolare predilezione per lo stoicismo – poté ben presto entrare a Roma e trovare un fertile terreno di ascolto, soprattutto grazie alla presenza del filosofo Panezio fra gli intellettuali del ‘circolo’ scipionico.

Quanto ai letterati latini di cui abbiamo parlato, una condanna legata alle proprie opere parrebbe aver colpito Nevio, forse non a caso l’unico di cui non si conoscano protettori, e privo dunque di ogni complesso di sudditanza: le fonti raccontano infatti che egli terminò la sua vita in Africa, in un esilio che non si sa se imposto o volontario, dopo che Quinto Cecilio Metello, passando sopra a tutte le consuetudini del diritto romano, lo aveva fatto imprigionare per avere attaccato la sua nobile famiglia.

Sul fronte opposto, Ennio, che accompagnò il generale Fulvio Nobiliore nella sua campagna militare in Grecia col compito di illustrarne le tappe e le vittorie, che scrisse celebrazioni di condottieri e uomini politici contemporanei, e che, soprattutto, compose il suo poema Annali  con chiara funzione celebrativa, contribuì significativamente a stabilire un vincolo fra letteratura e potere, fra potere e propaganda. 

 

 

Politicamente segnata dalla crisi lacerante delle istituzioni repubblicane, la successiva età cesariana è un’epoca che vede grandi dibattiti teorici, politici e ideologici; che vede la massima fioritura dell’oratoria e soprattutto il formidabile impulso del pensiero filosofico, con una intensa circolazione di idee e di ideali. Nel generale fermento culturale che caratterizza gli anni dal 78 al 44 a. C., gli intellettuali – provenienti solitamente dalle classi medie e alte – godono di una notevole autonomia nel quadro della vita sociale: sia che siano più o meno immersi, come Cicerone o Varrone o  Sallustio, nei centri del potere, sia che ne siano orgogliosamente lontani, come i poeti neoterici o Catullo o Lucrezio, essi, tutti, sembrano non essere soggetti ad altri se non a se stessi, o, al più, ai loro ‘cenacoli’ culturali. Vero è che l’uomo politico repubblicano era solito adottare e proteggere uomini di lettere per diffondere la propria fama, ed è altrettanto vero che Cesare, oltre ad essere lo storico di se stesso e a rispondere personalmente (o tramite il fedele Irzio) agli avversari politici più insidiosi, incoraggiò gli studi di Varrone con l’intento di risvegliare l’interesse per la religione romana e le antichità ‘nazionali’: ciononostante, nemmeno per i protagonisti della filosofia o dell’oratoria o degli studi storico-antiquari si può parlare di interferenze dirette volte a ‘sfruttare’ la letteratura o a condizionarne gli autori. 

Eppure è proprio in età cesariana  che si gettano le vere e più profonde fondamenta di un sistema di potere destinato nel tempo a ledere fortemente la funzione autonoma degli intellettuali stessi: un sistema di potere, messo in atto da Giulio Cesare, in cui la propaganda assume un ruolo centrale.

La strategia cesariana di organizzazione, o per meglio dire manipolazione del consenso si compone infatti di diversi elementi, ma sicuramente la propaganda ne è il perno.

Intento propagandistico e di auto-encomio hanno i suoi Commentarii De bello Gallico e De bello civili (basti dire che, ne La guerra gallica, la campagna è presentata come una guerra difensiva e le capacità militari e politiche di Cesare sono messe costantemente in risalto; ne La guerra civile, gli avversari sono meschini e corrotti, mentre la condotta di Cesare si basa sulla moderazione e sul rispetto della legalità; gli avversari sono crudeli, mentre Cesare è clemente).  Strumento di propaganda diventa anche l’utilizzo del mito da parte di Cesare, con l’assecondare la credenza nella propria discendenza da Venere, attraverso l’asse Venere-Enea-Ascanio o Iulo, da cui avrebbe avuto origine la gens Iulia (Giulia): utilizzo ben testimoniato anche dalla coniazione di monete con le immagini di Venere ed Enea. E anche altre raffigurazioni ed iscrizioni presenti sulle monete – trofei gallici, immagini dei vinti, riferimenti alle proprie cariche religiose e civili – rappresentano un importante veicolo d’immagine. Ci sono poi le campagne militari, i progetti sempre più grandiosi per abbellire la città, le grandi opere realizzate o progettate: tutti simboli che veicolano un messaggio di potenza militare ed economica. 

 

Augusto procede sulla strada inaugurata da Cesare, creando un imponente e spregiudicato apparato propagandistico, ma ‘coltivando’ anche intellettuali disponibili a fare da cassa di risonanza, nella direzione di un sistematico sfruttamento della letteratura, e più specificatamente della poesia. Non risulta infatti che, nei confronti della storiografia egli abbia compiuto un simile tentativo di egemonia: vero è, peraltro, che lo storico Asinio Pollione, pur ostentando indipendenza, non assunse mai atteggiamenti di aperta opposizione; e vero è, soprattutto, che, nonostante il passo tacitiano del IV libro degli Annali, qui precedentemente citato, da cui si potrebbe desumere un qualche conflitto di Livio con Augusto per le sue simpatie pompeiane, lo storico fu sicuramente molto vicino al governo, intendendosi perfettamente con l’imperatore.

Il ritorno agli antichi costumi italici in quanto base della cultura più autentica di Roma, l’esaltazione degli antichi valori e in particolare della virtus (ovvero del coraggio virile nella difesa dello Stato e del suo prestigio) e della pietas (intesa come rispetto e devozione per gli dei, per la religione e per la patria), la celebrazione della grandezza di Roma e della pax raggiunta da Augusto, l’esaltazione della guerra come mezzo per estendere quella stessa pace nell’ottica di una Roma pacificatrice e civilizzatrice; e poi ancora la discendenza divina di Augusto, le lodi della regione che costituiva il cuore dell’impero, cioè dell’Italia, e della fertilità del suolo italico e dell’operosità delle sue genti…: questi i temi principali della propaganda augustea, veicolati in tutto l’impero attraverso le arti figurative, le iscrizioni sui monumenti, le incisioni sulle monete… che, in quell’epoca, finivano con l’assumere il ruolo di veri e propri mezzi di comunicazione di massa. Basti pensare, ad esempio, al testo delle Res Gestae Divi Augusti (Imprese del divo Augusto), destinato ad essere riprodotto in pubbliche iscrizioni, e giunto a noi appunto per via epigrafica, in cui Augusto dichiara di avere liberato la repubblica romana dalle minacce degli assassini di Cesare e della regina egiziana; riassume le guerre civili in una ‘liberazione’ dell’Italia dai tirannie dalle minacce esterne; spiega con particolare cura come il suo potere derivi dalla volontà del Senato e del popolo: insomma, un testo di propaganda ideologica e politica esemplare, capace di raggiungere anche la gente semplice, quella che non aveva gli strumenti culturali per accedere alla letteratura e per comprenderne la funzione celebrativa.

Quanto alle classi alte e medie, Augusto ben comprende il valore della letteratura nell’acquisizione e nel mantenimento del loro consenso, ed ecco che personaggi influenti offrono, soprattutto a poeti, la loro protezione, facendo propri e diffondendo i temi cari alla propaganda augustea. In particolare, il più famoso consigliere di Augusto, Mecenate, accoglie nel suo circolo i poeti più promettenti, promuovendo di fatto una letteratura ‘nazionale’, perfettamente conforme ai contenuti ideologici proposti da Augusto: una letteratura poetica, i cui principali rappresentanti sono Virgilio e Orazio. Virgilio veniva da una famiglia di piccoli proprietari terrieri; grazie ad Ottaviano aveva potuto sottrarsi all’esproprio delle terre nel Mantovano, destinate a ricompensare i veterani dopo la battaglia di Filippi, e per tutta la sua vita poté sempre contare sull’appoggio del Principe. Orazio era di famiglia modesta, figlio di un liberto; arruolatosi nell’armata di Bruto, aveva potuto tornare a Roma, dopo la battaglia di Filippi, grazie ad una amnistia,  ma, per la confisca del suo podere di Venosa, viveva in grande disagio economico, finché, presentato a lui da Virgilio, non incontrò Mecenate, tramite il quale arrivò ad avere una più che cordiale relazione con Augusto. Sicuramente, sia Virgilio che Orazio furono poeti ‘organici’ all’ordinamento augusteo, sicuramente avevano entrambi grossi debiti di gratitudine nei confronti di Augusto e di Mecenate, ma fu la loro oggettiva grandezza artistica, la loro capacità di unire genialità personale e tradizione, la loro oggettiva adesione ai bisogni intellettuali dell’epoca e la loro onestà estetica a far sì che la loro poesia, pur assolvendo nell’immediato agli intenti propagandistici del regime, non fosse minimamente riducibile ad una sorta di apologia compiacente, e si qualificasse ad essere tramandata nei secoli. 

Se Virgilio, Orazio e Livio rappresentano le glorie durature della politica culturale augustea, un certo dissenso rispetto ad Augusto si può cogliere nei poeti elegiaci: anche nelle loro poesie compaiono infatti temi presenti nella propaganda augustea, quali la pace, l’aspirazione ad una vita semplice, il contatto con la natura, il rispetto per gli antichi culti italici, la pietas, ecc., ma, con la parziale eccezione di Properzio, che scrive alcune elegie su temi patriottici, essi non si dedicano affatto a celebrare la nuova età apertasi con Augusto e, soprattutto, col loro antimilitarismo, il piacere dell’otium e il rifiuto dell’impegno civile e politico, si pongono oggettivamente in contrapposizione coi modelli etici dominanti.

Rispetto ad essi, il potere mantiene inizialmente un atteggiamento per così dire aperto, salvo passare poi con Ovidio ad un improvviso e per certi versi inspiegabile rigore, condannandolo, nell’anno 8/9 d. C., ad essere relegato a Tomi sulla sponda occidentale del Mar Nero (l’odierna Costanza, in Romania). Le cause della relegazione non sono state a tutt’oggi chiarite: l’unica cosa certa è che Ovidio, nella raccolta elegiaca dei  Tristia (Tristezze) composta a Tomi, con lo scopo di invocare almeno un luogo di relegazione meno triste e più vicino a Roma, attribuisce la propria caduta in disgrazia a due colpe, ovvero ad una sua opera poetica e ad un misterioso errore di cui afferma di non poter parlare (Perdiderint cum me duo crimina, carmen et error, alterius facti culpa silenda mihi II, 1, 207-8). Su quale possa essere stato il misterioso errore si sono avanzate molte ipotesi, basandosi in gran parte sulle vaghe giustificazioni addotte da Ovidio, e consenso non c’è nemmeno riguardo all’opera o alle opere poetiche incriminate: è certo comunque che, in relazione ai suoi scritti, l’accusa fosse quella di immoralità, per essersi addirittura fatto maestro di adulterio,  e l’immoralità, connessa al rilassamento dei costumi, cozzava necessariamente col programma augusteo volto a rinsaldare la religione e la famiglia, come pilastri basilari della società: basti ricordare le Leges Iuliae, promulgate da Augusto, che contemplavano appunto provvedimenti sulla famiglia e sul rispetto delle antiche tradizioni, dalla  De maritandis ordinibus (che multava i celibi) alla De adulteriis coercendis (sulla repressione dell’adulterio), fino alla Papia Poppaea, del 9 d. C. – non a caso più o meno contemporanea al provvedimento contro Ovidio –, che, finalizzata ad incoraggiare e rafforzare l’istituto del matrimonio, integrava e completava le precedenti.

Che il rapporto degli intellettuali con Augusto si fosse fortemente incrinato verso la fine del suo principato è ben testimoniato anche dall’episodio di intolleranza avvenuto nel 12 d. C., quando venne decretato il rogo dell’opera storica di Tito Labieno, che osava denunciare la corruzione annidata nel governo: come ci racconta Seneca il Vecchio nelle  Controversiae (X, praef. 4-8), con una pena mai comminata prima, i suoi nemici ottennero infatti che tutti i suoi libri venissero dati alle fiamme; non sopportando di sopravvivere al proprio lavoro, lo storico si suicidò facendosi rinchiudere nella tomba di famiglia. 

 

Il distacco fra potere politico ed élite intellettuale che aveva caratterizzato l’ultima fase dell’età augustea era destinato a non ricomporsi più, se non in modo del tutto occasionale:  dopo Augusto, di fatto, nessuno degli imperatori successivi fu dotato delle qualità che egli aveva avuto nell’organizzare il consenso.

Ed ecco che, in mancanza di un effettivo  controllo, il regime si lasciò più facilmente andare a gesti di intolleranza repressiva.

Abbiamo già parlato di Cremuzio Cordo, Mamerco Scauro e Fedro; ricordiamo anche il provvedimento emanato nel 19 d.C. dall’imperatore Tiberio contro i seguaci di culti giudaici ed egiziani (Svetonio, Vita di Tiberio, 36 e Tacito, Annali II,85), che comportò la chiusura della scuola filosofica di ispirazione stoica dei Sestii, la prima ad esprimere, in greco, i costumi romani  (Seneca, Questioni naturali, VII, 32 e Sull’ira, III). Andando avanti nel tempo, è poi Svetonio a raccontarci di un poeta di atellane fatto bruciare vivo da Caligola per avere scritto un verso dal doppio senso (Vita di Caligola, 26); così come fu Caligola che, a causa di un’orazione pronunciata in Senato, avrebbe voluto fare assassinare Seneca, il cui stile – ci racconta Svetonio (Vita di Caligola, 53), gli era decisamente sgradito –: Seneca si salvò poi dalla condanna grazie all’intercessione di un’amante dello stesso Caligola (Cassio Dione, Storia romana, 59). Da Cassio Dione (60) e da altre fonti, sappiamo che lo stesso Seneca fu in seguito esiliato in Corsica dall’imperatore Claudio, per un’accusa di adulterio, ma non mancano sospetti che la sua vicenda, orchestrata da Messalina, mirasse, tramite lui, a colpire quella componente del Senato che criticava l’accentramento del potere nella casa imperiale; va aggiunto poi che Seneca aveva finalmente portato a termine il suo dialogo Sull’ira, al quale aveva lavorato nei precedenti anni, che aveva quale bersaglio Caligola, tiranno caratterizzato da una sorta di quotidiana «demenza», e in questo dialogo erano presenti passi sicuramente interpretabili come velate allusioni – non certo positive – nei confronti di Claudio.

 

A quella di Claudio segue, col principato di Nerone, un’epoca di ancora più intensa conflittualità fra intellettuali e potere, tristemente famosa anche per i suicidi ‘comandati’ da Nerone del proprio precettore Seneca e del poeta Lucano, accusati di avere aderito alla congiura dei Pisoni (nel 65 d. C.), nonché del cortigiano Petronio probabile autore del Satyricon (nel 66 d. C.); conosciamo inoltre da Tacito i nomi di due altri autori condannati all’esilio per la loro attività letteraria, ovvero Antistio Sosiano, per i suoi versi oltraggiosi contro l’imperatore, e Fabrizio Veientone, per le sue pagine piene di oltraggi contro senatori e sacerdoti (Annali, XIV, 48 e 50). Vero è che Svetonio, nel panorama orrido dei comportamenti di Nerone, gli attribuisce un atteggiamento stranamente tollerante nei confronti degli improperi e degli insulti della gente, espressi anche in versi latini e greci affissi e divulgati, commentando però che la stranezza poteva dipendere dal disprezzo verso l’opinione pubblica o dal desiderio di non irritare ancora di più gli spiriti mostrandosi risentito (Vita di Nerone, 39): e, se la seconda ipotesi pare stare difficilmente in piedi, la prima trova sicuramente maggiore credibilità, aggiungendovi forse anche il disprezzo nei confronti di una forma di comunicazione letteraria ‘bassa’, che rendeva innocuo il dissenso. Ben diverso, e ben più pericoloso, era invece il dissenso espresso da personalità come Seneca e Lucano, verso i quali Nerone, incapace fra l’altro  di rivaleggiare con loro – come ci racconta Tacito (Annali, XIV, 52 e XV, 49) –, soffriva anche di forti gelosie letterarie.

 

Le fonti (da Plinio il Giovane a Tacito a Svetonio a Cassio Dione) ci raccontano che sotto Vespasiano furono perseguitati i maestri della filosofia stoica e scettica attivi in Roma: Ostilio e Demetrio furono mandati in esilio ed Elvidio Prisco che si era rifiutato di riconoscere Vespasiano quale imperatore, fu condannato a morte. L’imperatore Domiziano, a sua volta, condannò a morte Giunio Aruleno Rustico, e ne fece bruciare le opere, per averlo criticato nel panegirico scritto su Trasea Peto, che a sua volta era stato condannato da Nerone a suicidarsi; stessa sorte toccò ad uno storico di nome Ermogene, a causa di alcune allusioni contenute nella sua opera, opera per la quale furono addirittura crocifissi i copisti che l’avevano trascritta; a morte fu anche condannato il senatore e filosofo stoico Senecione, autore di una biografia elogiativa di Elvidio Prisco, che fu considerata un delitto di lesa maestà e che fu pubblicamente bruciata; nel 93, infine, con un senatoconsulto voluto dall’imperatore, furono cacciati da Roma e dall’Italia tutti i filosofi considerati ostili al governo. 

 

Ritorniamo ora alla pagina tacitiana da cui abbiamo preso le mosse. Tacito iniziò a scrivere dopo la morte di Domiziano, dopo quello che si era caratterizzato come un quindicennio di terrore, e la stesura degli Annali si colloca a partire dal 117, quando a Traiano succedette l’imperatore Adriano. Il clima politico era già positivamente mutato durante il breve interregno di Nerva e poi con Traiano, e si respirava una nuova aria di libertà: ma la ‘lezione’ di Cremuzio, e l’importanza che Tacito le dà nel contesto, lasciano credere che lo storico volesse indirettamente parlare al nuovo imperatore, evidenziando così non solo quanto cruciale fosse per il regime il tema del dissenso politico, ma anche quanto egli considerasse ancora attuale – pur se apparentemente rimosso – il rischio di opporsi a quel dissenso in modo sbagliato, e il rischio di fomentarlo anziché fronteggiarlo correttamente.

In ogni caso, non si hanno notizie di provvedimenti repressivi contro gli intellettuali in età adrianea: una sorta di disposizione punitiva colpì Svetonio, la cui luminosa carriera burocratica si interruppe nel 122, quando egli, caduto in disgrazia assieme al suo protettore Setticio Claro, prefetto del pretorio, fu destituito dal suo incarico di addetto agli archivi e alla corrispondenza, e fu allontanato da corte, ma il provvedimento non fu legato alla sua produzione letteraria, quanto ad un qualche scandalo della corte stessa (Historia Augusta, Vita di Adriano XI). Un atteggiamento vessatorio nei confronti di un Giovenale ormai ottantenne, allontanato da Roma ed inviato in Egitto col pretesto di un incarico, ma in realtà a causa di certi suoi versi offensivi nei confronti di un favorito dell’imperatore, ci è infine testimoniato da una biografia di età tarda (probabilmente risalente al IV secolo d. C.): sennonché, la notizia di questo esilio, nata probabilmente dalle suggestioni della sua biografia e, soprattutto, dai contenuti delle  Satire, piene di odio anti-tirranico e anti-ellenico, col loro astio antisociale, il loro risentimento per la propria mancata integrazione, il quadro fosco della società che esse ci restituiscono, è stata del tutto screditata dai più moderni studi.

Fra le pecche di una società irrimediabilmente corrotta, un peso significativo assume in Giovenale – come prima di lui, pur se in forme più attenuate, in Marziale – la decadenza generale degli studi e, al suo interno, il rapporto ormai instauratosi fra il potere e gli intellettuali: o, per meglio dire, quella fascia di intellettuali, soprattutto poeti, che, privi di autonomia economica, si vedevano costretti ad asservirsi.

Centrale è, nel contesto, la Satira VII, col rimpianto manifestato da Giovenale per l’epoca augustea:  chi vuole dedicarsi alla poesia è costretto a diventare letterato-cliente, a seguire uno o più patroni senza alcuna base di stima reciproca nel rapporto col loro, e a vivere spesso in una relativa ed umiliante ristrettezza economica; lo stesso vale anche per gli scrittori di storia, per gli oratori, per i retori e per i grammatici. Non esiste più, insomma, alcun Mecenate, ma l’unico  mecenatismo è quello che richiede adulazioni, lusinghe e spirito servile. 

 

L’ultimo grande autore della letteratura pagana è Apuleio, che terminò la sua vita sotto l’impero di Marco Aurelio, nella seconda metà del II secolo, quando era ormai alle porte l’affermarsi del Cristianesimo.

A partire dal III secolo, sarà la letteratura cristiana a rappresentare per secoli il principale se non unico avvenimento culturale nell’Occidente latino; la letteratura pagana non produrrà più che pochi stanchi epigoni, eccettuate, almeno in parte, nel IV secolo, la storiografia e l’epica, con le figure di Ammiano Marcellino e di Claudiano: e, con gli autori cristiani, si aprirà un nuovo e ben diverso capitolo nella storia del rapporto fra intellettuali e potere. 

 

Il problema del modo in cui un letterato o un filosofo – o in senso più generale un intellettuale – debba rapportarsi al potere è stato da sempre molto dibattuto, chiamando in causa anche l’impatto del potere stesso sulla sua credibilità e sulle sue opere.

Per quanto concerne la letteratura latina, non si può non affermare che, fin dal suo esordio, essa è, in modo più o meno palese, sotto il controllo delle classi dirigenti, così come lo sono le competenze giuridiche e quelle religiose: se la letteratura latina ha un vizio di origine, esso consiste nell’ambiguo rapporto da sempre intrattenuto col potere.

I rapporti fra intellettuali e letteratura da una parte e potere politico dall’altra possono essere pacifici o più o meno conflittuali, a seconda del contesto storico, ma la caratteristica predominante rimane quella di una sostanziale ‘organicità’ degli scrittori latini a ben precise classi o ceti di potere: sia che rivestissero ruoli importanti nella pubblica amministrazione o a corte, sia che a quegli stessi ceti appartenessero o ne condividessero gli ideali, sia che fossero dipendenti da essi per il proprio sostentamento, gli scrittori ne subivano inevitabilmente i condizionamenti.

In alcuni casi, ci troviamo di fronte ad una totale integrazione del letterato, con una sua piena e organica collaborazione; a volte assistiamo al controllo delle autorità sui messaggi veicolati; altre volte possiamo evidenziare una tollerata perché innocua opposizione virtuale; di fronte all’assunzione di una funzione chiaramente antagonista del letterato, vediamo subentrare infine la repressione violenta. Sennonché, anche nel caso in cui si processi e si condanni un letterato, il conflitto non sembra riguardare mai il potere e una pretesa libertà da esso da parte del letterato: la funzione critica di quest’ultimo si manifesta sempre, infatti, come scelta politica di parte e non come scelta intellettualmente autonoma; conseguentemente, la punizione non è volta a colpire una qualche sua pretesa vocazione all’indipendenza, quanto piuttosto la parte politica avversa da lui rappresentata.

 

L’età augustea è quella che vede il più alto grado di ‘organicità’ degli intellettuali col potere, ed è anche quella in cui, sulla via già inaugurata da Ennio, gli intellettuali vengono per la prima volta organicamente utilizzati per cercare di ottenere il più ampio consenso: un utilizzo strumentale, che rientra in pieno nel potente e multiforme apparato propagandistico messo in piedi da Augusto.

Dopo Augusto, nessun imperatore fu in grado di organizzare il consenso con la sua stessa abilità, ma non venne mai messo in discussione, comunque, il ruolo primario della propaganda nel sistema di potere, né il ruolo degli intellettuali all’interno della propaganda stessa. E questo del rapporto fra potere e consenso e propaganda, nonché fra propaganda e intellettuali, è un lascito dell’antichità da cui – oserei dire purtroppo – non si sono mai prese le distanze: complice forse il fatto che il modello di sovranità cesariano, ispiratore del regime augusteo, ha rappresentato nei secoli, e rappresenta tuttora, la realizzazione di tutti i più grandi sogni del potere, ovvero una dittatura legittimata appunto dal consenso.