La parola italiana “paura” è strettamente legata al verbo latino paveo, nonché al sostantivo pavor e all’aggettivo pavidus da esso derivati; ma, ovviamente, come molte sono in italiano le ‘parole della paura’ così anche la lingua latina ci trasmette un ricco e variegato lessico riferibile a quella che la tradizione stoica definisce una delle quattro principali passioni, assieme al desiderio, alla gioia e alla tristezza.
Oltre a paveo, pavor e pavidus, abbiamo i verbi pavito, pavesco (expavesco), timeo (extimesco), metuo, terreo (absterreo, conterreo, terrifico, territo), formido, vereor …; i sostantivi pavor, terror, formido, metus, timor, horror, ma anche angor, anxietas, trepidatio, sollicitudo… ; l’aggettivo horrificus e l’avverbio horrifice… Molti e di diversa intensità sono infatti i livelli emozionali della paura, che, per essere espressi, richiedono dunque parole diverse, portatrici di diverse sfumature semantiche, non sempre peraltro di facile identificazione e impossibili da definire in assoluto.
E, come molti sono i livelli emozionali, altrettanto numerose sono le cause della paura, i pericoli che la innescano: congiunturali o meno che ne siano le cause; maschili o femminili, adulte o infantili, individuali o collettive che le paure siano. Il quadro delle paure è insomma vastissimo e, ammesso che serva, è pressoché impossibile definirlo con compiutezza, ordinando e classificando le paure stesse: persino una distinzione apparentemente logica e basilare come quella fra paure “reali” e paure “immaginarie” comporta non poche complicazioni, sia a livello sociale che sul piano delle singole personali vicende. A livello sociale, potremmo ad esempio asserire che destano reali paure collettive – fondate su cause oggettive – le epidemie, le carestie, l’incertezza politico-economica, le crisi sociali e i conflitti, le guerre, le coercizioni del potere, la povertà, le calamità naturali: ma dobbiamo tener conto del fatto che alcune paure collettive possono essere indotte o amplificate strumentalmente a scopi politici, al servizio di pregiudizi di parte (una per tutte la paura del ‘diverso’), confondendo così i confini fra “reale” e “immaginario”. Allo stesso modo, a livello personale, la percezione fa spesso sì che acquisti “realtà” qualcosa che appartiene alla “immaginazione”.
Quella che chiamiamo genericamente “paura” è un fenomeno sfaccettato e complesso, la cui comprensione passa attraverso la fisiologia, la psicologia, l’antropologia, la filosofia, la sociologia, ma anche attraverso la politica e la storia: perché – soprattutto per quanto concerne la collettività – è anche un fenomeno soggetto a mutamenti; perché ci sono paure che appartengono a determinati tempi e società, che sono legate a determinate circostanze storiche e culturali, così come ci sono paure che, sparite a causa di mutamenti epocali, si ripresentano poi inaspettatamente. Basti pensare alle odierne paure collettive della pedofilia o del terrorismo; oppure alla paura delle epidemie o a quella della guerra, che, rimosse dall’immaginario collettivo dell’Occidente, hanno improvvisamente trovato nuovo terreno fertile per germogliare e proliferare, smontando ogni passata certezza in tema di sicurezza sanitaria e di pace, e creando, come corollario a quella della guerra, la paura della guerra nucleare. Ancora più che le paure, sono infine soggette a mutamenti le risposte culturali attraverso cui si cerca di esorcizzarle, dominarle, gestirle.

Nel mondo romano, il poema filosofico di Lucrezio su La natura delle cose (De rerum natura) ha in qualche modo la paura come tema centrale: Lucrezio, infatti, sulla scia del filosofo greco Epicuro, si propone di combattere, attraverso la conoscenza del ‘vero’ nella natura, due fondamentali paure che sono alla base dell’infelicità umana, ovvero la paura degli dei e la paura della morte, entrambe dilatate dalla religione.
La morte – sostiene Lucrezio – è il nulla, e il nostro modo di essere dopo la morte sarà lo stesso che prima del nascere; la paura della morte, come pure l'inquietudine nella vita che ne consegue, è effetto dell'ignoranza, e a causa sua gli uomini non trovano pace; l'anima, per sua stessa composizione, è mortale, e dunque dopo la morte non c’è nulla, non ci sono fantasmi e non c'è alcun aldilà da temere. L’aldilà, con le sue pene eterne, non esiste, ma è soltanto un vano timore, indotto assieme ad altri dalla religione. In questo, la religione è di fatto strettamente funzionale al sistema della giustizia: perché le leggi rappresentano un giogo, la giustizia è fondata sul timore, ed è proprio la religione a far nascere nell’uomo questo timore che offusca il piacere del vivere. La religione, nel suo aspetto di superstizione culturale, è fonte di terrore e di schiavitù: la paura ne è la premessa, l'ignoranza ne è la condizione.
La paura della morte è a più riprese affrontata anche da Cicerone e, più tardi, dallo stoico Seneca.
Nelle Tusculanae disputationes (Le discussioni di Tuscolo) di Cicerone, ad esempio, il primo libro è interamente dedicato alla morte, e non mancano riferimenti alla paura che essa può indurre. A partire dalla domanda se la morte sia un male, Cicerone dichiara che la morte non è un male per i morti, che non hanno più sensibilità, e dunque non può esserlo nemmeno per i vivi. Per definire la morte, bisogna avere chiara l'essenza dell'anima: se l'anima è mortale, la morte è il nulla e pertanto non è un male; se l'anima è immortale, allora la morte è un bene. Contrariamente a Lucrezio, per Cicerone l’anima è immortale, gli dei esistono, ma l’idea dell’esistenza degli inferi con i loro spauracchi è comunque un inganno.


All’interno della vasta produzione di Seneca, basti qui ricordare le Epistole a Lucilio (Epistulae ad Lucilium), sicuramente la sua opera più celebre. Di paura della morte e dell’aldilà si parla espressamente nelle epistole 24 (quella che contiene fra l’altro la famosa massima «scies nihil esse in istis (in quaque re) terribile nisi ipsum timorem – ti renderai conto che in ogni avvenimento non c’è niente che debba far paura se non la paura stessa»), e 78, con alcune argomentazioni peraltro analoghe a quelle ciceroniane, che, a loro volta, hanno diversi punti in comune con quelle lucreziane.

La paura della morte, la paura degli dei, la paura dei fenomeni naturali incomprensibili, la paura di un aldilà pieno di sofferenza, la paura dei fantasmi; e poi ancora la paura del futuro (ad esempio, Seneca, Epistole a Lucilio, 13), la paura della sofferenza fisica (Cicerone, Tuscolane, II – Seneca, Epistole 24 e 78), le paure relative a pericoli imminenti come l’esilio o il carcere (Seneca, Epistola 24): a livello di teorizzazioni, il panorama delle paure ‘filosofiche’ nel mondo romano è più o meno questo.

Quanto alla guerra, che alla morte è strettamente legata, in Cicerone e Seneca, laddove compare, sembra essere perlopiù usata come ‘serbatoio’ di esempi eroici: di persone, cioè, morte eroicamente per i propri ideali o per la Patria. Non così, ovviamente, in Lucrezio, che, seguace della filosofia epicurea, non solo proclamava la disgregazione del sistema religioso, ma anche il rifiuto dello Stato, considerato come qualcosa di estraneo all'individuo. Come scrive nel libro V (vv. 1129-30), «è molto meglio obbedire e starsene tranquillo piuttosto che voler sottomettere il mondo al proprio potere e occupare regni». Le guerre sono la maledizione degli uomini, il negotium è la condizione della loro ansia (di arricchire, di primeggiare, di schiacciare gli altri), e ad essi si contrappone la pace, la filìa, l'otium speculativo del saggio.

Oltre che nei testi filosofici, il fenomeno della paura, con i suoi innumerevoli aspetti, è presente più o meno in tutti i generi letterari: nell’epica, nella tragedia, nella commedia, nella poesia elegiaca, nella storiografia…
Si tratta per la maggior parte dei casi di paure individuali, ma non mancano riferimenti a paure collettive, e in particolare alla paura delle pestilenze. Questo tipo di paura è ad esempio molto presente, anche a livello lessicale, nel poema di Lucrezio, all’interno dei famosi versi sulla peste di Atene (VI, 1090-1286); ma, al di là dell’assenza di vocaboli specifici, è ben riscontrabile anche in passi sulla peste di altri autori, come Virgilio (Georgiche, III, 478-566), e Ovidio (Metamorfosi, VII, 523-614 e XV, 626ss.), dove però il male è sempre in qualche modo riconducibile ad una sorta di punizione divina, ed è ricorrendo agli dei che lo si può contrastare. Basti dire che la peste del Lazio, di cui parla Ovidio nel libro XV, fece nascere a Roma il culto del dio Esculapio, come narrato anche da Livio (Storia di Roma, X, 47).

Uno strano tipo di paura collettiva è quella causata da una sorta di invasione di ‘zombie’, di cui ci parla Ovidio nei Fasti (Fastorum libri). Le divinità dell’Oltretomba – dice Ovidio – non sono avide, si accontentano di pochi semplici doni e di parole sacre pronunciate davanti ad un braciere acceso, secondo l’usanza antica introdotta da Enea. Purtroppo, quando questa usanza si perse, nel tempo fatale di guerre lunghe e terribili, accadde che una luce funerea illuminasse la città di Roma: era la luce dei cadaveri abbandonati che bruciavano; e fu allora che gli antenati «uscirono dalle tombe, e nella notte silenziosa fecero sentire il loro pianto e i loro lamenti». Fu allora che «ombre deformi, vani fantasmi, atterrirono con le loro urla le vie di Roma e le campagne del Lazio». E poi tutto cessò, non appena i sepolcri ebbero di nuovo gli onori dovuti (II, 533-556).
Nel mondo antico, la più frequente delle cause che costringono i morti a tornare è la mancanza di una debita sepoltura, (quando i riti funebri non hanno potuto avere il loro normale svolgimento, infatti, i morti non trovano pace): come per la paura delle pestilenze, anche per la paura dei fantasmi – individuale o collettiva che essa – emerge quanto forte sia il ruolo della religione istituzionale, con la ritualizzazione della morte, che, unica, parrebbe impedire il ‘ritorno’ dei morti.

La comparsa di una schiera di fantasmi, che invadono città e campagne, è sicuramente riconducibile alla sfera dei prodigi, che contemplano in generale fatti strani e ‘contro natura’, forieri, tutti, di paura collettive. La letteratura latina è piena di racconti di prodigi: segnali divini, che necessitano di essere spiegati ed espiati da parte delle massime autorità sacerdotali, al fine di neutralizzarne il possibile significato negativo; paure indotte dall’ignoto, che possono essere ancora una volta esorcizzate tramite gli apparati religiosi istituzionali.

Un ‘inventario’ di questi prodigi che riempiono «le terre, i cieli, il mare», e atterriscono i cittadini ci è offerto, già nel libro I, dal poema La guerra civile (Bellum civile o Pharsalia) di Lucano: ché la comparsa di stelle sconosciute, di fuochi e luci nel cielo, di una cometa, di fulmini nel cielo sereno, di stelle durante il giorno; e poi un’eclisse di luna e una di sole, l’eruzione dell’Etna, valanghe di neve, invasioni diurne di uccelli, belve nel cuore di Roma, animali che parlano, nascite mostruose, …e poi ancora gemiti dalle urne funerarie, tombe che si scoperchiano… altro non annunciano se non la guerra civile fra Cesare e Pompeo. «Per tutto ciò, si decise, secondo l’antica usanza, di convocare gli indovini etruschi. Il più vecchio di loro […] ordinò che i cittadini atterriti compissero il giro di tutta la città, e che i sacerdoti preposti ai sacrifici costeggiassero in tutta la sua lunghezza il vasto pomerio, purificando così le mura con una processione solenne»; la processione si concluse con il sacrificio di un toro, che ebbe però esiti mostruosi e infausti, tanto da far presagire grandi e fatali sventure, dimostrando così l’impotenza della religione a placare gli dei di fronte allo scempio di un conflitto che poneva Romani contro Romani (vv. 522-637).
Nella Pharsalia, prodigi, furia degli elementi, stragi, malattie mortifere fanno da sfondo apocalittico alla collera, alla rabbia, ad un furore incontrollato, e, in un realismo cruento, i versi si riempiono di sangue, cadaveri, smembramenti, mutilazioni, violenze, agonie minutamente descritte; gli dei minacciosi invadono terra e cielo e mare con i loro prodigi terrificanti; il confine fra la vita e la morte è una linea discontinua e fluttuante, e la paura è tra i sentimenti maggiormente presenti.
Si prova timore in battaglia alla vista dei nemici, e numerose sono le cose di cui si può temere in ambito strategico-militare (inganni, tumulti, attacchi di sorpresa, ecc.); provocano terrore le tempeste di mare o le apparizioni di fantasmi o le visioni notturne; fonte di grande paura sono i prodigi nefasti… Né mancano riferimenti alla paura collettiva della guerra in sé e per sé: dopo il passaggio di Cesare al Rubicone, voci incontrollate – scrive Lucano – si aggiungono ai già fondati timori e prende piede nel popolo la visione dei futuri disastri; e non è soltanto il popolo a spaventarsi, ma anche i Senatori (I, 469ss.). Atterrite dai primi assalti della guerra sono le città del Lazio, disposte anche ad arrendersi, ma combattute fra la resa a Cesare e l’appoggio a Pompeo («il terrore – commenta Lucano – mutava facilmente i cuori e la Fortuna rendeva la fedeltà incerta» (II, 448ss.). Una Roma sgomenta e in preda al terrore è quella che vede l’ingresso di Cesare con le sue armate: una città e un Senato pronti ad approvare qualunque cosa Cesare voglia chiedere (III, 97ss.).
Vero è che, nel poema di Lucano, la paura della guerra sembra essere almeno in parte identificata con la paura nei confronti di Cesare e delle sue armate – quel Cesare alla cui sola fama tremano i popoli stranieri (III, 300) –; ma sempre di paura collettiva si tratta: e si tratta di una paura inevitabile, perché, trattandosi di una guerra civile, la popolazione e le stesse istituzioni sono direttamente coinvolte. Non a caso, la guerra fra Cesare e Pompeo, ovvero un conflitto scaturito da interessi personali, è definita da Lucano «mundi ruina (una rovina del mondo)» (II, 253), e «funus mundi (il funerale del mondo)» (VII, 617).

Ben diverso appare l’atteggiamento dei letterati latini nei confronti delle guerre di conquista, frutto della ferrea e costante volontà espansionistica di Roma, condotte da Roma lontano dai propri territori e dai propri cittadini, destinati, in linea di massima, a rimanere estranei ad esse: quelle guerre ‘non possono’ fare paura ai Romani, né è ammissibile che, in sé e per sé, facciano paura agli eserciti, addestrati a condurle. Eppure, questa paura – almeno fino alla creazione di un esercito professionale, portata a completamento in età imperiale – doveva esistere, perché non solo, fino a circa la metà del periodo repubblicano, l’organizzazione militare si basava sul servizio obbligatorio dei cittadini (che per di più non venivano pagati affatto, o ricevevano pagamenti di minima entità), ma via via che le campagne militari si prolungavano, si aggravava fino alla rovina la condizione di moltissimi piccoli proprietari terrieri, costretti alla guerra; si diffondeva la disoccupazione; le classi sociali inferiori si riducevano allo stremo, nascevano forti conflitti sociali: insomma, anche le guerre lontane, in realtà, toccavano molto da vicino la popolazione. Sorge allora, legittimamente, il dubbio che, nel ‘racconto’ della conquista, la paura della guerra non potesse non essere una sorta di tabù: sia riguardo alla popolazione civile, sia riguardo alle forze impiegate nelle campagne militari.

Sta di fatto che, ad una prima indagine, pur se non esaustiva, espressioni riconducibili alla paura della guerra in sé e per sé, intesa come paura collettiva, che può colpire e far tremare intere popolazioni o eserciti, sembrano comparire molto raramente.
Con riferimento allo stato d’animo di eserciti in guerra, solo in due passi, rispettivamente di Cesare e Tacito, compaiono le espressioni timor belli e pavor belli.
Cesare (De bello Gallico, IV, 15) racconta che i suoi soldati, reduci da un combattimento vittorioso contro i Germani, rientrarono negli accampamenti, tutti salvi e con pochissimi feriti, dopo i timori nutriti per una guerra tanto rischiosa (ex tanti belli timore).
Quanto a Tacito, il passo in cui compare pavor belli ci riporta all’anno 69 d. C., nel pieno della guerra civile che, ucciso l’imperatore Galba, vede contrapposti Otone, suo successore, e Vitellio, acclamato imperatore dalle legioni della Germania inferiore e superiore. Il potente esercito dei vitelliani, in marcia verso Roma, si scontra a più riprese con quello di Otone nei pressi del fiume Po, e a un certo punto Tacito commenta: «Leggo in alcuni autori che, per l’angoscioso timore della guerra, o piuttosto per una sorta di fastidio nei confronti di entrambi i Principi, le cui azioni vergognose e disonoranti diventavano di giorno in giorno sempre più note, i due eserciti erano in forse se fosse meglio, deposte le armi, prendere loro una decisione in comune o rimettere al Senato la scelta di un altro Imperatore […] Quanto a me, per quanto possa concedere che alcuni – pochi – sognassero segretamente la pace al posto della discordia, e un Principe buono e senza colpe invece di quei due pessimi e quanto mai dissoluti, non posso credere che Paolino (comandante dell’armata di Otone), con tutto il senno che aveva, potesse aspettarsi dalla moltitudine, vista la generale corruzione dell’epoca, un senso di moderazione tale per cui quanti avevano turbato la pace per amore della guerra, ponessero ora fine alla guerra per carità di pace; né che due eserciti, così diversi per lingua e per costumi potessero ritrovarsi uniti su questo accordo; né che legati e comandanti, per la maggior parte ben consapevoli della loro sregolatezza, delle loro miserie e scelleratezze, potessero accettare un Principe se non corrotto e vincolato dai loro favori nei suoi confronti» (II, 37).

Ad un’altra guerra civile, quella fra Cesare e Pompeo, riconducono due ricorrenze del nesso metus belli presenti in Cicerone, e precisamente nella Pro Plancio e in una delle Epistole ad Attico. Nell’orazione, Cicerone difende Cneo Plancio, eletto edile curule per l’anno 55 o 54, dalle accuse di brogli elettorali avanzate contro di lui nel 54 da uno dei candidati sconfitti. In uno dei numerosi passi in cui l’oratore parla di se stesso e del proprio esilio dopo la congiura di Catilina, si legge: «si era radunata a Roma l’Italia intera, e in tutti si inculcava il terrore con la minaccia della guerra civile e della devastazione» (35, 87). Nell’Epistola, Cicerone parla delle preoccupazioni e dei grandissimi timori suscitati dagli esiti di un possibile incontro/scontro a Brindisi fra Cesare e Pompeo, che potrebbe indurre ad una fragile speranza di pace, o condurre ad una guerra rovinosa (VIII, 13,1).
Metus belli, accompagnato dall’aggettivo Gallici (Gallici belli metus), compare anche in Epistole ad Attico I, 19, in cui Cicerone racconta ad Attico dei timori provocati dalla instabilità nella Gallia transalpina (su larga parte della quale i Romani avevano stabilito un governo diretto nel 121) e dalla possibilità di una guerra imminente: in effetti, quella instabilità servì da pretesto alla guerra che, condotta da Giulio Cesare, portò poi alla definitiva conquista e sottomissione di tutte le Gallie, nonché alla guerra civile.

Di ‘metus Romanus’ ovvero di paura suscitata dai Romani in altri popoli, si può invece parlare in relazione a quattro passi di Livio: 9, 45 – 29, 35 – 38, 42 – 39,53.
In 9, 45, si parla del 304 a. C., anno in cui si concluse con un trattato di pace la seconda guerra sannitica. Nello stesso anno – racconta Livio – si aprì nuovamente il fronte di guerra contro gli Equi, antichi nemici, che per anni non avevano creato fastidi, sotto l’apparenza di una pace di cui però non ci si poteva fidare: assieme agli Ernici, gli Equi avevano infatti ripetutamente inviato aiuti ai Sanniti, e, dopo la definitiva disfatta degli Ernici, erano passati ufficialmente dalla parte dei Sanniti stessi. Quando i Feziali (la corporazione sacerdotale a cui erano demandate le ambascerie e i trattati), seguendo il rituale e il protocollo dovuto, si erano presentati agli Equi per chiedere conto del loro comportamento, questi ultimi avevano sostenuto che si trattava di un tentativo per convincerli ad accettare di diventare Romani – cosa che essi non volevano – forzandoli con l’inculcare loro il terrore di una guerra (terrore incusso belli): a trattative fallite, alla fine Roma decretò la guerra e, in breve, gli Equi furono definitivamente sottomessi.
In 29,35 ad avere sparso per ogni dove il terrore della guerra (late fuso terrore belli) è Scipione in Africa, verso la fine della seconda guerra Punica.
In 38, 42, con riferimento alla decisione del Senato di assegnare un’unica provincia, quella dei Liguri, ad entrambi i nuovi consoli, per l’anno 187 a.C., il console Lepido, uno dei due designati, scontento dell’assegnazione condivisa, lamenta una lesione costituzionale nel mantenimento delle legioni di stanza in Asia e in Europa al comando di privati cittadini: a suo dire, era veramente umiliante che entrambi i consoli fossero relegati nelle vallate della Liguria, mentre due privati cittadini, M. Fulvio e G. Manlio (che avevano ricoperto il consolato nel 189, il proconsolato l’anno successivo, e che avrebbero dovuto passare il testimone), ormai da due anni spadroneggiavano l’uno in Europa l’altro in Asia. Se si riteneva opportuna la permanenza di eserciti in quelle terre, giustizia voleva che essi fossero affidati ai consoli, non a privati cittadini, che per di più andavano vagando tra nazioni alle quali non si era neppure dichiarata la guerra, mercanteggiando la pace col terrore della guerra (cum belli terrore).
Nell’anno 184 a.C., infine, a distanza di diversi anni dalla fine della seconda guerra macedonica, si racconta come Demetrio, figlio minore di Filippo V, fosse inviato a Roma con una ambasceria, per sopire i sospetti sulla possibilità che la Macedonia si stesse organizzando nell’eventualità di nuovi scontri. Al suo rientro in patria, nel 183, Demetrio fu accolto con grande simpatia e approvazione, perché il popolo Macedone, «che la paura di una guerra imminente da parte dei Romani aveva terrorizzato (quos belli ab Romanis imminentis metus terruerat)» lo vedeva come garante di pace, e lo considerava già come successore di Filippo sul trono (39, 53).

Una paura concreta, alimentata da violenze effettive, è infine quella di cui ci parla Ovidio: ed è l’unico caso in cui a provarla sulla propria pelle non sono popolazioni nemiche dei Romani, ma abitanti di una loro lontana provincia. Dal suo esilio di Tomi, sulla sponda occidentale del Mar Nero (l’odierna Costanza, in Romania), il poeta descrive le devastazioni compiute in quelle che egli chiama le estreme regioni dell’impero, dalle popolazioni confinanti dei Sarmati e dei Geti (provenienti approssimativamente dagli odierni territori dell’Ucraina, della Crimea e della Moldavia). «Alcuni – scrive – fuggono da ogni lato e, poiché nessuno difende più i campi, sono saccheggiati i beni lasciati incustoditi, i magri raccolti del campo, le bestie e i carri cigolanti e le ricchezze che il povero abitante possiede. Alcuni sono portati via prigionieri con le braccia legate sul dorso e invano si voltano a guardare i campi e la casa; altri cadono miseramente trafitti dalle frecce uncinate, perché i dardi volanti sono intinti di veleno. Ciò che non possono portare con sé o trascinare via viene distrutto e la fiamma nemica incenerisce le innocenti capanne. Anche quando c’è pace tremano per lo sgomento della guerra (trepidant formidine belli), e nessuno traccia solchi sulla terra con l'aratro. Questo paese o vede il nemico, o lo teme (metuit) se non lo vede» (TristiaTristezze, III, 10).

I passi sulla paura collettiva della guerra (Lucano, Cesare, Tacito, Cicerone, Livio, Ovidio) obbligano a qualche riflessione. In Cesare, l’ammissione della paura da parte dei suoi eserciti è fatta per così dire a posteriori, dopo la vittoria che aveva fugato quella stessa paura. Anche a non voler considerare il fatto che si stia comunque parlando di una guerra civile, la paura da parte dei rispettivi eserciti di Otone e Vitellio, che, secondo alcuni, avrebbe potuto condurli a deporre le armi, se da un lato appare fin dall’inizio strettamente legata all’idea dell’inutilità della guerra stessa, destinata comunque a favorire l’ascesa di un Principe indegno, dall’altro non è presa in alcuna considerazione da Tacito, che prende le debite dall’idea stessa che due eserciti di professionisti, mossi dal guadagno e guidati da comandanti scellerati, potessero essere ‘desiderosi di pace’. Nella Pro Plancio e nella prima delle due Epistole ad Attico di Cicerone la paura riconduce direttamente alla guerra civile fra Cesare e Pompeo; nella seconda delle due Epistole, l’espressione Gallici belli metus fa pensare in qualche modo a quel ‘metus Gallicus’ – a quel terrore dei Galli –, che, originato dal sacco di Roma del 386 a. C. da parte di Brenno, appare ben radicato nella coscienza collettiva dei Romani: né è da escludere una latente preoccupazione di Cicerone per l’ascesa politica di Cesare. Nei quattro passi di Livio, dove peraltro si evidenzia il carattere strumentale di deterrenza che la paura collettiva della guerra, indotta dalla potenza militare di Roma, può avere nei confronti dei suoi potenziali nemici, ad avere paura della guerra sono appunto i nemici. In Ovidio, infine, la paura è attribuita a popolazioni situate ai confini dell’impero, e abbandonate perciò alle incursioni dei vicini ‘barbari’.
Dunque, gli eserciti di Roma non sembrano conoscere la paura, o, se la conoscono, essa non è loro di impedimento alcuno verso la vittoria; quanto ai cittadini Romani, la paura sembra essere sempre e soltanto legata alle guerre civili.
Del resto, che lo si voglia o no chiamare imperialismo, la storia di Roma è la storia della sua conquista del mondo: un processo secolare, che non conosce battute d’arresto o momenti di ripensamento, e che inevitabilmente fonda sulla guerra e sulla necessità del consenso popolare la propria egemonia: molto probabilmente, dunque, nel racconto ‘eroico’ della conquista e della costruzione di un impero, la paura della guerra non poteva trovare posto.

Un’altra riflessione è poi necessariamente indotta dal complesso dei passi relativi a tutte le paure collettive qui ricordate, che fanno bene emergere il ruolo sociale e politico della religione nell’esorcizzarle (dal culto di particolari divinità alla ritualizzazione alla divinazione alla espiazione…), senza contare poi il ruolo politico fondamentale assunto da alcune istituzioni, come ad esempio quella dei Feziali.
È del resto un dato di fatto che, nel complesso di valori e tradizioni propri degli antenati – il cosiddetto mos maiorum –, fondamento della cultura e della società romana, la virtus implicava il coraggio, l’onore e il valore nella difesa dello Stato e del suo prestigio, e dunque anche il valore militare ‘eroico’; dal canto suo, la pietas doveva tradursi in rispetto e devozione per gli dei, per la religione e per la patria: la guerra e la religione erano insomma ‘valori’ imprescindibili per la compiuta formazione dell’uomo Romano.
Va dunque da sé che, contro la guerra o contro la religione – se non contro entrambe – solo poche voci, come quella, forte, di Lucrezio, trovassero lo spazio per alzarsi. Questo può spiegare anche perché S. Girolamo, nel Chronicon (Cronaca) affermasse che Lucrezio divenne pazzo a seguito dell'assunzione di un filtro amoroso e che compose alcuni libri del suo poema negli intervalli della pazzia – una notizia che va molto probabilmente respinta, come invenzione, o quanto meno esagerazione, di Girolamo o di altri del suo tempo –; e spiega anche perché la letteratura su Epicuro, a cominciare da Cicerone, e per il successivo millennio e mezzo, altro non sia – fatte salve poche eccezioni – se non una sequela di 'diffamazioni' del filosofo, accusato di ogni possibile nefandezza e depravazione. I detrattori potevano avere come motivo l'egualitarismo sociale presente nell'organizzazione della scuola (il famoso Giardino, fondata ad Atene nel 306, e perpetuatasi dopo la morte di Epicuro), aperta agli emarginati, agli schiavi, alle donne; ma va detto che questo egualitarismo valeva solo nell'ambito della scuola, e non pretendeva affatto di estendersi alla società. Quello che veramente appariva pericoloso all'ordine costituito, minaccioso, da combattere, era piuttosto la disgregazione del sistema religioso, il ‘pacifismo’ e il rifiuto dello Stato come qualcosa di estraneo all'individuo: il radicalismo della polemica epicurea era qualcosa di 'eversivo', in contrasto sia in una società fortemente politicizzata come quella romana, sia in ogni forma statuale, inevitabilmente costituita su forme di violenza, conservata tramite il diritto, arricchita dal negotium, sostenuta dai culti.

Oltre alla religio, a dover caratterizzare il vir – l’uomo Romano – erano necessariamente l’eroismo e l’ardore bellico: e a quegli uomini, destinati alla guerra, le donne, con le loro paure, potevano essere di impaccio, oppure potevano e dovevano al massimo portare conforto, senza avere alcuna voce in capitolo.
Questi concetti sono espressi a chiare lettere in un passo del III libro degli Annali di Tacito, dove si racconta che la provincia d’Africa, sconvolta da una ribellione contro l’impero, necessitava di un proconsole esperto in cose militari: nel contesto delle discussioni attorno alla persona da mandare, il generale Severo Cecina, all’interno di un discorso estremamente misogino, espresse in Senato l’opinione che – come era stato giustamente decretato un tempo – nessun governatore di provincia potesse essere accompagnato dalla propria moglie, perché «in un seguito di donne, ce n’erano di tali che ritardavano la pace col lusso, rallentavano la guerra con la paura, e trasformavano la marcia di un esercito romano in una avanzata di barbari». Ben pochi furono d’accordo con lui: «Alla guerra, s’intende, – affermò un Senatore – devono andare gli uomini, che possono agire liberamente; ma quale conforto è più dolce, a chi ritorna affaticato, di quello che una moglie può offrire?» (III, 33-34).

Gli uomini alla guerra e le vite delle donne sospese nell’attesa: l’appartenenza a due mondi diversi era comunque la norma.
I
l contrasto trova una sua poetica espressione nella lettera che Ovidio immagina scritta da Laodamia al suo sposo Protesilao, partito precipitosamente per la guerra di Troia il giorno successivo alle nozze (Heroides – Lettere di eroine, XIII). Laodamia maledice Paride, causa prima di quella guerra: lui che, a Sparta, infrangendo ogni regola di ospitalità, aveva sedotto e rapito Elena, moglie del re Menelao, e che, rifiutandosi poi di restituirla, aveva indotto il re spartano ad armarsi contro Troia. E se la prende anche con Menelao, per aver voluto appunto rispondere al gesto di Paride con le armi, per aver trascinato i greci in una terribile guerra solo per reclamare una ignobile adultera. «Maledetto tu sia, Paride figlio di Priamo, che ti fai bello a danno dei tuoi: che tu possa essere un nemico inetto così come fosti un ospite sleale […] E tu, Menelao, che troppo spasimi per il rapimento, ahimè, per quanti sarà causa di pianto il tuo desiderio di punizione e di vendetta!» (vv.43-48). Laodamia ha paura che quella guerra funesta le strappi via lo sposo: una guerra che non si risolverà facilmente, perché Troia è potente e può contare su forti guerrieri; una guerra che peraltro appartiene a Menelao. «Ho paura, ogni volta che penso a questa guerra deplorevole, e le mie lacrime cadono come neve che si scioglie al sole […] Paride era un ospite, e non avrebbe osato mettere in atto il rapimento, se non avesse saputo di potersi difendere: conosceva le proprie forze. Era arrivato a Sparta – si narra – bello a vedersi, in mezzo ad una profusione di oro, come portando su di sé le ricchezze delle sue terre d’origine; potente per la sua flotta e per i suoi eroi, mezzi grazie ai quali si combattono guerre feroci […] E tutto ciò penso che possa nuocere ai Greci. Temo un certo Ettore: Paride disse che Ettore sa condurre guerre spietate con mano insanguinata. Se ti sono cara, guardati da questo Ettore, chiunque egli sia: tieni impresso nel petto questo nome e non dimenticarlo. E, quando avrai evitato lui, ricordati di evitare gli altri, e considera che là ci sono molti Ettore […] Se è destino che Troia cada per mano dei soldati argivi, cada senza che tu riporti ferita alcuna. Che sia Menelao a combattere e a gettarsi contro i nemici, per rapire a Paride la donna che precedentemente Paride ha rapito a lui. Vada lui all’assalto, e sconfigga anche con le armi l’uomo che ha già sconfitto sul piano del diritto: è il marito a dover reclamare la sua sposa in mezzo ai nemici. La tua causa è diversa: tu lotta solo per rimanere in vita e poter ritornare fra le braccia devote della tua donna […] Facciano gli altri la guerra, Protesilao l’amore» (vv.51-84).
Ed ecco delinearsi nelle parole di Laodamia una figura di soldato – una sua ideale figura di soldato – molto lontana dal modello eroico: un soldato prudente, che evita gli avversari più pericolosi, che fa della cautela la sua virtù principale. E, siccome un oracolo aveva predetto la morte per il primo greco che avesse toccato il suolo troiano, e siccome, per di più, il nome Protesilao è connesso all’aggettivo greco protos, che significa “primo”, ecco che Laodamia invita il marito a non essere mai in prima linea, se non quando sarà il momento del ritorno. «Anche la sorte condanna ad un avverso destino colui, non so chi, che per primo fra i greci tocchi il suolo troiano: sventurata colei che per prima piangerà lo sposo perduto! Gli dei facciano sì che tu non voglia essere temerario! Fra mille navi, la tua poppa sia la millesima e per ultima solchi le acque già assiduamente navigate. Anche questo ti raccomando: scendi per ultimo dalla nave. Quello non è il suolo paterno, verso cui affrettarsi. Quando invece verrai, allora sì, spingi forte coi remi e con le vele la tua nave e arresta sui tuoi lidi il corso veloce» (vv. 93-102).
La guerra è nemica degli affetti familiari, la guerra fa paura, e la lontananza rende questa paura ancora più angosciosa. «Invidio le donne troiane – scrive Laodamia – anche se vedranno i tristi funerali dei loro cari e avranno il nemico vicino. La sposa novella, proprio lei con le sue mani, metterà l’elmo sul capo al forte marito l'elmo e gli darà le armi troiane: gli darà le armi e, nel dargliele, prenderà al tempo stesso i suoi baci - questo gesto sarà dolce per entrambi -, e accompagnerà fuori il marito, gli raccomanderà di tornare e gli dirà: "Fa' in modo di riportare indietro queste armi a Giove!". Lui, portando con sé le ultime raccomandazioni della sua donna, combatterà con prudenza e volgerà il pensiero alla sua casa. Al suo ritorno, lei gli toglierà lo scudo, gli slaccerà l'elmo e ne accoglierà sul seno il corpo stremato. Ma noi siamo nell'incertezza, un ansioso timore ci spinge a ritenere accaduto tutto ciò che può accadere» (137-150).
Di certo, la contrapposizione fra polo maschile, caratterizzato dalla forza e dal valore, e polo femminile, legato alla famiglia e al sesso, caratterizza sia il mondo greco che il mondo romano; e, di certo, è in qualche modo presente in molte delle Lettere ovidiane, espressione della infelice condizione della donna. Quanto all’avversione delle donne per la guerra, e nello specifico per la guerra di Troia, oltre che nella lettera di Laodamia, essa è espressa in modo esplicito già da Penelope, nei versi iniziali della sua lettera ad Ulisse (Heroides, I): «Troia – odiosa per le donne greche – è caduta. Priamo e l’intera città di Troia a malapena valevano un tale prezzo. Oh, se allora, quando faceva vela verso Sparta, l’adultero Paride fosse stato sommerso dalla furia delle acque! Io non avrei giaciuto nel gelo di un letto vuoto […]».
Sennonché, la lettera di Laodamia va oltre questa contrapposizione: creando una sorta di ideologia antieroica, per cui l’uomo soldato non rinuncia a combattere onorevolmente in guerra, ma, allo stesso tempo, non dimentica i propri affetti, la lettera si pone infatti nell’ottica di una utopistica conciliazione, da parte del polo maschile, fra le attività guerresche – che comunque appaiono inevitabili – e la famiglia.

Alla base di tutto, c’è in ogni caso la paura femminile delle guerre, di tutte le guerre: ché, alle donne, anche nell’antica Roma era concesso odiarla e temerla, pur se soltanto in nome dello strappo doloroso che essa crea negli affetti.