Rosvita è particolarmente conosciuta per i suoi drammi – o Dialoghi drammatici che dir si voglia – di ispirazione terenziana, ma questi non costituiscono la totalità della sua opera, che, nel principale testimone manoscritto, risulta divisa in tre libri, secondo un doppio e coincidente criterio cronologico e contenutistico.

Il I libro è preceduto da una Prefazione in cui Rosvita si affida alla benevolenza dei lettori, che dovranno scusare i suoi difetti; segue una dedica riconoscente a Gerberga, badessa di Gandersheim; infine, otto Leggende sacre, o poemetti agiografici (sette, in esametri leonini, ovvero esametri rimati, dal nome del poeta del XII secolo Leonio da S.Vittore, che, con la sua produzione, indusse altri poeti a fare uso sistematico della rima; uno in distici elegiaci).

Il II libro contiene i Dialoghi drammatici in prosa rimata, introdotti da una Prefazione, in cui Rosvita, fin dall'inizio, affermando l'utilità delle Sacre Scritture, illustra le motivazioni che l’hanno spinta a scriverli e si giustifica per le proprie numerose manchevolezze: prefazione seguita a sua volta da un’epistola indirizzata «ad alcuni uomini sapienti, fautori di questo libro». Dopo i dialoghi, si trovano alcuni distici falsamente attribuiti a Rosvita, nonché – suoi – trentacinque esametri leonini sull’Apocalisse. Da uno studi approfondito di questi primi due libri è emerso come Rosvita abbia perseguito un progetto unitario, comprendente leggende e ‘drammi’ (tra cui si sono individuate ampie ed elaborate simmetrie interne) e culminante nei versi apocalittici: non a caso, tra leggende e drammi si trova una breve annotazione di passaggio: Explicit liber primus, incipit secundus (Termina il libro I, inizia il II).

Il III libro, che in realtà non viene chiamato Liber tertius nel manoscritto, ma viene citato erroneamente così sulla base della principale edizione critica dell’opera di Rosvita, contiene un poemetto storico in esametri leonini: i Gesta Ottonis (Le imprese di Ottone). Il libro si apre con una prefazione-dedica dei Gesta a Gerberga; seguono due prologhi, destinati rispettivamente a Ottone I e Ottone II, quindi i Gesta Ottonis.

Un’ultima opera, i Primordia coenobii Gandershemensis (Le origini del convento di Gandersheim), ugualmente in esametri leonini, non ci è conservato da manoscritti, ma ci è noto solo attraverso la prima edizione a stampa (1709). Sono andate invece perdute le Vitae SS. Anastasii et Innocentii (Vite dei Santi Anastasio e Innocenzo), i protettori del monastero, che, secondo un’informazione risalente al XVI secolo, precedevano i Primordia nel III libro.

 

Le opere di Rosvita non ebbero alcun successo nel corso del Medioevo, tanto è vero che delle stesse ci sono giunti pochissimi manoscritti: fra questi, i più importanti sono quello che contiene tutte le opere esclusi i Primordia, e un secondo che contiene quattro dei sei dialoghi drammatici.

Sicuramente, il testo più famoso sono i sei drammi: scoperti nel 1494 da Conrad Celtis, furono da lui pubblicati per la prima volta nel 1501. La scoperta suscitò l’entusiasmo degli umanisti tedeschi contemporanei, che videro in Rosvita la continuatrice della tradizione poetica classica; tracce della notorietà raggiunta da Rosvita anche fuori dalla Germania sono rilevabili nella prima metà del XVI secolo in Italia (in una novella de Le piacevoli notti dello Straparola) e in Olanda (in uno dei Colloquia familiaria di Erasmo); cominciavano intanto a circolare traduzioni e rifacimenti. Stranamente, poi, per quasi due secoli, Rosvita ricadde nell’oblio: soltanto nel 1707 furono infatti ripubblicate le sue opere già note, e due anni dopo furono dati per la prima volta alle stampe i Primordia. Le nuove stampe destarono un qualche interesse all’interno dell’illuminismo tedesco, ma dovette passare ancora quasi un secolo prima di assistere ad un vero risveglio: dal 1845, data di pubblicazione dell’edizione di Charles Magnin (Parigi 1845), accompagnata da una traduzione in francese, la popolarità di Rosvita non conobbe più flessioni, e, paradossalmente, uno dei fattori che più contribuirono a determinarla fu un violento attacco contro l’autenticità della sua opera da parte di un professore austriaco (Joseph Aschbach), il quale sosteneva che le opere a lei attribuite fossero in realtà un falso compiuto da Conrad Celtis e dai suoi amici. Questa tesi provocatoria suscitò, soprattutto in Germania, la reazione di studiosi autorevoli, che, per confutarla, sottoposero i testi a minuziosi esami linguistici, stilistici e letterari: il moltiplicarsi degli studi facilitò e promosse l’allestimento di nuove edizioni critiche. Nel frattempo, la traduzione del Magnin aveva attirato sui drammi di Rosvita l’attenzione del romanziere Anatole France (1844-1924 // Nobel per la letteratura nel 1921), che ne sollecitò una messa in scena al teatro dei burattini, il più adatto, a suo parere, a rendere la particolare atmosfera dei testi: nel 1889, a Parigi, le marionette di Monsieur Signoret rappresentarono l’Abraham (Abramo, o Caduta e ravvedimento di Maria, nipote dell’eremita Abramo) Nel 1890, ancora suggestionato dalla lettura di Rosvita, Anatole France compose il romanzo Thais (Taide), rielaborando e sviluppando liberamente temi e personaggi del Pafnutius (Pafnuzio, o Conversione della prostituta Taide).

Ma France non fu il solo scrittore moderno sedotto dal fascino di Rosvita: un fascino che non cessa di essere esercitato, tanto che i suoi drammi circolano in tutta Europa anche in edizioni tascabili, e vengono anche rappresentati. A Gandersheim, l’appuntamento è annuale, ma rappresentazioni importanti si sono tenute e si tengono anche in diverse altre città.

 

1. Gallicano

Il dramma, certamente il meno riuscito dei sei, narra la conversione di Gallicano, comandante dell’esercito di Costantino. Fonte di Rosvita, un racconto agiografico, che univa la conversione di Gallicano e la passione dei martiri Gallicano, Giovanni e Paolo. In procinto di partire per una spedizione contro gli Sciti, Gallicano chiede all’imperatore la mano della figlia Costanza, che però ha deciso da tempo di consacrarsi alla verginità. Consapevole della necessità della spedizione, e fiduciosa nell’intervento della Provvidenza, Costanza consiglia al padre di acconsentire. Durante la spedizione, in cui lo seguono – per volere di Costanza stessa – Giovanni e Paolo, Gallicano si converte e, tornato vincitore, rinuncia spontaneamente alla promessa di matrimonio per votarsi al celibato. L’azione si colloca negli anni fra il 323 e il 330.

Dopo alcuni decenni, Gallicano sarà condannato all’esilio e fatto poi uccidere da Giuliano l’Apostata, come pure saranno fatti uccidere Giovanni e Paolo. Loro uccisore è Terenziano, il cui figlio, invasato dal demonio, svela il delitto paterno, viene liberato dal demonio e, assieme al padre, riceve il battesimo vicino al sepolcro dei due martiri.

Benché la materia sia lontanissima da Terenzio, è il dramma più ricco di reminiscenze letterali dalle commedie terenziane.

 

2. Martirio delle sante vergini Agape, Chionia e Irene

Fra i primi generi documentati nella letteratura cristiana latina ci sono gli Atti e le Passioni dei martiri: sono forme letterarie che non trovano precise corrispondenze nelle letterature classiche, e che presentano legami evidenti e talora espliciti col modello della passione di Cristo narrata nei Vangeli. Il genere fece la sua comparsa verso la metà del II secolo nella letteratura greca, e si sviluppò ampiamente con l'intensificarsi delle persecuzioni, continuando ad essere coltivato anche dopo che le persecuzioni, almeno ufficialmente, cessarono (IV secolo). La differenza fra Acta e Passiones consiste nel fatto che i primi riproducono i verbali del processo, mentre nelle Passioni la parte relativa al processo viene integrata col racconto dell'intero episodio, dall'arresto al processo alla condanna all'esecuzione.

La vicenda storica delle tre vergini, martirizzate a Tessalonica (Salonicco) nel 304, al tempo di Diocleziano, ci è nota attraverso una passio greca e una passio latina, ma Rosvita attinse ad una versione più breve, simile a quella riportata negli Acta sanctorum, una raccolta di documenti in sessantotto volumi, editi fra il 1643 e il 1940, che ripercorrono le vite dei santi  secondo l'ordine dei giorni delle rispettive memorie liturgiche.

Le tre sorelle, convocate dall’imperatore Diocleziano, rifiutano di sacrificare agli dei pagani; vengono perciò incarcerate e affidate al governatore Dulcizio, che, folgorato dalla loro bellezza e deciso a goderne, le fa rinchiudere in un locale vicino alle cucine, nel quale pensa di poter più facilmente realizzare i suoi desideri: vi si reca dunque di notte, ma, come preso da una follia improvvisa, anziché le fanciulle ha una sorta di amplesso con pentole e padelle. Quando esce, tutto nero di fuliggine, le sue guardie del corpo lo scambiano per una creatura infernale e fuggono spaventate, mentre i custodi del palazzo imperiale, non riconoscendolo, lo buttano giù per le scale. Per vendetta, Dulcizio ordina che le tre fanciulle vengano denudate ed esposte pubblicamente ad ogni insulto: sennonché le vesti rimangono miracolosamente attaccate ai loro corpi, rendendo impossibile denudarle. Informato dell’accaduto, Diocleziano affida il caso a Sisinnio, che, dopo aver invano cercato di convincerle ad abiurare, ordina che Agape e Chionia vengano arse vive: le fanciulle muoiono, ma i loro corpi restano coperti dalle vesti e miracolosamente illesi. Anche la sorella più giovane, Irene, rifiuta l’abiura, e Sisinnio ordina che venga condotta in un postribolo: i soldati che l’hanno avuta in consegna vengono però fermati da due giovani sconosciuti che, sostenendo di agire per ordine di Sisinnio, la prendono e la conducono in cima alla montagna. Sisinnio, informato, va con i soldati fino alle pendici della montagna, per riprendersela e punire chi si è preso gioco di lui: dopo aver girato a vuoto, come per effetto di un incantesimo, senza riuscire a salire sulla montagna, ordina che la giovane venga trafitta dal basso con una freccia. Irene muore serena.

L’episodio di Dulcizio alle prese con le pentole è quello che, da sempre, ha suscitato il maggior interesse degli studiosi. L’idea di far occhieggiare le ragazze dai buchi del muro, colme di ilarità, è tutta di Rosvita: non ce n’è traccia nella fonte agiografica, né ha legami col teatro Terenziano. È possibile supporre che la scena, mentre veniva letta, fosse anche mimata? Non possiamo certo saperlo, ma quasi certamente Rosvita non avrebbe potuto concepirla se non avesse mai assistito ad un mimo: e dove, se non alla corte Ottoniana?

Singolari affinità con questo dramma presenta una novella di Gian Francesco Straparola: precisamente, la novella di Carlo d’Arimino e Teodosia, narrata nel I libro delle Piacevoli notti.

 

3. Resurrezione di Drusiana e di Callimaco (o Callimaco)

Fonte della storia è un episodio degli Atti apocrifi di S. Giovanni apostolo, un vangelo in lingua greca del II secolo.

Callimaco arde di passione per Drusiana, moglie del nobile Andronico, ma la donna segue i precetti di Giovanni apostolo e, da tempo, professa col marito una vita di castità: rifiuta quindi tutte le profferte del giovane, temendo però, nel contempo, di non riuscire a farlo in per sempre. Temendo la propria stessa debolezza, chiede a Dio di farla morire, e viene subito esaudita. Andronico, disperato, cerca conforto presso l’apostolo Giovanni e, insieme, seppelliscono Drusiana: alla custodia della tomba viene posto un amministratore di Andronico, di nome Fortunato. Fortunato, dietro le insistenze di Callimaco, tradisce la fiducia del padrone e si lascia corrompere, mettendogli a disposizione il corpo di Drusiana: l’amante, accecato dalla passione, sta per profanare nel peggiore dei modi il corpo, quando appare un serpente che assale Fortunato e lo uccide col suo morso velenoso; Callimaco muore per la paura. Sennonché, per volere divino, Giovanni resuscita Callimaco, che si dichiara pentito e confessa le proprie colpe; resuscita anche Drusiana, che ottiene la resurrezione anche di Fortunato; quest’ultimo, però, gonfio di invidia e di superbia, non si pente, rifiuta la grazia della vita e viene quindi condannato alla morte eterna e alle pene dell’inferno.

Da notare che, quando S. Giovanni si reca alla tomba di Drusiana con Andronico, e Dio gli appare nella figura di un bellissimo giovane, per poi risalire rapidamente in cielo, è quasi impossibile non immaginare un qualche movimento che accompagnasse la lettura: anche nella lettura pubblica più semplice le ultime parole di Andronico («Con che rapidità è risalito in cielo!») sarebbero ben difficili da spiegare a meno che non si ‘vedesse’ il giovane sparire sotto gli occhi degli ascoltatori. Non c’è bisogno di immaginare complicazioni – poteva semplicemente salire una scala, o uscire dietro ai lettori – : ma immaginare un Andronico che legge la sua battuta, mentre il bellissimo giovane se ne sta tranquillo al suo fianco, sarebbe stato poco credibile allora come oggi.

 

4. Caduta e ravvedimento di Maria, nipote dell’eremita Abramo (o Abramo)

Questo dramma, generalmente considerato il capolavoro di Rosvita, si ispira all’ultima parte della Vita dell’eremita del IV secolo Abramo di Kidun: Abramo come pure il suo amico Efrem sono personaggi storici, mentre Maria è probabilmente una figura leggendaria.

Maria, rimasta orfana a soli sette anni, viene affidata allo zio Abramo, che, dopo essersi consigliato con Efrem, decide di consacrarla ad una vita di verginità, dedicata a Dio. Trascorsi vent’anni, Maria viene avvicinata da un giovane che, presentatosi in abito monacale, dopo diverse visite finisce con l’approfittare della sua innocenza. Sedotta e abbandonata, Maria fugge in città, dove vive facendo la prostituta: Abramo cerca nuovamente conforto e consiglio da Efrem, raccontandogli anche un sogno che Efrem interpreta positivamente. Dopo due anni, Abramo viene a conoscenza del luogo dove si trova la nipote: si traveste allora da soldato, abbandona l’eremo e si reca alla locanda dove Maria lavora, fingendo di essere un cliente. L’oste, all’inizio perplesso per l’età del forestiero, finisce col condurgli la giovane, che, sedutasi a tavola con lui, avverte immediatamente un profumo che le ricorda la vita virginale di un tempo; rimasto poi da solo con la nipote, Abramo rivela la sua identità e, dopo un commovente dialogo, riconduce Maria all’eremo. Con la preghiera, le umiliazioni e le penitenze, Maria cerca di rendersi degna del perdono divino, per sé e per gli antichi amanti. La vicenda, così come era iniziata, termina con un dialogo fra Abramo ed Efrem, in cui Efrem si rallegra per la conclusione felice della vicenda.

Da notare che i colloqui di Abramo con Efrem – come pure quello di Abramo con un imprecisato amico – servono sempre a dar conto del passare degli anni e a   far conoscere un accaduto altrimenti impossibile da ‘raccontare’.

 

5. Conversione della prostituta Taide (o Pafnuzio)

In apparenza simile al precedente, questo dramma è profondamente innovativo: Rosvita, forte del consenso suscitato dai primi quattro dialoghi, si esprime infatti con una libertà molto maggiore, allontanandosi dalla falsariga del modello agiografico al quale si ispira, e anche del modello Terenziano ci sono scarsissime tracce; trova inoltre ampio spazio la trattazione di temi filosofico-scolastici, già presenti, ma appena accennati, nelle scene di apertura del III e IV dialogo.

L’eremita Pafnuzio, lasciato temporaneamente il deserto della Tebaide (in Egitto), in cui vive con i suoi discepoli, si reca in una città vicina, in cui si trova Taide, giovane e bella prostituta, circondata da innumerevoli amanti. Fingendosi inizialmente un cliente, l’eremita convince poi la giovane a cambiare vita e ad affrontare espiazione e penitenza: radunati i suoi amanti, Taide brucia davanti a loro tutte le ricchezze accumulate e se ne va con Pafnuzio, che l’accompagna ad un vicino convento di monache. Qui, in una celletta che comunica con l’esterno solo grazie ad una piccolissima finestra, dalla quale Taide riceve ogni giorno pane e acqua, la giovane trascorre tre lunghi anni. Intanto Pafnuzio, pensando che la pena imposta possa essere già stata troppo severe, si consulta con l’eremita Antonio: ed ecco che, poco dopo, al discepolo di Antonio, Paolo, appare una visione, in cui nel cielo si fa festa per l’arrivo di Taide. Pafnuzio si reca allora al convento, dove assiste Taide fino all’ultimo, rivolgendo infine a Dio la preghiera di concederle la grazia del paradiso.

Nel lunghissimo colloquio fra Pafnuzio e i discepoli con cui si apre il dramma (un vero e proprio dialogo scolastico), l’eremita insegna alcune nozioni di musica e di armonia: Rosvita ricorre cioè apertamente ad un’auctoritas scientifica, che consiste in parte nel De musica di Agostino, ma che, fondamentalmente riecheggia il De institutione arithmetica  di Boezio e il De nuptiis di Marziano Capella. Con un accorto lavoro di intarsio, Rosvita intreccia fra loro citazioni desunte da queste e altre opere tecniche sulla musica, riproponendole in forma dialogica e illustrando così i fondamenti della teoria musicale e dell’armonia. Ma cosa c’entra questa scena? Qual è il suo significato?

Alcuni l’hanno considerata inutile ed estranea al dramma. Alcuni hanno visto in Pafnuzio la proiezione simbolica di Rosvita, e nei discepoli alcune monache meno istruite di Gandersheim: a quelle che si facevano forti della massima paolina sulla predilezione di Dio per gli stolti, Rosvita rimprovererebbe lo scarso interesse per lo studio, inteso invece come mezzo di glorificazione del Signore. Sennonché Pafnuzio, nel prosieguo della vicenda, è soprattutto il buon pastore che riconduce all’ovile la pecorella smarrita, identificandosi simbolicamente con Gesù: identificazione simbolica confermata anche dall’atteggiamento di comprensione verso la prostituta pentita (Gesù con Maddalena) e da altre sue connotazioni.

C’è chi sostiene poi che la scena iniziale costituisca di fatto la fondamentale premessa teorica del dramma, perché il fine ultimo di Pafnuzio sarebbe, in sostanza, quello di ricondurre l’elemento discorde (Taide) nell’ambito delle norme di concordia che regolano la musica umana.

È un dramma in cui predominano tinte forti, c’è un forte realismo (soprattutto nella scena in cui Taide inorridisce di fronte alla piccola e oscura cella), e c’è, soprattutto, una grande padronanza di tecnica drammatica: il che potrebbe spiegare in parte l’interesse suscitato dalla leggenda di Taide nella versione di Rosvita presso gli scrittori e gli artisti più disparati, quali Erasmo da Rotterdam (in uno dei suoi Colloquia), o Anatole France (nel romanzo Taide). E non dimentichiamo che, proprio per espresso desiderio di Anatole France,questo dramma, unitamente a quello di Maria e Abramo, fu rappresentato per la prima volta a Parigi, al teatro dei burattini di Monsieur Signoret.

 

6. Martirio delle sante vergini Fede, Speranza e Carità (o Sapienza)

Leggenda relativamente tarda (VII secolo), destituita quasi sicuramente di basi storiche e curiosamente ambientata ai tempi dell’imperatore Adriano, sotto il quale non furono celebrati processi contro i cristiani, la storia riguarda una donna straniera di nome Sapienza (identificata con Santa Sofia a partire dall’VIII secolo) e le sue tre figlie.

Sapienza viene accusata da un funzionario di Adriano, Antioco, di esortare le donne ad abbandonare la religione dei padri per abbracciare la fede cristiana. Condotta con le figlie davanti all’imperatore, nel corso dell’interrogatorio esibisce la propria cultura aritmetica, rispondendo ad una semplice domanda sull’età delle figlie attraverso una lunga disquisizione sui numeri 8, 10 e 12: spazientito, l’imperatore la invita a sacrificare agli dei pagani e, di fronte al suo rifiuto, ne ordina l’incarceramento. Ricondotta davanti a lui dopo tre giorni, Sapienza risponde che né lei né le figlie cederanno. La parte centrale del dramma ricalca lo schema classico dei processi ai cristiani, ma il processo è connotato da una grande perfidia e crudeltà: vengono prima interrogate, torturate e uccise, una per volta, dalla più grande alla più piccola, le tre figlie, per far sì che Sapienza soffra di più. Morte le figlie, Sapienza, dopo averle sepolte, prega Dio di farla morire, e la sua preghiera viene accolta.

 

 

Parliamo infine della Prefazione al libro dei sei Dialoghi drammatici e dell’Epistola indirizzata da Rosvita agli «uomini sapienti, fautori di questo libro».

 

Nella Prefazione, l’autrice illustra le motivazioni che l’hanno spinta a scrivere i Dialoghi e si giustifica per le sue numerose manchevolezze. La molla che la spinse – afferma – fu il timore che molti cristiani, attratti dalla lingua e dallo stile di Terenzio, abbandonassero la lettura dei testi sacri per dedicarsi a quelli profani: temeva cioè che la bellezza della forma potesse indurre all’interesse per i contenuti. Contrapponendo alle «oscene sconcezze di donne senza pudore» «l’encomiabile illibatezza di sante vergini cristiane», sperava dunque di impedire la deriva terenziana: facendo leva però sui contenuti, in quanto incapace di competere con Terenzio a livello formale.

Peter Dronke (Donne e cultura nel Medio Evo), a proposito di questa prefazione, ha parlato di «stupefacente tattica», asserendo che Rosvita «dice poco di ciò che vuol dire davvero, e intende dire quasi nulla di ciò che effettivamente dice». In effetti, nulla di ciò che Rosvita afferma può essere considerato vero alla lettera: nel quarto secolo c’erano – è certo – uomini di lettere cristiani che preferivano leggere autori pagani per via del loro stile elegante (le ammissioni di debolezza di Agostino e Gerolamo sono particolarmente illuminanti); ed è anche possibile che alla corte di Ottone un pugno di letterati facesse ancora quel paragone stilistico che si risolveva a favore dei pagani: ma che molti cattolici mostrassero tale preferenza al tempo di Rosvita, o avessero le conoscenze per distinguere gli stili, è quasi certamente una pesante esagerazione, e quasi certamente uno scherzo. Lo scherzo si fa chiaro, e più insolente, nella frase successiva: ché è impossibile immaginare dei lettori devoti a Terenzio anziché, piuttosto, a Virgilio o a Cicerone. Questa potrebbe essere semmai un’allusione alla passione di Bruno per Terenzio.

Coloro che leggono Terenzio – aggiunge Rosvita – diventano corrotti: e lei? Lei, forse, legge Terenzio per salvare quei letterati da se stessi. E grazie all’ironico equivalente latino del suo nome Clamor validus (Voce squillante = antico sassone Hrothsuith), Rosvita arriva a dire che scrivere commedie cristiane e caste in stile Terenziano, redimendo quindi il genere, sia la sua missione profetica.

Troviamo nella Prefazione il diminutivo ingeniolum: il suo piccolo ingegno celebrerà – dice Rosvita – caste vergini, mentre il gran genio di Terenzio si era volto a donne lascive: ma come dimenticare che in due commedie le eroine non sono affatto caste vergini? Tuttavia questo viene subito spiegato: Rosvita deve ritrarre l’amore sessuale e le follie d’amore, per quanto imbarazzante sia, perché ha il grande compito di mostrare il meccanismo della redenzione. Il peccato deve essere mostrato in tutta la sua capacità di seduzione per dimostrare quanto sia sublime astenersene: tuttavia, argomentando ciò, Rosvita non solo usa termini e giochi di parole caratteristici del linguaggio amoroso pagano, ma modella anche la propria controparte sull’antico paradosso dell’amore umano: per sperimentare i dolci piaceri dell’amore, l’amante deve prima conoscerne le amare pene.

Naturalmente – ci assicura –, lei non scrive bene come Terenzio: tuttavia, dicendo che le sue commedie sono profondamente diverse da quelle terenziane, afferma in fondo, indirettamente, la propria originalità. E quando dice che non vuol mettersi a competere con chi è ben più colto di lei, dice in fondo che sta tentando qualcosa che nessuno di loro ha tentato.

Anticipando poi la critica di essere vanagloriosa, Rosvita afferma che il suo ingenium deve essere impiegato al servizio di Dio, che glielo ha donato: e dunque nessuna censura umana può ridurlo al silenzio.

«Certo, se questa mia forma di devozione riesce gradita a qualcuno, – conclude –, me ne rallegrerò; se invece, o per una sorta di disprezzo nei miei confronti, o a causa della rozzezza della lingua difettosa da me usata, essa non piace a nessuno, ciò che ho fatto fa tuttavia bene a me stessa, perché, mentre in altre operette, frutto del mio modesto talento, abbellisco lo scarso valore del mio lavoro ricorrendo alla composizione in metri esametri, in questa, lo scarso valore è vincolato dalla struttura drammatica, e così evito, astenendomene, le pericolose raffinatezze dei pagani»: come a dire che scrivere le fa bene, piaccia o no ciò che lei scrive, e che scrivere è una sorta di antidoto contro i piaceri pagani. È evidente che Terenzio le piace, e ironicamente afferma che scrivere alla maniera di Terenzio è l’antidoto contro quello stesso piacere: un antidoto che comunque le procura ugualmente piacere.

Esplicitamente, peraltro, Rosvita afferma di essersi ispirata a Terenzio per lo stile e la forma, mutando i contenuti: in realtà, il suo debito stilistico verso Terenzio non è affatto grande, ma limitato a manierismi, frasi, tecniche di botta e risposta, personaggi introdotti nella prima scena per fornire informazioni basilari. Il punto in cui Rosvita deve di più a Terenzio non è lo stile, ma l’argomento, con la ragazza-vittima che alla fine trionfa, con la sfera della tenerezza, del trucco e dell’inganno e del travestimento, della pronta sconfitta dei prepotenti. E Rosvita non poteva non esserne consapevole. Si può allora supporre che abbia steso la sua prefazione, con la sua elusiva difesa per essersi rifatta a Terenzio, in modo deliberatamente ingannevole, creandosi tutto un arsenale di civetterie letterarie, per imporre alla fine considerazione e rispetto. Rosvita ben conosceva il differente livello delle aspettative per gli uomini e le donne, e per le loro capacità: la sua insistenza, quasi comica, sulla debolezza delle donne non delude l’aspettativa del lettore comune, ma paradossalmente mostra la forza delle donne. Rosvita si muove tra i valori di Terenzio e quelli degli scrittori agiografici, tra il divertimento e l’edificazione morale: votata alla vita cristiana e ai suoi valori, non dimentica mai i suo corrispettivi pagani, e sempre, quando si sofferma con maggior ardore sui valori superiori, percepisce come l’eco di quelli ‘inferiori’. Le sue condanne della lussuria, nelle commedie, ma già anche nei poemetti, non sono incompatibili col fascino esercitato su di lei: ché Rosvita sa bene come la pecora smarrita e ritrovata sia più interessante di quelle che non necessitano di penitenza. La castità è un tema coinvolgente, sia per il suo splendore, quanto per la sua implicita ombra di dissolutezza.

 

Per quanto concerne l’Epistola, che di fatto spiega le ragioni che convinsero Rosvita a passare dalle Leggende ai Dialoghi, i dotti fautori del libro cui  è indirizzata potrebbero identificarsi nei monaci del monastero di S. Emmerano a Ratisbona, ai quali la canonichessa aveva forse inviato le sue composizioni dietro suggerimento della badessa Gerberga (che dei monaci aveva a suo tempo ricevuto gli insegnamenti nelle discipline del trivio): proprio nel monastero di S. Emmerano furono infatti scoperti i drammi di Rosvita, da Conrad Celtis, nel 1494.

Potrebbero anche essere, però, personaggi della corte ottoniana, e, nello specifico, il fratello dell’imperatore, Bruno, e il suo circolo: essendoci fondate ragioni di credere che, alla corte ottoniana, dietro incoraggiamento di Bruno e di altri le commedie di Terenzio venissero lette ad alta voce, distribuendo le parti, si può supporre che proprio a loro Rosvita avesse inviato i suoi primi cinque drammi. E si può arrivare a pensare che i fautores avessero mostrato il proprio gradimento facendo leggere pubblicamente i drammi di Rosvita, in modo analogo alle commedie terenziane.

Di chiunque si tratti, Rosvita,  riferendosi presumibilmente ai primi quattro Drammi (come sembra suggerire la tradizione manoscritta), ringrazia i destinatari dell’epistola per averli giudicati positivamente: lei, che pure è una piccola donna, confortata dal loro parere, continuerà a scrivere, senza temere il giudizio dei dotti, e rendendo grazie a Dio per le capacità che le ha dato in dono.

Chiede infine che leggano il libretto, lo correggano con attenzione e glielo rimandino, facendo sì che lei possa rendersi pienamente conto dei suoi errori.

La gratitudine per il giudizio favorevole, l’affettazione e l’ostentata sottomissione femminile sembrano inizialmente essere senza limiti. Aveva «quasi smesso di comporre opere di questo genere» – dice –, ma ora ha trovato la sicurezza di cui aveva bisogno per continuare. Procede poi ad un’analisi della sua vocazione poetica, ed è convinta che vi sia un elemento divino nella creatività umana e nella sua: spaventata dal peso che il dono di Dio le impone, non ha però timore di adattare a se stessa le parole di Paolo (Epistola ai Corinzi, I, 15,10) «Per grazia di Dio sono quel che sono»: una citazione che i suoi fautores non potranno non riconoscere, riconoscendo così anche in lei la mescolanza di orgoglio e di umiltà dell’apostolo. Dopo di che protesta la propria inadeguatezza e ignoranza: ma lo fa usando un linguaggio deliberatamente ricercato, con espressioni greche. E poi, nei pensieri che seguono, quando parla dei brandelli di stoffa che ha strappato dal mantello della Filosofia, indica che, incoraggiata dagli apprezzamenti per i suoi primi lavori, si sente incitata a tentare di dare agli ultimi una dimensione ulteriore, filosofica, con l’ausilio di materiale tratto – come il riferimento al mantello – da Boezio: tuttavia, il modo in cui lo dice è di nuovo a due facce. Rosvita sapeva che, nel De consolatione Philosophiae (Consolazione della Filosofia) di Boezio, chi strappava pezzi dal mantello di Filosofia erano degli pseudofilosofi, che in realtà degradavano la filosofia stessa, e dunque la sua affermazione parrebbe caratterizzata da estrema modestia; sennonché, continua dicendo che, attraverso questa sua opera, Dio sarà glorificato, e lo sarà tanto più quanto più si ritiene che l’intelligenza di una donna sia lenta. Se si pensa all’identificazione largamente riconosciuta di Philosophia con Sapientia (ovvero con la Sapienza divina), è ovvio che Rosvita si serve dell’indiretta citazione boeziana in maniera del tutto autonoma: non può infatti dire, contraddittoriamente, che Dio – la Sapienza divina – sarà glorificata dal proprio tentativo, quando il tentativo di cui parla è proprio quello che dovrebbe degradare la Sapienza stessa.  Non è forse improbabile, allora, che, giocando sul luogo comune dell’inferiorità intellettuale delle donne, Rosvita voglia ricordare ai suoi dotti interlocutori come Philosophia  sia in realtà una ‘donna’, una sorta di ‘intelletto femminile’ al quale essi per primi si ispirano.

Alla fine, col consueto atteggiamento sottomesso, chiede ai suoi patroni che il proprio lavoro sia corretto, e aggiunge: «con non minor cura che se fosse opera vostra». Forse sta solo cercando benevolenza, ma forse mire a mettersi al pari con loro, in una sorta di sfida.

Del resto, aspetti di forte autoconsapevolezza e di rivendicazione ‘femminile’ sono riscontrabili anche all’interno dei suoi scritti. Limitandoci ai Dialoghi drammatici, possiamo ad esempio trovarli nel secondo (Martirio delle sante vergini Agape, Chionia e Irene), in una serie di echi verbali che collegano il Dialogo stesso con la Prefazione e l’Epistola: nella Prefazione, Rosvita si scusa per il fatto di trattare oscene sconcezze lascivarum feminarum (di donne senza pudore), ammette di arrossire dalla vergogna nel volgersi a temi lascivi, e tuttavia sta tentando di dimostrare come «risulti vittoriosa la fragilità femminile e sia invece domata e confusa la forza maschile»; nell’Epistola, parla del proprio lavoro come quello di vilis mulierculae (una donnetta da poco); nel Dialogo, le tre vergini sono definite viles mulierculae (IX) da Diocleziano, per Dulcizio e Sisinnio sono lascivae puellae (VII, IX), e alla fine sono gli uomini ad arrossire, dato che la loro dimostrazione di forza è stata dileggiata da una tenella virguncula (verginella in tenera età). Ancora, i maschi pagani attribuiscono continuamente la propria impotenza di fronte a fanciulle cristiane ai maleficia di quelle che sono invece – sempre – le innocenti, la cui magia viene dalla grazia divina, la cui lascivia è soddisfatta nell’amore divino: e potremmo dire che anche Rosvita, come le fanciulle cristiane, «beffa in modo strano», beffa per mezzo della propria arte, e, al posto dei maleficia, ha l’innocente magia della finzione drammatica, che le viene dalla grazia di Dio; e l’intenzione della sua lascivia nello scegliere il modello terenziano è benedetta in quanto volta alla celebrazione dell’unione con l’amore divino.

 

 

Insomma, anche se è sicuramente improprio vedere in Rosvita una precorritrice del femminismo, è innegabile che nei suoi drammi le figure femminili siano sempre vincenti, e che lei stessa sia una figura vincente: all’immagine negativa della femmina instrumentum diaboli, molto cara a tanti esponenti della religiosità medievale, Rosvita oppone sistematicamente figure di donne capaci di essere o di diventare formidabile strumento della grazia divina; all’immagine della donna che non può trovar posto nel mondo della letteratura, Rosvita oppone se stessa.

 

A sollecitare il grande interesse verso la figura e l’opera di Rosvita ha senz’altro contribuito la scelta delle tematiche da lei proposte nei Dialoghi, con tentativi di stupro, scene di necrofilia, momenti di vita da bordello, violenze e torture sadomasochistiche… ma sicuramente non c’è solo questo. Innanzi tutto, infatti, i suoi sei drammi rappresentano una assoluta novità dal punto di vista del genere letterario, perché   – a prescindere dalla loro rappresentazione o meno – si configurano comunque come una scrittura teatrale, dopo secoli di silenzio pressoché totale della stessa; in secondo luogo, i drammi stessi, oltre a contenere parti estremamente originali, sono molto interessanti dal punto di vista della struttura e delle tecniche narrative; infine, l’opera complessiva di Rosvita – come si evince anche dalla lettura dei soli drammi –, oltre che dal punto di vista teatrale,   rappresenta una grossa novità dal punto di vista della scrittura femminile, perché ci testimonia di una evoluzione estremamente significativa: se in tutte le donne, che nei secoli prima di lei si erano dedicate alla scrittura, più o meno consciamente albergava già la convinzione della potenza della parola, per la prima volta, con lei, questa convinzione si fa talmente profonda da farle rivendicare, consapevolmente, il proprio essere una ‘scrittrice’.