Se è vero che solo a partire dall’Ottocento si registra una vera e propria fioritura della produzione letteraria femminile, se è vero che è l’Ottocento il secolo in cui si afferma di fatto la figura dell’autrice, è altrettanto vero che le donne – quelle che riuscivano ad avere una istruzione – hanno sempre scritto. Il problema è che, per lunghissimo tempo, la scrittura femminile è stata relegata – e si è autorelegata – nello spazio del privato, non ha trovato le vie per la ‘pubblicazione’, non è diventata ‘produzione letteraria’: e così, per lunghissimo tempo, la presenza di donne scrittrici è stata per così dire cancellata dalle varie storie della letteratura, fatta eccezione per quelle che si occupano specificamente di quella storia parallela che è la storia del genere femminile.

Nell’antica Roma, le donne delle famiglie patrizie sapevano leggere e scrivere, e di molte figure femminili le fonti illustrano i pregi e la cultura nelle sue varie manifestazioni: sappiamo ad esempio che, nel 42 a. C., Ortensia, figlia del famoso oratore, pronunciò un’orazione nel foro (Valerio Massimo, Fatti e detti memorabili, IX, 8, 3), e che Agrippina Minore scrisse un’opera di carattere autobiografico, ricordata da Tacito (Annali IV, 53,1-2), Plinio il Vecchio (Storia naturale, VII, Pref. e 46) e Cassio Dione (LX, 33,1); di sicuro Terenzia scriveva lettere al marito Cicerone, così come Elvia scriveva al figlio Seneca; Plinio il giovane elogia lo stile delle lettere della moglie di Pompeo Saturnino (Epistole I, 16); la Satira 6 di Giovenale ci informa sull’ interesse che le donne nutrivano per la letteratura… Ciononostante, in tutta la letteratura latina pagana, noi troviamo un'unica voce femminile: quella di Sulpicia, con le sue sei elegie indirizzate a Cerinto.

Nel I secolo a. C. Tibullo componeva i suoi versi: sotto il suo nome, la tradizione manoscritta ci ha consegnato tre libri di Elegie, di cui però solo i primi due si attribuiscono concordemente a lui; il III libro contiene invece diverse composizioni di attribuzione incerta, su cui esiste una grande varietà di ipotesi e di proposte critiche. Le elegie 8-18 di questo III libro sono definite, nel loro complesso, il "romanzo" di Sulpicia e Cerinto: divisibili in due gruppi, le elegie 8-12 sono incentrate sull’amore di Sulpicia e Cerinto, mentre le elegie 13-18 consistono in brevi messaggi d'amore rivolti da Sulpicia a Cerinto. Cerinto è un personaggio del tutto sconosciuto, forse identificabile col Cornuto di cui Tibullo parla in due elegie del II libro; quanto a Sulpicia, essa sarebbe probabilmente figlia di quel Servo Sulpicio Rufo di cui parla Cicerone nella sua orazione In difesa di Murena. Alcuni hanno supposto che Sulpicia sia autrice del secondo gruppo di elegie, e che, partendo da esse, Tibullo abbia poi composto quelle del primo gruppo; altri hanno addirittura sostenuto che sia Tibullo l’unico autore del "romanzo”, cancellando così anche la presenza dell’unica voce femminile consegnataci dalla tradizione manoscritta: in ogni caso, nel panorama letterario di Roma antica, i versi di una donna ci sono giunti solo perché conservati all’interno di un corpus maschile, laddove tutte le altre espressioni di scrittura femminile sono state condannate all’oblio.

Dopo Sulpicia, il primo nome femminile che può capitare di incontrare è presente nella storia della letteratura cristiana, ed è quello della matrona romana Proba Petronia, moglie di un prefetto di Roma, convertita al cristianesimo, e autrice, agli inizi o attorno alla metà del IV secolo, di un centone in esametri virgiliani. Frutto di abilità tecnica, definiti sprezzantemente da San Gerolamo «puerili e simili a giochi di ciarlatani» (Epistola 53), i Centones (da cento, che in origine indicava un panno formato da pezze di tessuti vari) erano composizioni in cui si utilizzavano versi di poeti classici, o parti di versi, per formarne altri di significato totalmente diverso da quello originario: il centone di Petronia, di seicentonovantaquattro esametri, utilizza Virgilio per narrare episodi del Vecchio e Nuovo Testamento, ed è considerato il frutto migliore della poesia centonaria latina cristiana.

Un’altra figura femminile presente nei vari manuali di letteratura latina o di letteratura latina medievale è quella di Egeria (o Eteria), ricordata soprattutto per l’importanza del suo Itinerario dal punto di vista della storia linguistica: l' Itinerarium (o Peregrinatio) Egeriae (o Aetheriae) ad loca sancta, collocabile approssimativamente alla fine del IV secolo, ci testimonia infatti ampiamente fatti linguistici propri dell’uso corrente dell’epoca.

Dopo Egeria, le figure femminili solitamente ricordate nei manuali di storia della letteratura latina medievale sono fondamentalmente tre: Rosvita di Gandersheim (X secolo), Eloisa e Ildegarde di Bingen (XI/XII secolo).

Nell’arco di circa tredici secoli, dunque, a partire da Sulpicia, nelle varie storie della letteratura latina e medievale troviamo generalmente ricordate soltanto sei donne scrittrici: e, se è vero che dal mondo romano pagano, fatta eccezione per i carmi attribuibili a Sulpicia, scritti femminili non ci sono stati proprio tramandati, la stessa cosa non può dirsi per quanto concerne la tradizione manoscritta successiva, a partire dal III secolo d. C.. Eppure la presenza degli innumerevoli ed interessanti esperimenti di scrittura femminile latina, di cui si ha testimonianza, non trova visibilità alcuna e continua ad essere troppo, se non completamente, trascurata: e il discorso non cambia di molto nemmeno se parliamo di letteratura in volgare.
Per quanto concerne la poesia, le trovatrici, che composero in provenzale, occupano un posto importante, almeno a giudicare da quanto sappiamo: conosciamo infatti i nomi di una ventina di poetesse, ma solo di due possediamo più di una composizione.
Nel mondo anglonormanno, abbiamo le opere di Maria di Francia, ma non abbiamo alcun ‘poema personale’ di donne del nord della Francia, o inglesi.
Lo stesso vale per la Germania e le Fiandre, fino alle poetesse mistiche del XIII secolo.
In Italia, fra i primi poeti in volgare, solo la donna nota col nome di Compiuta Donzella compare fra i toscani del Duecento.
In Spagna e in Portogallo, le canzoni sopravvissute e messe in bocca a donne (le cantigas de amigo) sono in realtà composte da uomini: anche se è del tutto verosimile che, oltre a recitarle, le donne ne componessero, ed è ipotizzabile che alcune ci siano conservate sotto nomi maschili.

Vero è che, per tutta una serie di ragioni storiche e sociali, le donne non erano spesso portate a rivendicare la propria identità di 'autrici', ma, anche dopo che iniziarono a farlo, la situazione rimase sostanzialmente invariata.

La prima a porsi apertamente come ‘scrittrice’, segnando ufficialmente l’ingresso della donna nel campo delle lettere, fu Christine de Pizan, che scrisse le sue innumerevoli opere in volgare, fra il 1395 e il 1405: fra queste, La Cité des dames (La città delle donne), un testo sorprendente, che, servendosi della Bibbia come impianto per la costruzione morale e allegorica di una città utopica, mostra tutte le virtù delle donne del passato, pagane e bibliche.
Sennonché, anche dopo Christine, e anche col trionfo dell'umanesimo, lo spazio letterario non assunse per la donna le dimensioni che ci si sarebbe potuti attendere.

Limitandoci all'Italia, anche se nel 1559 Ludovico Domenichi curava le Rime diverse di alcune nobilissime e virtuosissime donne, anche se già allora non era nuovo il riconoscimento del posto che spettava alle rimatrici nella grande fioritura della lirica, nei più comuni manuali di storia della letteratura italiana, per l'età umanistica, sono ricordate per lo più solo tre scrittrici, Vittoria Colonna, Veronica Gambara e Gaspara Stampa.
Eppure, a non voler parlare delle religiose, si conoscono anche i nomi e gli scritti di innumerevoli altre donne.

Sia nel Medioevo che nell’umanesimo, le donne che, fra i loro molteplici interessi, coltivarono anche lo scrivere furono solitamente circondate da profonda ammirazione: un’ammirazione rivolta alla loro intelligenza e alla loro cultura, ma che solo raramente riuscì a tradursi in riconoscimento della loro capacità di scrittura. Come se il riappropriarsi della parola da parte della donna non potesse andare oltre alla parola detta: come se la vittoria della penna sulla conocchia, di cui già parlava anche Christine de Pizan, mostrasse una pericolosità eccessiva.

Vibia Perpetua, Paola, Eustochio, Marcella, Blesilla, Paolina, Amalasunta, Gudelina, Brunilde, Radegonda, Eucheria, Erchenefrega, Baudovinia, Berthgyth, Hugeburg, Dhuoda, Frau Ava, Costanza, le ragazze di Ragensburg, Trotula de Ruggiero, Herrada di Landsberg; e poi ancora, nell’umanesimo italiano, Alessandra Macinghi Strozzi, Isotta Nogarola, Laura Cereta, Barbara Torelli, Cassandra Fedele, Isabella Morra, Olimpia Morata, Tullia d'Aragona, Laura Terracina, Chiara Matraini, Laura Battiferri, Francesca Turrini Bufalini, Veronica Franco, Isabella Andreini… sono state tutte cancellate dal panorama letterario, o relegate al ruolo di ‘minori’. Sennonché, in tutte queste donne, più o meno profondamente e più o meno consciamente, alberga la convinzione profonda della potenza della parola: e, nella distinzione assoluta fra uomo e donna – teorizzata nel Medioevo e a lungo persistente – , per cui la donna ha di fatto a che fare con le res (con la vita materiale), mentre il mondo delle parole è dominato dall’uomo, la loro convinzione è ‘rivoluzionaria’ e le loro parole meritano di essere conosciute.